La Brigata Lia è nata dalle Brigate Volontarie per l’Emergenza Milano, iniziativa nata per supportare la popolazione durante l’emergenza Covid-19.
Come Brigata Lia ci occupiamo del Municipio 9. Mail a: brigatalia@gmail.com
DIFFONDIAMO SOLIDARIETÀ, NON FACCIAMO CARITÀ
Abbiamo passato anni, se non decenni, a sentirci ripetere il mantra del “privato è bello”, anni di politiche liberiste in cui coalizioni di ogni colore hanno governato in nome del profitto di pochi/e escludendo milioni di persone dal diritto ad una vita dignitosa.
Oggi, mentre un’élite continua a ingrossare i propri portafogli, il resto della popolazione vede peggiorare le proprie condizioni di vita anche in seguito ai pesanti tagli al welfare.
L’epidemia ha accelerato questo processo mettendo a nudo, in Lombardia in modo particolare, tutte le falle di un modello di sviluppo incompatibile con l’umanità e la natura.
Ci teniamo a ribadire che la Brigata Lia aiuta i/le dimenticati/e e gli/le abbandonati/e dal tritacarne del capitalismo, ma lo fa diffondendo solidarietà e giustizia sociale.
Uno scanner in grado di “colpire” fino a una distanza di sette metri. Un piccolo led sulla visiera. E un altro, più grande, su un tablet. Il comando provinciale dei carabinieri di Milano ha avuto in dotazione due “Smart helmet”, un caschetto speciale che permette di rilevare la temperatura corporea delle persone anche in lontananza.
Commenti disabilitati su A Milano i carabinieri con gli speciali “Smart Helmet”, i caschi che misurano la febbre a distanza „Milano, carabinieri in metro con lo “Smart helmet”: il casco che rileva la febbre a distanza“ | tags: Milano, poliziavirus, smart helmet, termoscanner | posted in (Auto)Controllo sociale/repressione
Da oggi parte la campagna “Ora a casa restateci voi” per chiedere le dimissioni dirette della giunta Fontana dopo la gestione disastrosa dell’epidemia in Lombardia (di cui abbiamo già avuto modo di parlare anche noi in diversi approfondimenti in questi due mesi). Consapevoli che le responsabilità del disastro non si fermano alla Regione ma sono molto più profonde e coinvolgono anche importanti pezzi del governo, del Comune di Milano, di Confindustria e Confcommercio, convinti che la soluzione non sia il commissariamento ma la fine di questa classe tecnico-politica, sosteniamo l’appello per iniziare a farla finita con i signori verde-nero-azzurri della destra lombarda.
“Non era colpa del personale, ma della mancanza del personale”, scriveva Bruno Le Dantec nel suo articolo di qualche settimana fa denunciando la situazione degli ospedali e delle residenze per anziani a Marsiglia e dintorni. Allargando lo sguardo dalla Francia alla Spagna e all’Italia aggiungeva: “Al di là della fatalità del virus, i popoli dei nostri tre paesi non mancheranno di ricostruire il collegamento tra la carenza di mascherine, tamponi, letti, apparecchiature respiratorie […] e la superficialità con cui i governi hanno ignorato i campanelli d’allarme del personale ospedaliero”.
Uno scampanellio che in Italia è diventato ancora più forte da quando l’Istituto Superiore di Sanità ha condiviso i dati sulle fonti di infezione da Covid-19 di circa 4.500 casi accertati nelle prime tre settimane di aprile. Il 44% dei contagi sarebbe avvenuto nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), trasformandole in quei “cronicari” raccontati da Antonio Esposito pochi giorni fa.
Questi dati non hanno sorpreso medici, infermieri, operatori sanitari, dipendenti delle cooperative e molte altre figure impiegate all’interno delle Rsa, né i parenti degli ospiti, in particolare in Lombardia dove queste strutture hanno registrato quasi duemila decessi da Covid negli ultimi due mesi. È stata l’insistenza dei lavoratori e dei parenti in cerca di spiegazioni a dare avvio alle inchieste della Procura di Milano, poi estese anche alle altre province della Lombardia, per “omicidio ed epidemia colposa” nelle Rsa lombarde.
Oltre alle singole strutture, le inchieste riguardano anche i vertici della Regione Lombardia per accertarne le responsabilità nella diffusione incontrollata del contagio, in particolare in seguito a una direttiva datata 8 marzo nella quale la Regione chiedeva che le Rsa accogliessero pazienti Covid dimessi dagli ospedali per poter liberare posti letto. Mentre numerosi cittadini si sono mossi per chiedere il commissariamento della sanità lombarda e gli organi di rappresentanza dei medici di base hanno espresso la propria preoccupazione per la gestione della “Fase 2” nella regione, la lotta dei lavoratori e dei familiari prosegue in molte Rsa.
È quello che sta accadendo anche ad Abbiategrasso, Biàin dialetto, un comune di oltre trentaduemila abitanti a meno di trenta chilometri dal centro di Milano, in direzione sud-ovest. Una città antica sorta al centro di una campagna feconda e resistente in prossimità delle acque del Ticino. Ad Abbiategrasso il primo caso di contagio da Covid è stato accertato il 9 marzo all’interno dell’Istituto Geriatrico Golgi, un tempo Pia Casa degli Incurabili e oggi parte del sistema di Rsa gestite dall’Azienda servizi alla persona (Asp) Golgi-Redaelli. Oltre alla sede di Abbiategrasso, l’azienda amministra altre due strutture situate a Milano e Vimodrone. Tra il 9 marzo e il 17 aprile il numero degli ospiti contagiati nella Rsa di Abbiategrasso è salito a novanta persone e sono avvenuti trentacinque decessi, diciassette dei quali certamente positivi al Covid e nove sospetti.
Lucio (nome di fantasia) racconta che il padre ottantenne era stato ricoverato all’inizio dell’anno nella parte dell’Istituto dedicata alla degenza residenziale temporanea per persone affette da demenza, l’area “Cure Intermedie ex Riabilitazione Alzheimer”. Suo padre avrebbe dovuto trascorrere lì alcuni mesi per ottenere maggiore stabilità e dare sollievo alla famiglia che stava attraversando un momento di fatica nella gestione quotidiana della malattia. Invece, come quasi tutti gli altri ospiti dell’ex Riabilitazione Alzheimer, si è ammalato di Covid. A partire dal 9 marzo ai parenti è stato definitivamente impedito di far visita ai propri padri e alle proprie madri a causa di alcuni “possibili casi” di infezione nel reparto. Dopo alcuni giorni di insistenza, i parenti hanno avuto la conferma della presenza di casi positivi e sono stati invitati a recarsi presso l’Istituto per ritirare i vestiti dei propri cari, da lavare a casa.
Lucio spiega: «Questa cosa dei vestiti si faceva anche prima però prima entravi più o meno tutti i giorni quindi non si accumulavano, c’era un cesto in camera, li prendevi e portavi quelli puliti. Il primo sabato dopo la notizia dei contagi c’è stato il delirio. Di solito andava mia sorella a prendere i vestiti, ma quando si è saputo che c’erano dei positivi non se l’è sentita perché ha i bambini piccoli. Alla fine sono andato io a prenderli e mia mamma, che ha più di ottant’anni, ha insistito per lavarli a casa sua. Quando sono arrivato fuori dal reparto c’era una montagna di vestiti, qualche operatore dietro un banco che provava a smistarli e i parenti che davano i numeri per sapere dall’istituto come fare a lavarli senza rischiare di infettarsi». Andare a prenderli con guanti e mascherina e lavare tutto a sessanta gradi, queste sono state le istruzioni fornite dal Golgi e seguite dai parenti, tra molte paure. Nel corso delle settimane la distribuzione dei vestiti è diventata più ordinata e i parenti in coda hanno iniziato a conoscersi meglio e a organizzarsi anche con gli operatori della struttura.
Parenti e operatori hanno contestato alla dirigenza del Golgi il silenzio stampa in cui questa si è chiusa a lungo, prima di dichiarare che la quasi totalità dei pazienti dell’ex Riabilitazione Alzheimer erano risultati positivi ai tamponi e che nel reparto c’erano stati due morti da Covid. Mentre i numeri crescevano anche nel resto della struttura, gli operatori si ammalavano e diminuiva il personale in attività, rendendo sempre più faticosa la cura degli anziani ricoverati. In seguito a numerose richieste e rivendicazioni dei lavoratori rimaste inascoltate dalla struttura e dagli enti locali e regionali responsabili della tutela della salute pubblica, Unione sindacale di base (Usb) Lombardia ha presentato un esposto alla Procura di Milano sulla situazione degli istituti gestiti dall’Asp Golgi-Redaelli. Le principali criticità segnalate dagli operatori rappresentati da Usb sono “la mancata assunzione di personale, l’inadeguatezza del numero di tamponi eseguiti a degenti e personale, l’assenza di una strategia di isolamento dei casi positivi, la carenza di dispositivi di protezione individuale, l’incapacità di individuare protocolli di sicurezza certi e univoci per tutta l’azienda, il mancato controllo sull’operato delle ditte appaltatrici in merito alla sicurezza e alla tutela della salute e la mancata abilitazione del laboratorio interno all’analisi dei tamponi”.
Nel corso dell’assemblea “a distanza” del personale (dipendenti e ditte esterne) organizzata dell’Usb dell’ASP Golgi-Redaelli del 20 aprile, Pietro Cusimano ha ripercorso le principali tappe della privatizzazione della sanità lombarda, di cui rappresentano una parte fondamentale le circa seicento Rsa private, su un totale di settecento strutture. Secondo Cusimano il principale interesse delle Rsa sarebbe diventato il profitto e non più la salute. Solo a partire da questo presupposto sarebbe possibile comprendere la progressiva riduzione e precarizzazione della forza lavoro all’interno delle Rsa, dove operano numerosi dipendenti di cooperative esterne. Nel corso dell’assemblea sono stati presentati anche i dati ufficiali forniti dall’Asp Golgi-Redaelli a metà aprile, in seguito alle pressioni dei parenti degli ospiti e dei lavoratori. Il numero dei dipendenti in malattia all’interno dell’istituto è cresciuto vistosamente nell’ultimo periodo, con 114 lavoratori in malattia nella struttura di Abbiategrasso, 145 a Vimodrone e 112 a Milano. Il numero dei dipendenti di ditte esterne attive nell’Asp Golgi-Redaelli in malattia è stato registrato solo a Vimodrone, mentre non si conoscono i dati di Milano e Abbiategrasso. Anche i tamponi, fatti sui dipendenti delle Rsa dopo numerose richieste da parte dei lavoratori, non sono stati eseguiti sugli operatori di ditte esterne, così come non sono stati distribuiti in modo uniforme i dispositivi di protezione individuale.
Nei giorni successivi all’assemblea dei lavoratori i Nas hanno ispezionato la Rsa di Abbiategrasso ed è stata ricostruita la dinamica dell’infezione, poi divulgata dalla stampa locale: il contagio sarebbe entrato nella struttura all’inizio di marzo attraverso due pazienti asintomatiche dimesse da ospedali delle vicinanze e ricoverate nella Rsa per riabilitazioni. Nel giro di alcuni giorni le due donne, di cui una ricoverata nell’ex Riabilitazione Alzheimer, avrebbero presentato i sintomi, quando ormai la diffusione del virus era avvenuta nell’istituto. Ad oggi non sono stati effettuati tamponi sul personale della Rsa di Abbiategrasso, mentre anche in un’altra struttura per anziani presente nel comune sono stati accertati numerosi casi di contagio. Alla lotta dei parenti e dei lavoratori, nelle ultime settimane si sono uniti anche cittadini, giornalisti e militanti locali per chiedere chiarezza e giustizia alle aziende sanitarie e alle istituzioni. Nel frattempo, anche il padre di Lucio non smette di lottare dentro al suo reparto, «come un vero leone del Ticino che è sopravvissuto alle bizze del fiume e non si spaventa di certo davanti al virus». (gloria pessina)
L’emergenza generata dalla pandemia e l’inevitabile crisi economica che nei prossimi mesi colpirà il Paese, hanno posto al centro del dibattito pubblico la questione del reddito. Il lockdown ha lasciato a casa milioni di lavoratori fra cui molti precari, P.iva, finti lavoratori autonomi; per molti è scattata una riduzione dei redditi, ora garantiti da cassa integrazione o altre forme di contratti di solidarietà; migliaia di microimprese artigianali e commerciali sono ferme da settimane, alcuni hanno ricevuto il sostegno di quarantena mentre altri non hanno ricevuto alcunché. Tra Decreto Cura Italia e altri provvedimenti adottati o in discussione per la prevista “fase2”, nell’attesa di capire su scala europea quali risorse verranno messe a disposizione e a che costo, Governo ed Enti Locali hanno posto massima attenzione al problema della liquidità in direzione delle imprese e, solo in seconda battuta, la questione reddito dei lavoratori, sgravati dai bilanci aziendali grazie al ricorso della cassa integrazione oppure abbandonati ai loro amari destini. A pagare saranno e sono in primis i lavoratori meno tutelati, un’ampia fascia di soggetti deboli che hanno già iniziato a pagare i costi di questa emergenza. Anche per i “più tutelati”, l’epidemia rischia di riservare sorprese se, come gli indicatori sembrano prevedere, la crisi economica dei prossimi mesi “picchierà duro”, con forti ricadute su Pil, salari e tasso di occupazione. Questa situazione, in un Paese come l’Italia, con un sistema di ammortizzatori sociali insufficienti e non universali, è inevitabile fonte di ulteriore divaricazione economica e crescita delle disuguaglianze sociali. La crisi colpirà di più coloro che lavorano in quei settori dove più prolungate saranno le misure preventive e di distanziamento sociale (per esempio chi lavora nei settori dello spettacolo, della cultura, degli eventi, soprattutto a Milano), ma anche chi ha forme di contratto e rapporti di lavoro più deboli. Il reddito da lavoro, allo stato attuale delle misure di welfare esistenti, diventa in sostanza sacrificabile nell’emergenza e con esso i diritti di migliaia di persone.
Da più parti è arrivata la proposta, sorretta anche da una petizione popolare, per trasformare ed estendere il Reddito di Cittadinanza (sostegno universale, per occupati e non occupati); altra proposta è quella del Reddito di Quarantena (sostegno ai lavoratori colpiti dalla crisi). Anche organismi internazionali e personaggi insospettabili come Draghi hanno fatto dichiarazioni, innovative dal loro punto di vista, che richiamano una sorta di basic income universale, con la proposta del Reddito di Emergenza, anche se visto più come sostegno ai consumi che come Reddito di Base Incondizionato, che nel decennio scorso era stata, invece, la richiesta prioritaria di ampie fette del mondo del precariato e delle lotte sociali del periodo. Sul versante della pratica l’esempio di Hong Kong pare deponga a favore del sostegno al reddito universale. Proprio queste ipotesi più ampie di intervento, svincolate anche dal concetto di reddito da lavoro, trovano ulteriore fonte di legittimità dalla particolare evoluzione del sistema economico, che vede eccellere il nostro Paese (soprattutto alcune zone come la Lombardia e Milano in primis): il reddito da lavoro è solo una parte del reddito totale prodotto dal territorio. E’ sempre più rilevante la porzione di reddito ricavata dalle rendite derivate dal patrimonio immobiliare. A fronte dell’emergenza Covid19 le caratteristiche e la concentrazione del patrimonio edilizio privato, l’offerta abitativa e lo stato delle politiche abitative pubbliche diventano ulteriori elementi di disuguaglianza e precarizzazione delle vite.
L’affitto è una rapina?
I provvedimenti economici delle scorse settimane, da questo punto di vista, hanno avuto un impatto minimo, intervenendo solo sul fronte dei mutui (su cui è stata prevista la sospensione delle rate da contrattare comunque con la banca creditrice), mentre poco o nulla è stato fatto sul fronte affitti, lasciando migliaia di persone delle classi sociali più deboli, spesso precarie o con lavori a tempo determinato, di fronte all’alternativa di pagare l’affitto o fare la spesa ovvero di sperare nella magnanimità del proprietario compassionevole o illuminato. A fronte delle quattro milioni di famiglie circa, che vivono in appartamenti affittati a privati, di cui Unione Inquilini stima siano almeno 200.000 quelle già nell’impossibilità di pagare l’affitto a causa della crisi, il Decreto Cura Italia ha semplicemente previsto la possibilità di ricontrattare l’affitto. Visto i rapporti di forza che normalmente esistono tra proprietari e affittuari è difficile immaginare che siano in molti a beneficiare di eventuali sconti sui canoni. Anche sul fronte sfratti, il Decreto prevede il loro blocco fino a settembre, ma solo per le procedure di sfratto per morosità già pendenti. Analogamente, come da tradizione parlamentare consolidata, a fronte dell’enorme fabbisogno economico dei prossimi mesi resta tabù la questione di un’imposta patrimoniale che colpisca le grosse rendite immobiliari e mobiliari. Immune agli sconvolgimenti che l’epidemia sta creando, la rendita immobiliare sembra assoluta e intoccabile, non è mai messa in dubbio, sia come flusso degli introiti da affitto che genera che come valore in sé. Intanto quanti sono costretti a pagare un affitto tutti i mesi a fronte di un reddito che non percepiscono o che è decurtato di una parte? Quanti piccoli esercizi commerciali o botteghe artigiane o lavoratori autonomi vivono queste settimane con l’ansia terribile perché hanno le attività chiuse ma la rata d’affitto “aperta”? E’ il trionfo del debito privato, un debito che assume sempre più le forme di debito detestabile.
Non è comunque solo il mercato immobiliare a non essersi dimostrato all’altezza dell’emergenza Covid19: le politiche pubbliche relative all’abitare e gli effetti nefasti, che una voluta assenza di controllo e regolamentazione sul mercato degli affitti a breve hanno avuto in una situazione come quella che stiamo vivendo, hanno consentito il proliferare di danni collaterali che diverranno sempre più evidenti. Basti pensare, nell’emergenza, al problema degli spazi dove far trascorrere le quarantene ai guariti dal virus o ai contagiati asintomatici, ovvero dove poter alloggiare le persone in tutti quei casi di sovraffollamento abitativo che rendono impossibile delle quarantene sicure. Oppure alla necessità di provvedere a sistemare le migliaia di senzatetto o di migranti senza un domicilio stabile. Fece scalpore la fuga di migliaia di precari e studenti fuori sede da Milano nei primi giorni del lockdown, ma come avrebbero potuto continuare a viverci senza lavoro, e con le Università chiuse, dovendo far fronte ad affitti da capogiro?
La dicotomia Diritto All’Abitare – Rendita diventa quindi centrale nella fase attuale se non vogliamo che le macerie sociali che il Covid19 lascerà siano gravi quanto la tragedia umana e sanitaria che stiamo vivendo. Come accade per il rapporto fra capitale e lavoro, dove la contrapposizione tra salute e profitti richiama il bisogno di uno sbilanciamento a favore della salute, così riaffermare la priorità del Diritto all’Abitare sulle rendite immobiliari significa recuperare risorse economiche fondamentali in una situazione di crisi e anche, di conseguenza, rimettere in moto un ciclo virtuoso di politiche pubbliche sulla città che smontino i processi di gentrificazione, turistificazione e privatizzazione dello spazio pubblico che le nostre città, Milano su tutte, stanno vivendo. Come fare per attaccare la sacralità della rendita immobiliare? Quali azioni concrete si possono mettere in campo da parte delle lotte sociali? Come possiamo uscire dalla crisi Covid19 avendo spostato gli equilibri sociali verso una nuova primavera del Diritto alla Città?
Il punto di partenza non può che essere quello di smontare la “sacralità” e l’intoccabilità delle rendite immobiliari, che devono diventare toccabili, decurtabili, sacrificabili esattamente come lo è, purtroppo, il reddito da lavoro, essendo flussi di ricchezza costanti e per lo più riconducibili a soggetti (privati o società) che sicuramente pagheranno meno di altri le conseguenze economiche della crisi epidemica, smascherando al contempo chi sono questi soggetti figli di potentati dai tratti oscuri (anche fiscalmente). Un meccanismo fiscale di tipo patrimoniale potrebbe essere utile, ma come dicevamo non sembra nelle corde del Governo. La riflessione potrebbe partire da lontano, ad esempio dal censimento degli immobili (catasto) e dalla valutazione del patrimonio immobiliare, distinguendo poi tra tre macro-categorie (che evidentemente non sono da considerarsi fisse ma continuamente permeabili): immobili di proprietà, immobili resi disponibili per l’affitto (breve, lungo o brevissimo), immobili lasciati vuoti.
Possono le lotte sociali sopperire, in parte, su questo fronte? E, se si, come?
“Rent Strike” e patrimoniale
La dinamica della relazione tra proprietario e affittuario è complessa, e si muove in uno scenario normativo molto articolato e fortemente sbilanciato a tutela dell’interesse dei proprietari e non degli affittuari. Dalla fine dell’equo canone (introdotto da una legge del 1978 e abolito definitivamente nel 1998) la nostra normativa non è riuscita a trovare strumenti sufficientemente adeguati per tutelare il soggetto “debole” e nemmeno il cosiddetto “normale” che per pagare l’affitto (casa o luogo di lavoro) impegna a volte anche la metà del proprio reddito. in questo quadro le risposte che gli inquilini hanno di fronte a situazioni di difficoltà come quella attuale possono essere di tipo resistente (non pago) o rivendicativo a tutela dei soggetti deboli.
La prima risposta uscita nella crisi, soprattutto negli USA e in altri paesi europei è stato il Rent Strike, lo sciopero degli affitti, che ha visto lo scorso 5 aprile la prima giornata di mobilitazione globale, ripresa anche da alcuni collettivi a Bologna e Roma. Il diritto all’insolvenza, parola d’ordine delle mobilitazioni globali in occasione della crisi economica-finanziaria di fine anni zero, viene visto come la risposta più immediata ed efficace, ma non può essere la sola, così come la scelta di occupare lo sfitto, che è la soluzione estrema ma non percorribile o praticabile sempre. Le risposte messe in atto sono in continua evoluzione e la situazione, da questo punto di vista è fluida; al momento si segnala il tentativo di diversi soggetti territoriali (Rent Strike Bologna, la campagna ASIA-USB solo per citarne un paio) di formare una rete nazionale (https://scioperodegliaffitti.noblogs.org/) che porti avanti in modo collegiale alcune rivendicazioni. In primis l’annullamento dei canoni d’affitto per i mesi della crisi, non come si parlava in un primo momento la sospensione, così da non generare ulteriore indebitamento gli inquilini; e poi il blocco dei costi delle utenze, che al pari dell’affitto, gravano sul bilancio famigliare di chi ha perso il lavoro. Lo sciopero dell’affitto è una risposta rapida, catalizzatrice di forze sociali unite da un bisogno molto concreto, eppure rischia di avere una portata limitata se parallelamente non si incide sulle politiche abitative pubbliche, sulla pianificazione urbanistica, sullo sfitto. Anche perché, come prefigurano gli esperti del settore, inevitabilmente la crisi economica che attraverseremo nei prossimi mesi avrà riflessi anche sul mercato immobiliare e sui tanti interventi edilizi che, specie a Milano, sono in corso o in previsione.
Potrebbe essere interessante in questa fase, parallelamente a forme di lotta, prevedere e rivendicare la possibilità “legale” di non pagare l’affitto; regolamenti e procedure che permettano al locatario di non pagare alcuni mesi di pigione al locatore senza che l’affittuario venga immediatamente denunciato, sgomberato, multato, pignorato o messo in cella. Per esempio un’azione legislativa che depenalizzi e renda legale il “balzo” dell’affitto in casi di necessità economica, andando ad intaccare così il diritto, apparentemente inalienabile, del proprietario in una sorta di mini patrimoniale, magari bilanciato da misure che rendano accettabile anche per quest’ultimo la mancata riscossione dei canoni (defiscalizzazione del mancato affitto percepito). Altre misure, come il sostegno agli affitti, distribuito come finanziamento una tantum da regioni o comuni, o gli accordi su base volontaria tra proprietari e inquilini, sono state attuate, a partire dalla metà del mese di marzo, ma si tratta comunque sempre di palliativi che transitano rapidissimo e senza lasciare tracce davanti agli occhi dei soggetti in difficoltà e finiscono comunque per alimentare sempre le tasche di coloro che detengono la rendita e che in questo modo non subiscono nessun danno economico. Diverso il discorso nel caso di ricorso all’esproprio per pubblica utilità, provvedimento estremo, ma che potrebbe essere una soluzione per le grandi aree metropolitane come Milano, con migliaia di alloggi sfitti o destinati ad affitti temporanei e di cui parliamo nel paragrafo successivo.
Se pensiamo, invece, a interventi strutturali, questi non possono che essere sul lato dell’offerta abitativa. Veniamo da anni di situazione “ingessata” dentro alcuni paletti apparentementi inviolabili e diventati un postulato che ha fatto breccia nella società e nella politica, ossia che la soluzione ai fabbisogni abitativi, in assenza o nel fallimento delle politiche di edilizia residenziale pubblica e popolare, possa e debba venire solo dagli operatori privati (grandi o piccoli che siano) o da cooperative sempre più simili per dimensioni e costi alle immobiliari. A questi soggetti è lasciato il compito di rispondere ai bisogni delle fasce sociali popolari con l’housing sociale, che lascia fuori, comunque, ampi strati di povertà, precarietà e marginalità abitativa. Perchè non pensare, allora, anche a soluzioni innovative, a nuove forme di cooperazione sociale e indivisa, all’autorecupero dello sfitto abbandonato, a soluzioni che rompano gli attuali assetti del mercato immobiliare e aprano nuove strade per soddisfare il Diritto all’Abitare.
Un altro ragionamento andrebbe sviluppato per le micro attività economiche, artigianali, del lavoro autonomo e, soprattutto, sui piccoli esercizi commerciali che rischiano di non riaprire, strangolati dall’affitto e da un bilancio che già prima della crisi era complicato. Questi sono l’ossatura del tessuto urbano e la loro pubblica utilità in questo caso è ancora più evidente. Il rischio di una città del dopo crisi in cui scompare il commercio al dettaglio e rimane tutto in mano alla Grande Distribuzione Organizzata è elevato, e prefigura una “forma urbis” devastata e arida.
Infine la fase di crisi induce a pensare, come già detto, in modo serio ad un provvedimento di tipo patrimoniale, nonostante il sindaco Sala abbia detto con delicatezza che: “Il Pd, il partito di cui non ho la tessera ma in cui mi riconosco, propone una tassa destinata a chi ha redditi più alti. Non penso sia una buon idea, e chiedo di rifletterci. Le tasse devono funzionare con un principio equità sociale ma questo è il momento di non creare differenze, di non dividerci. Piuttosto chiamiamo alla generosità gli italiani che in questa fase stanno dimostrando di essere molto generosi“. La patrimoniale, attuata in modo progressivo, severa ma giusta. dovrebbe andare a toccare anche le rendite derivanti dagli immobili, e quindi, utilizzando queste risorse, avrebbe senso la politica del sostegno dell’affitto di cui sopra. Una patrimoniale seria, tuttavia, dovrebbe riguardare anche i capitali e le rendite di natura finanziaria.
Il modello Milano
Le contraddizioni di decenni di assenza di politiche abitative pubbliche e di pianificazione urbana attenta solo agli interessi degli operatori privati, sono emerse subito nei primi giorni della crisi epidemica a Milano. Il dato nazionale, da cui Milano non diverge, parla di un patrimonio di edilizia pubblica sul totale delle abitazioni del 4.5%. Per dare un senso a questo rapporto, facciamo la comparazione con altri paesi: è il 34,6% nei Paesi Bassi, il 21% in Svezia, il 20% in Danimarca, il 17% in Francia, il 14,3% in Austria, l’8% in Irlanda, il 7% nel Belgio, il 6,5% nella Germania. A Milano è il 5%, per intenderci. Sugli alloggi sfitti si continua a parlare di cifre attorno ai 70 mila e la crescente destinazione ad affitti a breve di una buona fetta della città rende sempre di più sfuggente la consistenza di tali dati. La città non è mai riuscita ad affrontare e risolvere il problema di individuare alloggi da destinare alle quarantene ovvero a separare malati e sani in quei nuclei familiari numerosi o nei casi di elevata densità abitativa negli appartamenti. Non solo, ma nel frattempo ci sono stati sgomberi nonostante l’annunciata moratoria e nessuna soluzione è stata trovata per i tanti senzatetto, migranti o meno che fossero. Per affrontare il problema quarantene, ma anche per ospitare il personale sanitario accorso a supporto di quello locale per l’emergenza, il sindaco Sala è arrivato a proporre accordi con alberghi e ha sollecitato gli host di Airbnb a mettere a disposizione alloggi idonei (e le società immobiliari non hanno perso occasione per un pò di social washing a fronte di una piccola rinuncia sui guadagni), quando avrebbe potuto adeguare qualche appartamento del patrimonio immobiliare del Comune per offrire quel minimo di ospitalità dovuta. Oppure, più suggestivo, la giunta della touristification avrebbe potuto a fronte di pubblica utilità appellarsi al codice civile (art. 834) ed agire direttamente attraverso un provvedimento ablativo, ovvero un esproprio temporaneo (peraltro indennizzato) per pubblico interesse. Un provvedimento forte, certo, ma a fronte di emergenze come quella che stiamo vivendo, anche “il mattone”, il patrimonio immobiliare (inteso ovviamente esclusa la casa dove si vive e risiede), può e deve essere soggetto a discussione e visto come risorsa cui attingere fisicamente o tramite imposizione fiscale. Nel caso invece dell’offerta Airbnb, parlare oggi di sharing economy o di opportunità per aumentare gli introiti di chi ha mq in esubero è assolutamente fuori luogo nel momento in cui a Milano il 40% delle inserzioni (7.016 su un totale di 17.000) è fatta da soggetti (privati o società) che offrono almeno da due appartamenti in su.
In un quadro come quello milanese la questione abitativa potrebbe essere uno dei problemi maggiori dei prossimi mesi per le questioni sin qui sollevate. In un mondo in cui all’assenza di lavoro si sopperisce con un assegno da 600 euro, mediamente forse si arriva a pagare l’affitto di una stanza (superiore a 600 euro) Questo è il prezzo da pagare ad un mix di fattori: aumento della domanda di affitti a fronte di una diminuita offerta, processi di turistificazione e gentrificazione di ampie parti della città con conseguente spinta al rialzo dei prezzi e, soprattutto, crescita smisurata dell’offerta per affitti a breve. Offerta di case per turisti e “Airbnb” hanno portato anche alla trasformazione del tessuto economico e sociale dei quartieri, con sviluppo di un’offerta di attività commerciali di vicinato più attenta a rispondere alle esigenze di shopping o di alimentazione del turista di passaggio piuttosto che ai bisogni quotidiani di chi vive Milano.
Il cocktail tra caratteristica dell’offerta abitativa e condizioni di precarietà economica e lavorativa che interessa ampie fasce di popolazione potrebbe diventare esplosivo a fronte di una città che difficilmente potrà tornare (e noi lo speriamo) a quel modello Milano tanto decantato e venduto al mondo. Un modello che proprio su queste migliaia di precari basa quotidianamente la sua economia e che ai flussi turistici, oggi e chissà per quanto impensabili, ha dedicato ogni attenzione e facilitazione. Covid19 e crisi economica porteranno a rivedere il modello Milano a danno presumibilmente dei servizi alberghieri, meno flessibili e più costosi, con problemi (quanti alberghi saranno in grado di adottare soluzioni di minor capienza per poter aprire? O gli interventi di parziale ristrutturazione necessaria?) che invece potranno essere gestiti dall’offerta Airbnb, con il rischio di incrementare la spinta alla “airbnbizzazione” della città e che diminuisca ulteriormente l’offerta di alloggi per affitti di lungo periodo, salvo scelte coraggiose della politica (in primis di natura fiscale sugli host) ad oggi lungi dall’essere una priorità.
Il testo che segue è una raccolta di voci, una conversazione a distanza tra cinque donne, mamme, compagne, mogli, sorelle di detenuti rinchiusi nel carcere di Opera, a Milano. A Opera, da quasi due mesi la situazione è tesissima. Gli eventi sono precipitati con la rivolta del 9 marzo scorso, ma sono tanti i familiari che denunciano, fin da prima della rivolta, provocazioni, violenze, atteggiamenti al di fuori delle regole da parte di agenti della penitenziaria e un funzionamento farraginoso dell’intero sistema carcerario.
A Napoli, i militanti che nell’ultimo mese hanno costruito reti di solidarietà attiva, sostenendo le famiglie in difficoltà in tanti quartieri, hanno affisso in strada una serie di striscioni per il settantacinquesimo anniversario della Liberazione. Da Montesanto a Scampia i messaggi chiedevano l’allargamento del reddito ai non garantiti, un provvedimento per il blocco degli affitti, lo screening di massa per il Covid-19. La risposta della questura di Napoli è stata particolarmente solerte: decine di agenti hanno fermato, multato, denunciato gli attivisti perché in strada “senza giustificato motivo”. In molti casi, tuttavia, a non rispettare i dispositivi di sicurezza erano proprio i poliziotti, e in particolare gli agenti della Digos.
Milano, nella mattinata del 25 aprile una decina di appartenenti a un centro sociale del quartiere di via Padova si muovono, in bicicletta e nel rispetto delle regole di distanziamento, per portare fiori alle lapidi partigiane della zona. Verso mezzogiorno, all’incrocio tra via Padova e via Democrito, vengono affrontati da una decina di volanti della polizia, agenti armati di manganelli che senza discutere buttano tutti a terra, accanendosi sul compagno più anziano, considerato il “capo” e arrivano ad ammanettare una compagna e trascinarla su una loro pantera.
Oggi, 25 aprile 2020, alcune/i compagne/i che in tutta sicurezza (a gruppi, con mascherine, a distanze) stavano apponendo drappi rossi alle lapidi partigiane in quartiere via Padova sono stati fermati, caricati e accerchiati in strada dalla Polizia senza potersi muovere.
Polizia intervenuta con più di 10 volanti e con molti agenti senza mascherine.
Al momento risulta una persone in stato di fermo.
Agenti molto nervosi allontanavano minacciando chi filmava la scena.
SOLIDARIETÀ ALLE/AI COMPAGNE/I !!!!
Milano, 25 aprile 2020. Come già accaduto nei giorni precedenti a Roma e Torino, anche a Milano la Polizia ha deciso che nessun tipo di iniziativa fosse possibile in piazza, foss’anche quella di portare un fiore sulle lapidi partigiane. Probabilmente eccitati dall’essere da settimane i padroni indiscussi delle strade hanno messo in scena lo spettacolo tristo e patetico della loro forza.
Ne sono risultati impedimenti e cariche, fermi e manganellate. Due cronache parallele di quanto è successo in via Padova e in zona Ticinese. https://radiocane.info/milano-cronaca-25-aprile-quarantena/