Bologna. Primo Maggio contro lo sfruttamento al tempo del coronavirus. Striscioni megafono e volantini per rompere isolamento e paura

L'immagine può contenere: albero, cielo e spazio all'aperto, il seguente testo "TAXI LA SALUTE NONé AUMENTO del PIL CONF CONFINDUSTRIA ASSASSINA"

Riceviamo e pubblichiamo da Bologna:

Oggi, alla vigilia del primo maggio, una quindicina di compagnx ha attraversato il quartiere Bolognina dal mercato Albani, passando da Piazza dell’Unità, fino alla Pam, facendo interventi al megafono e distribuendo volantini per rompere l’isolamento e la paura.

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Progetto Sctintilla Rimini – #storiedistitempi

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Progetto Scintilla Rimini
STORIE DI STI TEMPI è una rubrica che vuole raccontare la realtà di sti strani tempi che altro non sono che figli dei tempi “normali”, con le loro contraddizioni e senza alcun filtro. #storiedistitempi

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Il virus che verrà è il ritorno all’anormale – PMO

Ending HIV: New Vaccine Holds Promise for a Cure – Stories ...

In virologia l’incidente non è l’eccezione ma la regola
Antoine Danchin, genetista [1]

Negli anni 2000 noi ci siamo interessati ai laboratori militari di ricerca biologica, al bioterrorismo e agli attacchi batteriologici. [2] I nostri lettori si ricordano sicuramente con nostalgia del CRSSA, centro di ricerca del servizio di sanità degli eserciti di La Tronche, presso Grenoble, e dei due altri laboratori P3 del nostro polo tecnologico, degli attentati all’antrace commessi nell’autunno 2001 con dei ceppi usciti dal laboratorio militare di Fort Detrick, del piano francese Biotox, del programma russo Biopreparat a base di peste, di vaiolo e febbri emorragiche, del laboratorio P4 altamente sicuro di Mérieux a Lione e dei suoi cloni, ove si conservavano e manipolavano virus e batteri mortali.

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Cassa Nazionale di Solidarietà – Resistiamo Insieme!

Rispondiamo con il mutualismo all’emergenza Covid-19, per resistere insieme a questa crisi e non lasciare nessun* escluso da tutele, diritti e reddito.

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“SCUOLA e MEDICALIZZAZIONE” di Chiara Gazzola

ADHD: un bambino vivace non è malato | UPPA.it

Pubblichiamo un articolo di Chiara Gazzola dal titolo “Scuola e medicalizzazione” uscito su Arivista n°442 aprile 2020

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TAV e coronavirus : alcuni appunti perché nulla sia più come prima

29 Aprile 2020

Niente sarà più come prima è la frase che abbiamo sentito più spesso dall’arrivo dell’epidemia di coronavirus in Europa. Non che di per sé queste parole siano garanzia di nulla. Quante volte sono risuonate nella bocca dei “leader” del mondo, pronti a ripeterle come un mantra dopo ogni crisi per assicurarsi precisamente che niente cambiasse davvero? Eppure ci sembra che stavolta l’arrivo del virus si è accompagnato effettivamente di una sensazione diffusa, quella che la pandemia stia marcando il capolinea di un modello socioeconomico di produzione dei beni e di riproduzione della vita umana e della natura. La consapevolezza che il prezzo altissimo pagato in questa guerra, come amano definirla i media, è imputabile a scelte politiche ed economiche precise rimane però, per ora, allo stato liquido e si disperde nei mille rivoli delle singole esperienze di chi sta subendo la crisi del coronavirus in termini di sofferenza, lutto, paura, privazione degli affetti, mancanza di reddito, angoscia per l’avvenire. Se è vero che la storia non marcia sulla testa, è necessario interrogarsi da ora su come e dove questa consapevolezza trasversale potrebbe coagularsi e prendere forma, parlando una lingua comune e ponendo delle istanze concrete. Pensiamo che la val di Susa, con la densità politica accumulata nella lotta pluridecennale contro il TAV, con il tessuto di relazioni costruito proprio grazie alla battaglia contro il supertreno, rappresenti uno di questi possibili contesti di coagulazione. Questo a patto, innanzitutto, di avere chiaro in quale modo la crisi pandemica s’intrecci con i nodi politici che sono sempre stati posti in maniera più o meno esplicita dal/nel movimento notav ma come, allo stesso tempo, l’irruzione del virus rappresenti una cesura che ci obbliga ora a un salto. Prima che la vita riprenda il corso di una nuova normalità che potrebbe essere ben peggiore della precedente, ci sembra quindi necessario provare a operare una sorta di ricognizione preliminare per capire quali sentieri potrebbe prendere la lotta. Perché tutto non resti come prima servirà una decisa spinta. Cominciamo ad attrezzarci.

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La vita oltre la pandemia

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Multato perché “il musicista non è un valido lavoro”

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29 aprile 2020 – “Mi hanno multato perché il musicista non è “un valido lavoro”, ma mi son rifiutato di pagare la multa”.

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Nuova pubblicazione: Ruggiti – Cronache di epidemia

 

RUGGITI NUMERO ZERO
Leggi il Bollettino Ruggiti

Per ricevere una o più copie cartacee scrivi a: ruggiti@riseup.net

oppure a: CSOA il Molino, c/o Spazio Edo – Viale Cassarate 8 – 6900 Lugano

Leggi l’editoriale.

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Cooperative sociali e Covid-19. La lotta è l’unica difesa.

da Lotta di Classe 141 scaricabile integralmente cliccando qui

Oltre alla sanità uno dei settori immediatamente toccati dai provvedimenti governativi è stato quelle delle coop.sociali. Negli asili lavora infatti moltissimo personale coop come ausiliarie e maestre, nelle scuole come educatori e educatrici.

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Mal-formazioni: primi esiti dell’inchiesta sull’emergenza nel settore della scuola

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28 aprile 2020

In questi mesi sono usciti numerosi contributi, perlopiù critici, sulla didattica a distanza. In un precedente articolo, una professoressa di un istituto tecnico di periferia individua nella DAD un dispositivo di esasperazione delle diseguaglianze – di classe, di razza e in certi casi anche di genere, dato che viene svolta nella sfera della domesticità. Da tale prospettiva, si vede l’impiego delle tecnologie ricalcare coerentemente l’impostazione della scuola, storicamente voluta come apparato gerarchico di disciplinamento e incasellamento, che rende quasi impossibile che bambin* e ragazz* di estrazione sociale diversa possano avere gli stessi riconoscimenti e banalmente anche stare all’interno dello stesso istituto. D’altra parte, per molti soggetti che lavorano nel settore la scuola rimane il luogo principale nella quale si apprende a muoversi nel mondo, con tutte le contraddizioni che ne derivano, ma con un bagaglio di strumenti cognitivi e relazionali che bambin* e ragazz* non possono sviluppare nella sfera del privato. In questo senso, la DAD penalizza fortemente l’apprendimento, visto che tra l’altro non c’è stato alcun tipo di formazione per i docenti nell’utilizzo di tali mezzi e si è dato per scontato una facilità d’utilizzo da parte dei giovani a causa della retorica dei “nativi digitali” portata avanti per anni, ignorante il fatto che utilizzare Youtube o uno smartphone fin da piccoli banalmente non è lo stesso che scrivere un file con un pacchetto Office.

Il dibattito in corso sulla didattica a distanza è solo un esempio di come in un contesto complesso come quello scolastico, non vi siano problemi non che non preesistevano già all’emergenza covid 19 e al suo merito di aver esasperato le contraddizioni sociali – in questa prima fase soprattutto nei settori in cui vi è una centralità nonché un disconoscimento sistematico del lavoro riproduttivo.

Ma incominciamo con ordine, a partire dai risultati della nostra inchiesta. Nell’organizzazione gerarchica della scuola, per quanto riguarda l’organizzazione del corpo docente e delle risorse a sua disposizione, la figura del dirigente scolastico gioca un ruolo decisivo dall’articolo 9 della riforma 107 di Renzi, nel quadro di un piano di autonomia di ogni istituto. A seconda de* presidi che ha, ogni scuola ha visto una gestione diversa dell’emergenza, soprattutto in un primo momento, in cui non si sapevano i tempi indicativi di riapertura e dal Ministero non arrivavano risposte sull’impostazione di una didattica alternativa. L’evento ha reso manifesta la propensione aziendalistica della scuola – incoraggiata per una ventina d’anni dai vari governi susseguitisi – fornendo il pretesto ad alcun* dirigenti per dimostrarsi superpresidi renziani e compattare il team dei docenti su una maniera per affrontare univocamente la nuova sfida, mentre altri hanno lasciato all’arbitrio di ogni insegnante il capire cosa fare e come farlo. Di quest* ultim*, al momento uno su cinque è precario, molt* sono supplenti che con la MAD vanno a coprire con contratti mensili i posti lasciati scoperti da settembre da 17mila collegh* con la misura Quota 100 di pensionamento anticipato. Quasi nessun* ha una formazione nell’utilizzo di strumenti digitali. In compenso – dato che l’ambito scolastico viene sempre sacrificato nelle leggi di bilancio e il personale ridotto all’osso – la maggior parte di loro si trova ad avere a che fare con classi sovraffollate e con studenti dal diversissimo grado di alfabetizzazione, soprattutto nelle scuole di periferia e negli istituti tecnici.

 

In un sistema così organizzato risulta eloquente la critica di T., maestra di scuola primaria: Rispetto alla mia situazione lavorativa prima della pandemia posso solo denunciare un sentire comune di una professione che è andata svalutandosi agli occhi della società, grazie anche a politiche di faciloneria, di riforme che hanno passato come fondamentali delle norme che ci han portato indietro nel tempo, e mi riferisco alla legge 107 dove sono state create divisioni nell’ambito dei lavoratori, che sono stati messi uno contro l’altro per la questione del bonus merito, ma questo è solo un esempio dei tanti.

Una situazione che in molti casi genera uno scarto tra le volontà e le possibilità de* insegnanti e il loro contesto di lavoro, con conseguente frustrazione; come si evince dalle parole di AL., maestra d’asilo: La mia condizione lavorativa pre pandemia era stressante dal punto di vista emotivo. Lo stress era dovuto principalmente alla mancanza di organizzazione nel lavoro, derivante da una lacuna dal punto di vista dirigenziale, che inevitabilmente ricadeva in una sfiducia dilagante non solo nelle relazioni umane, ma anche nel modo in cui il lavoro doveva essere condotto. Si viveva tra la consapevolezza di qual era la cosa giusta da fare e il non poterla fare per qualche assurda ragione esterna al piano prettamente educativo.Credo che questo sia il risultato di una visione della scuola come merce, che si adegua al mercato la cui domanda è data da qualcuno che probabilmente non ha la priorità educativa, o ne ha un concetto intuitivo, non supportato da conoscenze o interesse effettivo.

Grazie a queste premesse, si arriva al paradosso nel momento in cui si chiede ai docenti di pagare i costi dell’emergenza covid, sulla base dei loro strumenti e con livelli di motivazione molto diversi, attraverso la retorica di una responsabilità umana e sociale che nasce surrettiziamente nel momento stesso in cui le scuole hanno chiuso fisicamente i battenti. M., supplente di italiano in una scuola media, descrive così la sua situazione: È un carico che si porta dietro l’insegnante senza che gli venga riconosciuto né a livello sociale né a livello economico che sto percependo molto al momento. Com’è possibile che gravi sulla mia responsabilità personale il fatto di svegliarmi la mattina e dire “preparo cose che a loro [student*] possano arrivare, che loro possono guardare” e quindi lavorare come una bestia.

Una “gestione ideale” dell’emergenza vede docenti sovraccarich* di lavoro ingegnarsi per non rendere le lezioni totalmente inutili. Questo per molt* ha comportato mettersi integralmente a disposizione, creando gruppi WhatsApp per avere uno scambio diretto con ile student* o delle lezioni e dei compiti personalizzati per quell* che non hanno gli strumenti – molt* docenti hanno dovuto inventarsi da zero una didattica a distanza per smartphone – o restano indietro nell’apprendimento. Ciò comporta un’enorme quantità di lavoro di cura, la cui gestione rimane nella sfera individuale di ciascun* docente, senza retribuzione alcuna, né tutele sulla privacy. Dice SM.: Da una parte ti senti la responsabilità di dover garantire un diritto allo studio ai tuoi alunni e alunne ma dall’altra parte ti rendi conto di non avere gli strumenti per non poterlo fare. Poi subentra tutta una serie di problematiche che invece riguardano le famiglie, gli alunni e il loro approccio alla didattica a distanza. […] Sono molto in contatto coi miei colleghi, non con tutti però comunque ci coordiniamo in molti, è chiaro, questa situazione. Io sto vivendo al telefono ecco, dalla mattina alla sera parlo al telefono con colleghe, con i genitori, quindi questa cosa aumenta tantissimo lo stress che ha il singolo docente, le robe da gestire.

Spesso si innesca un meccanismo di colpevolizzazione, sia tra insegnanti che si vedono impiegare quantità di tempo e sforzi molto diversi, sia tra insegnanti e genitori. Nello specifico, tra queste due parti emerge un conflitto irrisolto: a scuole chiuse e uffici, aziende, fabbriche, strutture aperte, chi dovrebbe prendersi in carico l’educazione di bambin* e ragazz*? In molti contesti diventa impossibile trovare una soluzione in quanto –  già da prima di adottare la didattica a distanza – l’istituzione scolastica nella sua impostazione gerarchica ed eccessivamente burocratizzata, non ha mai favorito la costruzione di un tessuto relazionale tra soggetti e l’impostazione di un progetto educativo condiviso. Piuttosto ha delegato alle famiglie – e quindi anche alla loro impossibilità di farlo – la gestione solitaria dei casi più fragili, portat* di disabilità o difficoltà di apprendimento.

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Vengono fuori anche dei problemi che in qualche modo prima si potevano nascondere più facilmente, si poteva far finta di niente, ora con la didattica a distanza, in caso di assenza sotto i riflettori c’è quel ragazzo, la situazione familiare, il contesto socio economico, anche solo municipale quindi secondo me il discorso diventa un po’ più complicato in bene, perché bisogna andare a analizzare determinate caratteristiche che prima  andavi a analizzare: «beh questo ha preso quattro, questo otto» e basta, mentre in questo momento qualsiasi docente è costretto a interrogarsi anche su: «Che famiglia ho davanti? Qual’è il grado di istruzione della famiglia? Grado economico? Come mai siamo messi in questa situazione?”». G., insegnante di scuola media, in linea con le criticità espresse in precedenza descrive la necessità di andare più a fondo in questa dicotomia e cercare di costruire relazioni più vere nei contesti educativi, a scapito della forte verticalizzazione spesso imposta a traverso della burocrazia. Questo è causa della grande contraddizione del sistema scolastico per cui da un lato, il contesto in cui è inserito l’edificio-scuola – la sua popolazione, le possibilità che offre, le diseguaglianze che presenta – influenza fortemente le metodologie d’insegnamento, dall’altro lato la rigidità burocratica in senso verticale,  mascherandosi dietro una pretesa di omogeneizzazione e “uguaglianza” della scuola sul territorio nazionale blocca la possibilità di una educazione adeguata al contesto riproducendo disparità e forme di dominio.  È significativo come, se da una parte si chiede ai professori di dare tutto, di utilizzare al meglio la didattica a distanza e gli strumenti tecnologici, il ministero dal suo canto abbia invece dichiarato, scatenando la rabbia dei docenti precari, che non aggiornerà la lista delle terze fasce dopo tre anni, a causa della troppa modulistica e elaborazione che gli si richiede. Sempre G. commenta: C’è sempre l’impressione nonostante la ministra sia una che ha fatto la precaria, ha fatto la segretaria del MIUR ecc ecc c’è sempre l’impressione che le leggi e la gestione di questi problemi, di queste criticità sia fatta da gente che a scuola non ci sia mai entrata, sembra sempre così o che non sappia com’è la vita del precario, che non sa come funzionino le graduatorie, magari perché l’han fatto tanti anni fa e si son dimenticati non lo so, però c’è sempre questa impressione qua che in qualche modo parte della scuola che si impegna in maniera critica anche o comunque riflessiva non venga mai presa in considerazione, ecco.

Emerge in qualche modo una prima presa di coscienza da parte del corpo docenti del proprio ruolo (agency) e della necessità di  costruire legami, reti di solidarietà, alleanze con quelle componenti come le famiglie, i colleghi o il personale della scuola per affrontare la situazione e cercare di reagire a partire dalla crisi che si sta vivendo come momento di ri-progettazione e ripensamento delle alleanze all’interno del mondo della formazione. S., insegnante precaria sottolinea questa esigenza: Credo che tutti quanti abbiamo capito che isolamento e solitudine sono due cose completamente diverse: nella prima condizione ci si indebolisce, non avere rapporti solidi di rete di comunità di collettività è una cosa che fa paura. Per noi che magari la agiamo da tanto tempo sappiamo cosa significa e questi canali li abbiamo aperti. Forse questa può essere una possibilità per quelle persone che hanno vissuto la famiglia in modo troppo individuale troppo chiuso di tornare a pensare che essere felici significa condivisione, così come la libertà. C’è la necessità di innestare meccanismi di collaborazione profonda e orizzontale, nonché di ripensare il ruolo dell’insegnante all’interno della società come motore della formazione e agente trasformatore; pensarlo come un agente di cambiamento, in contrasto con la figura burocratizzata, dispersa, riproduttrice di rigidità e disuguaglianza, potrebbe essere una strada da percorrere nelle prossime fasi.

Al netto della situazione delle scuole nella prima parte dell’emergenza del coronavirus, molti sono ancora i nodi da sciogliere a ed è ancora presto per poter intravedere forme organizzative tra i soggetti che attraversano il mondo scolastico. Alcune questioni stanno però iniziando a presentarsi come punti importanti del dibattito e sui quali ci proponiamo di continuare le riflessioni a partire dall’inchiesta. Tra le più urgenti: come la gestione dell’emergenza sta contribuendo al progressivo abbandono scolastico, e quali ne saranno le conseguenze? Di fronte ai tentennamenti e rinvii istituzionali rispetto al dibattito che concerne la valutazione scolastica, quali saranno i provvedimenti riguardanti tutti i livelli del sistema-scuola?

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FONTE: https://www.infoaut.org/precariato-sociale/sulla-prima-linea-mal-formazioni-primi-esiti-dell-inchiesta-sull-emergenza-nel-settore-della-scuola


Il palazzo in sciopero dell’affitto alla Bolognina

«Pagare l’affitto? Lo farei anche, ma sul conto corrente in questo momento ho solo 100 euro». Mario ha 28 anni ed è arrivato in Bolognina a gennaio con tante speranze. «Mi occupavo di comunicazione come freelance, il lavoro c’era e a marzo avrei dovuto aprire la partita Iva. Invece è arrivato il virus». Le offerta sono evaporate, i committenti hanno congelato i pagamenti, e così il suo conto corrente si è prosciugato in un baleno. Mario abita in un palazzone alla primissima periferia di Bologna, a due passi dalla stazione dell’alta velocità. In un quartiere, la Bolognina, in predicato di diventare una zona della città tra le più ambite per studenti e giovani lavoratori. Un quartiere in riqualificazione e in passato già al centro di grandi occupazioni e di iniziative dei movimenti per il diritto dell’abitare. E che ora vede un intero palazzo, quello di Mario appunto, aderire al rent strike, lo sciopero dell’affitto causa coronavirus.

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Diritto all’abitare e rendite immobiliari nella crisi Covid-19

28 aprile 2020

L’emergenza generata dalla pandemia e l’inevitabile crisi economica che nei prossimi mesi colpirà il Paese, hanno posto al centro del dibattito pubblico la questione del reddito.

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Diritto all’abitare e rendite immobiliari nella crisi Covid-19

28/04/2020

L’emergenza generata dalla pandemia e l’inevitabile crisi economica che nei prossimi mesi colpirà il Paese, hanno posto al centro del dibattito pubblico la questione del reddito. Il lockdown ha lasciato a casa milioni di lavoratori fra cui molti precari, P.iva, finti lavoratori autonomi; per molti è scattata una riduzione dei redditi, ora garantiti da cassa integrazione o altre forme di contratti di solidarietà; migliaia di microimprese artigianali e commerciali sono ferme da settimane, alcuni hanno ricevuto il sostegno di quarantena mentre altri non hanno ricevuto alcunché. Tra Decreto Cura Italia e altri provvedimenti adottati o in discussione per la prevista “fase2”, nell’attesa di capire su scala europea quali risorse verranno messe a disposizione e a che costo, Governo ed Enti Locali hanno posto massima attenzione al problema della liquidità in direzione delle imprese e, solo in seconda battuta, la questione reddito dei lavoratori, sgravati dai bilanci aziendali grazie al ricorso della cassa integrazione oppure abbandonati ai loro amari destini. A pagare saranno e sono in primis i lavoratori meno tutelati, un’ampia fascia di soggetti deboli che hanno già iniziato a pagare i costi di questa emergenza. Anche per i “più tutelati”, l’epidemia rischia di riservare sorprese se, come gli indicatori sembrano prevedere, la crisi economica dei prossimi mesi “picchierà duro”, con forti ricadute su Pil, salari e tasso di occupazione. Questa situazione, in un Paese come l’Italia, con un sistema di ammortizzatori sociali insufficienti e non universali, è inevitabile fonte di ulteriore divaricazione economica e crescita delle disuguaglianze sociali. La crisi colpirà di più coloro che lavorano in quei settori dove più prolungate saranno le misure preventive e di distanziamento sociale (per esempio chi lavora nei settori dello spettacolo, della cultura, degli eventi, soprattutto a Milano), ma anche chi ha forme di contratto e rapporti di lavoro più deboli. Il reddito da lavoro, allo stato attuale delle misure di welfare esistenti, diventa in sostanza sacrificabile nell’emergenza e con esso i diritti di migliaia di persone.

Da più parti è arrivata la proposta, sorretta anche da una petizione popolare, per trasformare ed estendere il Reddito di Cittadinanza (sostegno universale, per occupati e non occupati); altra proposta è quella del Reddito di Quarantena (sostegno ai lavoratori colpiti dalla crisi). Anche organismi internazionali e personaggi insospettabili come Draghi hanno fatto dichiarazioni, innovative dal loro punto di vista, che richiamano una sorta di basic income universale, con la proposta del Reddito di Emergenza, anche se visto più come sostegno ai consumi che come Reddito di Base Incondizionato, che nel decennio scorso era stata, invece, la richiesta prioritaria di ampie fette del mondo del precariato e delle lotte sociali del periodo. Sul versante della pratica l’esempio di Hong Kong pare deponga a favore del sostegno al reddito universale. Proprio queste ipotesi più ampie di intervento, svincolate anche dal concetto di reddito da lavoro, trovano ulteriore fonte di legittimità dalla particolare evoluzione del sistema economico, che vede eccellere il nostro Paese  (soprattutto alcune zone come la Lombardia e Milano in primis): il reddito da lavoro è solo una parte del reddito totale prodotto dal territorio. E’ sempre più rilevante la porzione di reddito ricavata  dalle rendite derivate dal patrimonio immobiliare. A fronte dell’emergenza Covid19 le caratteristiche e la concentrazione del patrimonio edilizio privato, l’offerta abitativa e lo stato delle politiche abitative pubbliche diventano ulteriori elementi di disuguaglianza e precarizzazione delle vite.

L’affitto è una rapina?

I provvedimenti economici delle scorse settimane, da questo punto di vista, hanno avuto un impatto minimo, intervenendo solo sul fronte dei mutui (su cui è stata prevista la sospensione delle rate da contrattare comunque con la banca creditrice), mentre poco o nulla è stato fatto sul fronte affitti, lasciando migliaia di persone delle classi sociali più deboli, spesso precarie o con lavori a tempo determinato, di fronte all’alternativa di pagare l’affitto o fare la spesa ovvero di sperare nella magnanimità del proprietario compassionevole o illuminato. A fronte delle quattro milioni di famiglie circa, che vivono in appartamenti affittati a privati, di cui Unione Inquilini stima siano almeno 200.000 quelle già nell’impossibilità di pagare l’affitto a causa della crisi, il Decreto Cura Italia ha semplicemente previsto la possibilità di ricontrattare l’affitto. Visto i rapporti di forza che normalmente esistono tra proprietari e affittuari è difficile immaginare che siano in molti a beneficiare di eventuali sconti sui canoni. Anche sul fronte sfratti, il Decreto prevede il loro blocco fino a settembre, ma solo per le procedure di sfratto per morosità già pendenti. Analogamente, come da tradizione parlamentare consolidata, a fronte dell’enorme fabbisogno economico dei prossimi mesi resta tabù la questione di un’imposta patrimoniale che colpisca le grosse rendite immobiliari e mobiliari. Immune agli sconvolgimenti che l’epidemia sta creando, la rendita immobiliare sembra assoluta e intoccabile, non è mai messa in dubbio, sia come flusso degli introiti da affitto che genera che come valore in sé. Intanto quanti sono costretti a pagare un affitto tutti i mesi a fronte di un reddito che non percepiscono o che è decurtato di una parte? Quanti piccoli esercizi commerciali o botteghe artigiane o lavoratori autonomi vivono queste settimane con l’ansia terribile perché hanno le attività chiuse ma la rata d’affitto “aperta”? E’ il trionfo del debito privato, un debito che assume sempre più le forme di debito detestabile.

Elaborazione grafica de Il Sole 24 Ore del 27 aprile 2020

Non è comunque solo il mercato immobiliare a non essersi dimostrato all’altezza dell’emergenza Covid19: le politiche pubbliche relative all’abitare e gli effetti nefasti, che una voluta assenza di controllo e regolamentazione sul mercato degli affitti a breve hanno avuto in una situazione come quella che stiamo vivendo, hanno consentito il proliferare di danni collaterali che diverranno sempre più evidenti. Basti pensare, nell’emergenza, al problema degli spazi dove far trascorrere le quarantene ai guariti dal virus o ai contagiati asintomatici, ovvero dove poter alloggiare le persone in tutti quei casi di sovraffollamento abitativo che rendono impossibile delle quarantene sicure. Oppure alla necessità di provvedere a sistemare le migliaia di senzatetto o di migranti senza un domicilio stabile. Fece scalpore la fuga di migliaia di precari e studenti fuori sede da Milano nei primi giorni del lockdown, ma come avrebbero potuto continuare a viverci senza lavoro, e con le Università chiuse, dovendo far fronte ad affitti da capogiro?

La dicotomia Diritto All’Abitare – Rendita diventa quindi centrale nella fase attuale se non vogliamo che le macerie sociali che il Covid19 lascerà siano gravi quanto la tragedia umana e sanitaria che stiamo vivendo. Come accade per il rapporto fra capitale e lavoro, dove la contrapposizione tra salute e profitti richiama il bisogno di uno sbilanciamento a favore della salute, così riaffermare la priorità del Diritto all’Abitare sulle rendite immobiliari significa recuperare risorse economiche fondamentali in una situazione di crisi e anche, di conseguenza, rimettere in moto un ciclo virtuoso di politiche pubbliche sulla città che smontino i processi di gentrificazione, turistificazione e privatizzazione dello spazio pubblico che le nostre città, Milano su tutte, stanno vivendo. Come fare per attaccare la sacralità della rendita immobiliare? Quali azioni concrete si possono mettere in campo da parte delle lotte sociali? Come possiamo uscire dalla crisi Covid19 avendo spostato gli equilibri sociali verso una nuova primavera del Diritto alla Città?

Il punto di partenza non può che essere quello di smontare la “sacralità” e l’intoccabilità delle rendite immobiliari, che devono diventare toccabili, decurtabili, sacrificabili esattamente come lo è, purtroppo, il reddito da lavoro, essendo flussi di ricchezza costanti e per lo più riconducibili a soggetti (privati o società) che sicuramente pagheranno meno di altri le conseguenze economiche della crisi epidemica, smascherando al contempo chi sono questi soggetti figli di potentati dai tratti oscuri (anche fiscalmente). Un meccanismo fiscale di tipo patrimoniale potrebbe essere utile, ma come dicevamo non sembra nelle corde del Governo. La riflessione potrebbe partire da lontano, ad esempio dal censimento degli immobili (catasto) e dalla valutazione del patrimonio immobiliare, distinguendo poi tra tre macro-categorie (che evidentemente non sono da considerarsi fisse ma continuamente permeabili): immobili di proprietà, immobili resi disponibili per l’affitto (breve, lungo o brevissimo), immobili lasciati vuoti.

Possono le lotte sociali sopperire, in parte, su questo fronte? E, se si, come?

Fonte: Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2014, Supplementi al Bollettino Statistico Indagini campionarie, Anno XXV, 2015
Elaborazione grafica e fonte: Open Polis – Fondazione Con i Bambini. Ricerca “Il disagio abitativo nelle famiglie con figli ” (5 marzo 2019)

“Rent Strike” e patrimoniale

La dinamica della relazione tra proprietario e affittuario è complessa, e si muove in uno scenario normativo molto articolato e fortemente sbilanciato a tutela dell’interesse dei proprietari e non degli affittuari. Dalla fine dell’equo canone (introdotto da una legge del 1978 e abolito definitivamente nel 1998) la nostra normativa non è riuscita a trovare strumenti sufficientemente adeguati per tutelare il soggetto “debole” e nemmeno il cosiddetto “normale” che per pagare l’affitto (casa o luogo di lavoro) impegna a volte anche la metà del proprio reddito. in questo quadro le risposte che gli inquilini hanno di fronte a situazioni di difficoltà come quella attuale possono essere di tipo resistente (non pago) o rivendicativo a tutela dei soggetti deboli.

La prima risposta uscita nella crisi, soprattutto negli USA e in altri paesi europei è stato il Rent Strike, lo sciopero degli affitti, che ha visto lo scorso 5 aprile la prima giornata di mobilitazione globale, ripresa anche da alcuni collettivi a Bologna e Roma. Il diritto all’insolvenza, parola d’ordine delle mobilitazioni globali in occasione della crisi economica-finanziaria di fine anni zero, viene visto come la risposta più immediata ed efficace, ma non può essere la sola, così come la scelta di occupare lo sfitto, che è la soluzione estrema ma non percorribile o praticabile sempre. Le risposte messe in atto sono in continua evoluzione e la situazione, da questo punto di vista è fluida; al momento si segnala il tentativo di diversi soggetti territoriali (Rent Strike Bologna, la campagna ASIA-USB solo per citarne un paio) di formare una rete nazionale (https://scioperodegliaffitti.noblogs.org/) che porti avanti in modo collegiale alcune rivendicazioni. In primis l’annullamento dei canoni d’affitto per i mesi della crisi, non come si parlava in un primo momento la sospensione, così da non generare ulteriore indebitamento gli inquilini; e poi il blocco dei costi delle utenze, che al pari dell’affitto, gravano sul bilancio famigliare di chi ha perso il lavoro. Lo sciopero dell’affitto è una risposta rapida, catalizzatrice di forze sociali unite da un bisogno molto concreto, eppure rischia di avere una portata limitata se parallelamente non si incide sulle politiche abitative pubbliche, sulla pianificazione urbanistica, sullo sfitto. Anche perché, come prefigurano gli esperti del settore, inevitabilmente la crisi economica che attraverseremo nei prossimi mesi avrà riflessi anche sul mercato immobiliare e sui tanti interventi edilizi che, specie a Milano, sono in corso o in previsione.

Potrebbe essere interessante in questa fase, parallelamente a forme di lotta, prevedere e rivendicare la possibilità “legale” di non pagare l’affitto; regolamenti e procedure che permettano al locatario di non pagare alcuni mesi di pigione al locatore senza che l’affittuario venga immediatamente denunciato, sgomberato, multato, pignorato o messo in cella. Per esempio un’azione legislativa che depenalizzi e renda legale il “balzo” dell’affitto in casi di necessità economica, andando ad intaccare così il diritto, apparentemente inalienabile, del proprietario in una sorta di mini patrimoniale, magari bilanciato da misure che rendano accettabile anche per quest’ultimo la mancata riscossione dei canoni (defiscalizzazione del mancato affitto percepito). Altre misure, come il sostegno agli affitti, distribuito come finanziamento una tantum da regioni o comuni, o gli accordi su base volontaria tra proprietari e inquilini, sono state attuate, a partire dalla metà del mese di marzo, ma si tratta comunque sempre di palliativi che transitano rapidissimo e senza lasciare tracce davanti agli occhi dei soggetti in difficoltà e finiscono comunque per alimentare sempre le tasche di coloro che detengono la rendita e che in questo modo non subiscono nessun danno economico. Diverso il discorso nel caso di ricorso all’esproprio per pubblica utilità, provvedimento estremo, ma che potrebbe essere una soluzione per le grandi aree metropolitane come Milano, con migliaia di alloggi sfitti o destinati ad affitti temporanei e di cui parliamo nel paragrafo successivo.

Se pensiamo, invece, a interventi strutturali, questi non possono che essere sul lato dell’offerta abitativa. Veniamo da anni di situazione “ingessata” dentro alcuni paletti apparentementi inviolabili e diventati un postulato che ha fatto breccia nella società e nella politica, ossia che la soluzione ai fabbisogni abitativi, in assenza o nel fallimento delle politiche di edilizia residenziale pubblica e popolare, possa e debba venire solo dagli operatori privati (grandi o piccoli che siano) o da cooperative sempre più simili per dimensioni e costi alle immobiliari. A questi soggetti è lasciato il compito di rispondere ai bisogni delle fasce sociali popolari con l’housing sociale, che lascia fuori, comunque, ampi strati di povertà, precarietà e marginalità abitativa. Perchè non pensare, allora, anche a soluzioni innovative, a nuove forme di cooperazione sociale e indivisa, all’autorecupero dello sfitto abbandonato, a soluzioni che rompano gli attuali assetti del mercato immobiliare e aprano nuove strade per soddisfare il Diritto all’Abitare.

Un altro ragionamento andrebbe sviluppato per le micro attività economiche, artigianali, del lavoro autonomo e, soprattutto, sui piccoli esercizi commerciali che rischiano di non riaprire, strangolati dall’affitto e da un bilancio che già prima della crisi era complicato. Questi sono l’ossatura del tessuto urbano e la loro pubblica utilità in questo caso è ancora più evidente. Il rischio di una città del dopo crisi in cui scompare il commercio al dettaglio e rimane tutto in mano alla Grande Distribuzione Organizzata è elevato, e prefigura una “forma urbis” devastata e arida.

Infine la fase di crisi induce a pensare, come già detto, in modo serio ad un provvedimento di tipo patrimoniale, nonostante il sindaco Sala abbia detto con delicatezza che: “Il Pd, il partito di cui non ho la tessera ma in cui mi riconosco, propone una tassa destinata a chi ha redditi più alti. Non penso sia una buon idea, e chiedo di rifletterci. Le tasse devono funzionare con un principio equità sociale ma questo è il momento di non creare differenze, di non dividerci. Piuttosto chiamiamo alla generosità gli italiani che in questa fase stanno dimostrando di essere molto generosi“. La patrimoniale, attuata in modo progressivo, severa ma giusta. dovrebbe andare a toccare anche le rendite derivanti dagli immobili, e quindi, utilizzando queste risorse, avrebbe senso la politica del sostegno dell’affitto di cui sopra. Una patrimoniale seria, tuttavia, dovrebbe riguardare anche i capitali e le rendite di natura finanziaria.

Il modello Milano

Le contraddizioni di decenni di assenza di politiche abitative pubbliche e di pianificazione urbana attenta solo agli interessi degli operatori privati, sono emerse subito nei primi giorni della crisi epidemica a Milano. Il dato nazionale, da cui Milano non diverge, parla  di un  patrimonio di edilizia pubblica sul totale delle abitazioni del 4.5%. Per dare un senso a questo rapporto, facciamo la comparazione con altri paesi: è il 34,6% nei Paesi Bassi, il 21% in Svezia, il 20% in Danimarca, il 17% in Francia, il 14,3% in Austria, l’8% in Irlanda, il 7% nel Belgio, il 6,5% nella Germania. A Milano è il 5%, per intenderci. Sugli alloggi sfitti si continua a parlare di cifre attorno ai 70 mila e la crescente destinazione ad affitti a breve di una buona fetta della città rende sempre di più sfuggente la consistenza di tali dati.  La città non è mai riuscita ad affrontare e risolvere il problema di individuare alloggi da destinare alle quarantene ovvero a separare malati e sani in quei nuclei familiari numerosi o nei casi di elevata densità abitativa negli appartamenti. Non solo, ma nel frattempo ci sono stati sgomberi nonostante l’annunciata moratoria e nessuna soluzione è stata trovata per i tanti senzatetto, migranti o meno che fossero. Per affrontare il problema quarantene, ma anche per ospitare il personale sanitario accorso a supporto di quello locale per l’emergenza, il sindaco Sala è arrivato a proporre accordi con alberghi e ha sollecitato gli host di Airbnb a mettere a disposizione alloggi idonei (e le società immobiliari non hanno perso occasione per un pò di social washing a fronte di una piccola rinuncia sui guadagni), quando avrebbe potuto adeguare qualche appartamento del patrimonio immobiliare del Comune per offrire quel minimo di ospitalità dovuta. Oppure, più suggestivo, la giunta della touristification avrebbe potuto a fronte di pubblica utilità appellarsi al codice civile (art. 834) ed agire direttamente attraverso un provvedimento ablativo, ovvero un esproprio temporaneo (peraltro indennizzato) per pubblico interesse. Un provvedimento forte, certo, ma a fronte di emergenze come quella che stiamo vivendo, anche “il mattone”, il patrimonio immobiliare (inteso ovviamente esclusa la casa dove si vive e risiede), può e deve essere soggetto a discussione e visto come risorsa cui attingere fisicamente o tramite imposizione fiscale. Nel caso invece dell’offerta Airbnb, parlare oggi di sharing economy o di opportunità per aumentare gli introiti di chi ha mq in esubero è assolutamente fuori luogo nel momento in cui a Milano il 40% delle inserzioni (7.016 su un totale di 17.000) è fatta da soggetti (privati o società) che offrono almeno da due appartamenti in su.

In un quadro come quello milanese la questione abitativa potrebbe essere uno dei problemi maggiori dei prossimi mesi per le questioni sin qui sollevate. In un mondo in cui all’assenza di lavoro si sopperisce con un assegno da 600 euro, mediamente forse si arriva a pagare l’affitto di una stanza (superiore a 600 euro)  Questo è il prezzo da pagare ad un mix di fattori: aumento della domanda di affitti a fronte di una diminuita offerta, processi di turistificazione e gentrificazione di ampie parti della città con conseguente spinta al rialzo dei prezzi e, soprattutto, crescita smisurata dell’offerta per affitti a breve. Offerta di case per turisti e “Airbnb” hanno portato anche alla trasformazione del tessuto economico e sociale dei quartieri, con sviluppo di un’offerta di attività commerciali di vicinato più attenta a rispondere alle esigenze di shopping o di alimentazione del turista di passaggio piuttosto che ai bisogni quotidiani di chi vive Milano.

Annuncio su Subito del 27/04/2020

Il cocktail tra caratteristica dell’offerta abitativa e condizioni di precarietà economica e lavorativa che interessa ampie fasce di popolazione potrebbe diventare esplosivo a fronte di una città che difficilmente potrà tornare (e noi lo speriamo) a quel modello Milano tanto decantato e venduto al mondo. Un modello che proprio su queste migliaia di precari basa quotidianamente la sua economia e che ai flussi turistici, oggi e chissà per quanto impensabili, ha dedicato ogni attenzione e facilitazione. Covid19 e crisi economica porteranno a rivedere il modello Milano a danno presumibilmente dei servizi alberghieri, meno flessibili e più costosi, con problemi (quanti alberghi saranno in grado di adottare soluzioni di minor capienza per poter aprire? O gli interventi di parziale ristrutturazione necessaria?) che invece potranno essere gestiti dall’offerta Airbnb, con il rischio di incrementare la spinta alla “airbnbizzazione” della città e che diminuisca ulteriormente l’offerta di alloggi per affitti di lungo periodo, salvo scelte coraggiose della politica (in primis di natura fiscale sugli host) ad oggi lungi dall’essere una priorità.

Note:

[1] Immagine di copertina su gentile concessione di Pezzi Impazziti: https://www.facebook.com/pezzimpazziti/

[2] http://www.unioneinquilini.it/public/doc/Fabbisogno_di_abitazione_a_Milano_e_nella_provincia_84821.pdf

[3] https://www.arcipelagomilano.org/archives/54380

[4] https://www.investireoggi.it/economia/prezzi-affitti-milano-tra-le-citta-piu-care-deuropa-ecco-quanto-costa-una-stanza/ per un monolocale la media è di 772 euro e https://www.corriere.it/economia/consumi/cards/case-affitto-milano-trilocale-costa-1370-euro-mese-napoli-meta/situazione-affitti-italia_principale.shtml

 

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FONTE: https://www.offtopiclab.org/diritto-allabitare-e-rendite-immobiliari-nella-crisi-covid-19/


Carcere, “le soluzioni per una prima risposta ci sono: facciamoli uscire!”

L’Associazione di mutuo soccorso rilancia le proposte avanzate da Vag61 sull’utilizzo di due strutture pubbliche per ridurre il sovraffollamento della Dozza e ridurre i rischi dell’epidemia coronavirus. Intanto, nascono le Brigate di mutuo soccorso: “Organizziamoci collettivamente e costruiamo strumenti di solidarietà”. Sgb: “Conquistato il salario al 100%” per le/gli educatrici/ori, ma continua la mobilitazione.

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