Le mani dell’uomo nelle pandemie

Nota della redazione del 3 aprile 2020

Dopo la pubblicazione, l’articolo è stato rieditato in alcune parti per correggere eventuali errori (qui la nostra politica in merito) o precisare meglio alcuni passaggi. Ce ne scusiamo con i lettori e con l’autore, che risponde alle critiche con una postilla in calce.  Continue reading


“Non possiamo aspettare la prossima epidemia per respirare aria pulita”

“Leggiamo con sconcerto le affermazioni di diversi nostri amministratori che scelgono sempre di attendere ulteriori conferme, ignorando il principio di precauzione, della relazione fra traffico e inquinamento e relativi decessi”. Così un comunicato firmato da Aria Pesa insieme a diverse altre realtà associative tra cui Campi Aperti, Extinction Rebellion, Fridays For Future, Tpo, Until the revolution. Continue reading


Il coronavirus nel Pianeta Azienda Agricola

La probabile iniziale diffusione del coronavirus in uno dei tanti “mercati umidi” in Cina, luoghi dove si vendono e/o macellano animali selvatici vivi per il consumo alimentare, non è una novità nella recente storia delle epidemie: “Si pensa che almeno il 60% delle malattie contagiose umane abbia origine nell’organismo di qualche specie animale. Continue reading


Il virus siamo noi, nessuno si senta offeso. Un’intervista a David Quammen

David Quammen (foto: Lynn Donaldson)

“Siamo davvero una specie animale, legata in modo indissolubile alle altre, nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia”: non sono parole di un filosofo evoluzionista ma di un autore americano poco più che settantenne, un uomo nato in Ohio nel ’48, a pochi anni dalla fine della guerra, e che della sua infanzia ricorda il tempo passato in una foresta di pini, poi distrutta dai bulldozer per fare spazio a qualcos’altro (“un’esperienza formativa”, la definisce lui). Continue reading


Salti di specie, patogeni e crisi ambientale

L’attuale pandemia ha posto all’attenzione mediatica il problema della sempre più frequente diffusione di nuovi patogeni provenienti da specie animali. Nonostante la discussione scientifica sia ancora in corso, è utile riflettere su quanto la devastazione degli ambienti naturali e il riscaldamento globale possano incidere su questi fenomeni. Continue reading


Milano, lo scandalo delle Rsa e le resistenze sanitarie

30 aprile 2020

“Non era colpa del personale, ma della mancanza del personale”, scriveva Bruno Le Dantec nel suo articolo di qualche settimana fa denunciando la situazione degli ospedali e delle residenze per anziani a Marsiglia e dintorni. Allargando lo sguardo dalla Francia alla Spagna e all’Italia aggiungeva: “Al di là della fatalità del virus, i popoli dei nostri tre paesi non mancheranno di ricostruire il collegamento tra la carenza di mascherine, tamponi, letti, apparecchiature respiratorie […] e la superficialità con cui i governi hanno ignorato i campanelli d’allarme del personale ospedaliero”.

Uno scampanellio che in Italia è diventato ancora più forte da quando l’Istituto Superiore di Sanità ha condiviso i dati sulle fonti di infezione da Covid-19 di circa 4.500 casi accertati nelle prime tre settimane di aprile. Il 44% dei contagi sarebbe avvenuto nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), trasformandole in quei “cronicari” raccontati da Antonio Esposito pochi giorni fa.

Questi dati non hanno sorpreso medici, infermieri, operatori sanitari, dipendenti delle cooperative e molte altre figure impiegate all’interno delle Rsa, né i parenti degli ospiti, in particolare in Lombardia dove queste strutture hanno registrato quasi duemila decessi da Covid negli ultimi due mesi. È stata l’insistenza dei lavoratori e dei parenti in cerca di spiegazioni a dare avvio alle inchieste della Procura di Milano, poi estese anche alle altre province della Lombardia, per “omicidio ed epidemia colposa” nelle Rsa lombarde.

Oltre alle singole strutture, le inchieste riguardano anche i vertici della Regione Lombardia per accertarne le responsabilità nella diffusione incontrollata del contagio, in particolare in seguito a una direttiva datata 8 marzo nella quale la Regione chiedeva che le Rsa accogliessero pazienti Covid dimessi dagli ospedali per poter liberare posti letto. Mentre numerosi cittadini si sono mossi per chiedere il commissariamento della sanità lombarda e gli organi di rappresentanza dei medici di base hanno espresso la propria preoccupazione per la gestione della “Fase 2” nella regione, la lotta dei lavoratori e dei familiari prosegue in molte Rsa.

È quello che sta accadendo anche ad AbbiategrassoBià in dialetto, un comune di oltre trentaduemila abitanti a meno di trenta chilometri dal centro di Milano, in direzione sud-ovest. Una città antica sorta al centro di una campagna feconda e resistente in prossimità delle acque del Ticino. Ad Abbiategrasso il primo caso di contagio da Covid è stato accertato il 9 marzo all’interno dell’Istituto Geriatrico Golgi, un tempo Pia Casa degli Incurabili e oggi parte del sistema di Rsa gestite dall’Azienda servizi alla persona (Asp) Golgi-Redaelli. Oltre alla sede di Abbiategrasso, l’azienda amministra altre due strutture situate a Milano e Vimodrone. Tra il 9 marzo e il 17 aprile il numero degli ospiti contagiati nella Rsa di Abbiategrasso è salito a novanta persone e sono avvenuti trentacinque decessi, diciassette dei quali certamente positivi al Covid e nove sospetti.

Lucio (nome di fantasia) racconta che il padre ottantenne era stato ricoverato all’inizio dell’anno nella parte dell’Istituto dedicata alla degenza residenziale temporanea per persone affette da demenza, l’area “Cure Intermedie ex Riabilitazione Alzheimer”. Suo padre avrebbe dovuto trascorrere lì alcuni mesi per ottenere maggiore stabilità e dare sollievo alla famiglia che stava attraversando un momento di fatica nella gestione quotidiana della malattia. Invece, come quasi tutti gli altri ospiti dell’ex Riabilitazione Alzheimer, si è ammalato di Covid. A partire dal 9 marzo ai parenti è stato definitivamente impedito di far visita ai propri padri e alle proprie madri a causa di alcuni “possibili casi” di infezione nel reparto. Dopo alcuni giorni di insistenza, i parenti hanno avuto la conferma della presenza di casi positivi e sono stati invitati a recarsi presso l’Istituto per ritirare i vestiti dei propri cari, da lavare a casa.

Lucio spiega: «Questa cosa dei vestiti si faceva anche prima però prima entravi più o meno tutti i giorni quindi non si accumulavano, c’era un cesto in camera, li prendevi e portavi quelli puliti. Il primo sabato dopo la notizia dei contagi c’è stato il delirio. Di solito andava mia sorella a prendere i vestiti, ma quando si è saputo che c’erano dei positivi non se l’è sentita perché ha i bambini piccoli. Alla fine sono andato io a prenderli e mia mamma, che ha più di ottant’anni, ha insistito per lavarli a casa sua. Quando sono arrivato fuori dal reparto c’era una montagna di vestiti, qualche operatore dietro un banco che provava a smistarli e i parenti che davano i numeri per sapere dall’istituto come fare a lavarli senza rischiare di infettarsi». Andare a prenderli con guanti e mascherina e lavare tutto a sessanta gradi, queste sono state le istruzioni fornite dal Golgi e seguite dai parenti, tra molte paure. Nel corso delle settimane la distribuzione dei vestiti è diventata più ordinata e i parenti in coda hanno iniziato a conoscersi meglio e a organizzarsi anche con gli operatori della struttura.

Parenti e operatori hanno contestato alla dirigenza del Golgi il silenzio stampa in cui questa si è chiusa a lungo, prima di dichiarare che la quasi totalità dei pazienti dell’ex Riabilitazione Alzheimer erano risultati positivi ai tamponi e che nel reparto c’erano stati due morti da Covid. Mentre i numeri crescevano anche nel resto della struttura, gli operatori si ammalavano e diminuiva il personale in attività, rendendo sempre più faticosa la cura degli anziani ricoverati. In seguito a numerose richieste e rivendicazioni dei lavoratori rimaste inascoltate dalla struttura e dagli enti locali e regionali responsabili della tutela della salute pubblica, Unione sindacale di base (Usb) Lombardia ha presentato un esposto alla Procura di Milano sulla situazione degli istituti gestiti dall’Asp Golgi-Redaelli. Le principali criticità segnalate dagli operatori rappresentati da Usb sono “la mancata assunzione di personale, l’inadeguatezza del numero di tamponi eseguiti a degenti e personale, l’assenza di una strategia di isolamento dei casi positivi, la carenza di dispositivi di protezione individuale, l’incapacità di individuare protocolli di sicurezza certi e univoci per tutta l’azienda, il mancato controllo sull’operato delle ditte appaltatrici in merito alla sicurezza e alla tutela della salute e la mancata abilitazione del laboratorio interno all’analisi dei tamponi”.

Nel corso dell’assemblea “a distanza” del personale (dipendenti e ditte esterne) organizzata dell’Usb dell’ASP Golgi-Redaelli del 20 aprile, Pietro Cusimano ha ripercorso le principali tappe della privatizzazione della sanità lombarda, di cui rappresentano una parte fondamentale le circa seicento Rsa private, su un totale di settecento strutture. Secondo Cusimano il principale interesse delle Rsa sarebbe diventato il profitto e non più la salute. Solo a partire da questo presupposto sarebbe possibile comprendere la progressiva riduzione e precarizzazione della forza lavoro all’interno delle Rsa, dove operano numerosi dipendenti di cooperative esterne. Nel corso dell’assemblea sono stati presentati anche i dati ufficiali forniti dall’Asp Golgi-Redaelli a metà aprile, in seguito alle pressioni dei parenti degli ospiti e dei lavoratori. Il numero dei dipendenti in malattia all’interno dell’istituto è cresciuto vistosamente nell’ultimo periodo, con 114 lavoratori in malattia nella struttura di Abbiategrasso, 145 a Vimodrone e 112 a Milano. Il numero dei dipendenti di ditte esterne attive nell’Asp Golgi-Redaelli in malattia è stato registrato solo a Vimodrone, mentre non si conoscono i dati di Milano e Abbiategrasso. Anche i tamponi, fatti sui dipendenti delle Rsa dopo numerose richieste da parte dei lavoratori, non sono stati eseguiti sugli operatori di ditte esterne, così come non sono stati distribuiti in modo uniforme i dispositivi di protezione individuale.

Nei giorni successivi all’assemblea dei lavoratori i Nas hanno ispezionato la Rsa di Abbiategrasso ed è stata ricostruita la dinamica dell’infezione, poi divulgata dalla stampa locale: il contagio sarebbe entrato nella struttura all’inizio di marzo attraverso due pazienti asintomatiche dimesse da ospedali delle vicinanze e ricoverate nella Rsa per riabilitazioni. Nel giro di alcuni giorni le due donne, di cui una ricoverata nell’ex Riabilitazione Alzheimer, avrebbero presentato i sintomi, quando ormai la diffusione del virus era avvenuta nell’istituto. Ad oggi non sono stati effettuati tamponi sul personale della Rsa di Abbiategrasso, mentre anche in un’altra struttura per anziani presente nel comune sono stati accertati numerosi casi di contagio. Alla lotta dei parenti e dei lavoratori, nelle ultime settimane si sono uniti anche cittadini, giornalisti e militanti locali per chiedere chiarezza e giustizia alle aziende sanitarie e alle istituzioni. Nel frattempo, anche il padre di Lucio non smette di lottare dentro al suo reparto, «come un vero leone del Ticino che è sopravvissuto alle bizze del fiume e non si spaventa di certo davanti al virus». (gloria pessina)

 

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FONTE: https://napolimonitor.it/milano-lo-scandalo-delle-rsa-e-le-resistenze-sanitarie/


Perù: rivolta nelle carceri per coronavirus, 9 morti

30 aprile 2020. A metà pomeriggio di lunedì 27 aprile, un gruppo di familiari di prigionieri del carcere di Castro Castro di Lima si è avvicinato all’esterno del centro per denunciare la mancanza di protezione di fronte alla pandemia in cui vivono i detenuti. “Non ci permettono di consegnare medicine, ci sono morti per covid-19 che non raccolgono”. Da mezzogiorno anche i prigionieri hanno iniziato a protestare, sono saliti in cima ai padiglioni per mostrare, con manifesti e slogan, la loro disperazione di fronte al contagio.

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Contro la riproduzione sociale del patriarcato pandemico

30 aprile 2020

Da un bel po’ di tempo ormai le donne non sono disposte a farsi addomesticare dal patriarcato. Che oggi esso tenti di riaffermarsi all’interno di una pandemia globale come supplemento necessario del dominio del capitale non è per loro una sorpresa: in fondo il patriarcato è pandemico da tempo immemorabile. In ogni parte del mondo e da posizioni diverse, le donne stanno continuando a rifiutare la violenza maschile e ad affermare la pretesa di libertà che in questi anni ha fatto dello sciopero femminista un processo globale.

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Siamo davvero tutti sulla stessa barca?

Mentre ci chiediamo quando rientrerà definitivamente l’emergenza sanitaria e in che modo nei prossimi mesi verranno allentate le restrizioni, è difficile illudersi la vita quotidiana torni com’era prima di febbraio.

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NON LASCIAMOCI DISASSEMBRARE

Pubblicato il17/03/2020

Bentruxu: diario dalla Sardegna

Per accedere al sito: Bentruxu

Lo Stato è sempre lo Stato.
La Sardegna è sempre una colonia.
Cronache di repressione, menzogne e colonialismo al tempo del coronavirus.

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Una storia di lotte per i diritti delle persone con disabilità

Poster di Ed Hall al People’s Museum di ManchesterLe persone con disabilità o malattie croniche sono state a lungo soggette a una negazione delle cure. Infatti, indipendentemente da dove ci troviamo, abbiamo dovuto far fronte alla carenza di cure mediche, al difficile adattamento all’ambiente architettoninco, al ristretto accesso alle tecnologie di assistenza e all’assistenza personalizzata, e molte altre cose. Allo stesso modo, siamo anche stati soggetti/e all’imposizione di cure. Abbiamo dovuto liberarci dall’iperprotezione familiare, dall’istituzionalizzazione forzata e dalla segregazione in istituzioni specializzate. La storia delle nostre comunità organizzate e in lotta per superare questa doppia disabilità, oggettiva e soggettiva, è una lunga storia.

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FASE 2: liberarsi dalla paura!

La gestione dell’emergenza Covid sta generando costi sociali ed economici elevatissimi: la storia insegna che il “ritorno alla normalità” corrisponderà a un allargamento della forbice sociale, cresceranno le disuguaglianze e molti si troveranno a fare i conti con l’assenza di un reddito, la difficoltà a pagare un affitto, l’impossibilità di accedere a servizi di supporto per le più disparate esigenze.

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Denuncia dei lavoratori dei dormitori pubblici di Torino: troppo tardi i tamponi, rischio focolaio tra i senza fissa dimora

iuri camilloni Centro la Fenice Firenze

30 aprile 2020. «Quello che ci sconvolge è che il comune e la Regione ci hanno messo un mese per capire cosa si doveva fare con conseguenze gravi per gli ospiti e i lavoratori». A parlare una delle lavoratrici che ha firmato la lettera dei “Lavoratori del Settore Adulti in Difficoltà di Torino” uscita su Facebook e sui media ieri l’altro. Nella lettera si ripercorrono le tappe della riposta all’emergenza covid per le strutture comunali dei senza fissa dimora che arrivano ad ospitare un totale di 800 persone in periodo invernale: a fronte delle prime richieste di cambiamenti al comune fatte il 10 marzo secondo gli operatori solo il 20 marzo si è iniziato a ridurre il numero degli ospiti per casa, il 24 marzo si è proceduto all’apertura 24h su 24 (tranne dalle 10 alle 14 per la sanificazione), mentre i tamponi sono arrivati solo a fine aprile.

«Ci sono situazioni di alta promiscuità con camere da due, tre persone e un bagno ogni 6, 7 persone» afferma l’operatrice. «Ma anche i primi spostamenti da situazioni con più ospiti sono stati fatti verso due strutture che erano già piene, quelle di via Massaua e via Ghedini, quindi hanno solo aumentato i posti letto là».

I disastro della Reiss Romoli: tanti sospetti covid per venti giorni senza operatori

Le strutture per i senza fissa dimora a Torino sono circa una ventina di cui 8 del comune più due per l’emergenza freddo e le altre sono del privato sociale. La denuncia riguarda 4 strutture del Comune dove i problemi sono arrivati a fine marzo con i primi casi «Il 30 Marzo viene reso noto il primo ospite Covid-positivo all’interno del dormitorio di via Reiss Romoli (oltre che nelle strutture di via Ghedini e piazza Massaua), a cui segue non solo il contagio dell’équipe tutta, ma anche il contagio della quasi totalità degli ospiti presenti in struttura, trasformando così il dormitorio in un focolaio Covid a tutti gli effetti». Si legge nella lettera. «Dopo i primi casi la struttura è rimasta senza operatori perché erano tutti in malattia con i sintomi da covid – spiega l’operatrice – è stato fatto un presidio fuori con la polizia municipale e operatori della cooperativa che gestisce il posto. I tamponi sono stati fatti solo settimana scorsa ai pochi ‘superstiti’ perché di venti ne sono rimasti 6 o 7, tutti gli altri sono stati ospedalizzati».

Ora la struttura è stata svuotata, sanificata e riaprirà la prossima settimana ma quello che sostengono i lavoratori è la paura che anche in altre case si possa verificare una situazione come alla Reiss Romoli. «Via Massaua che è considerato un fiore all’occhiello del comune – dice l’operatrice – è stata le prima struttura in cui si è registrato un caso il 27 marzo, e oltre a non aver modificato niente non hanno neanche fatto i tamponi. Fatto sta che ora sono arrivate a 7 le persone positive in via Massaua di cui l’ultimo di venerdi scorso». Anche negli altri dormitori i tamponi sono arrivati solo a fine aprile quando i primi casi sono stati a fine marzo. Solo nella struttura di via Carrera i prima casi sono più tardivi, della settimana scorsa, e ieri, il 30 aprile sono stati effettuati i tamponi. Anche a ‘Carrera’ sono almeno 4 gli ospiti già positivi.

«In tutto questo – dice la lavoratrice – i lavoratori non vengono neanche presi in considerazione per i tamponi».

Il Comune risponde: siamo amareggiati, abbiamo fatto tutto il possibile il nostro sistema è forte

Il dirigente alle fragilità del Comune di Torino, Uberto Moreggia si dice molto «amareggiato» da quella lettera. «Non si può affermare che il comune non abbia investito o non si sia preso cura del settore delle marginalità – afferma Moreggia a Covid Italia News – da subito abbiamo provveduto a fare i triage esterni, a procurarci i termometri che misurano la febbre a distanza e i dispositivi di protezione individuale come Città di Torino. Ma non era facile solo da metà marzo abbiamo iniziato ad averne a sufficienza. Senza contare che i nuovi posti a Massaua e a Ghedini sono in due parti totalmente separate dalla struttura mentre nella lettera sembra che abbiamo messo più persone nello stesso luogo».

Quello che non si dice nella lettera dice Moreggia è che «ci siamo trovati ad affrontare una crisi sanitaria che ci ha colpito nel periodo di massima affluenza con un enorme impatto che ha intaccato la base dei nostri servizi, cioè la relazione sociale. I dormitori non sono alberghi o ostelli ci sono servizi, possibilità di tirocini percorsi di inclusione».

Il comune poi ricorda che le indicazioni dal livello nazionale sono arrivate solo il 26 marzo con la  circolare del governo su “Emergenza covid e servizi sociali” mentre la regione ha emanato indicazioni più specifiche solo il 6 aprile. «Ma con degli accorgimenti che avevamo già adottato a inizio marzo».

Tamponi in ritardo e lavoratori malati

I tamponi però sono arrivati un mese dopo i primi casi. «Ma pensate che dipendano da noi i tamponi? – risponde il dirigente comunale – sono in capo all’Asl e sono stati fatti quando è stato possibile e del resto rendiamoci conto che i casi si sono verificati in 4 strutture su una ventina e adesso abbiamo un piano per alleggerire ulteriormente i dormitori con altre strutture».

I lavoratori hanno parlato a Covid Italia News di tutta un’equipe rimasta a casa con i sintomi alla struttura di Reiss Romoli ma anche al Ghedini hanno dovuto mandare operatori da altri servizi perché il gruppo che normalmente lavorava lì era a casa in malattia tranne due persone.

«Per quanto riguarda gli operatori – dice Moreggia – sono risultati positive tre persone al Reiss Romoli di cui una è stata anche ricoverata, più un addetto alle pulizie, una persona è risultata positiva alla struttura in via Massaua, ma prima che gli ospiti diventassero positivi. In via Carrera è stato fatto il sierologico a tutti e sono risultati negativi, mentre in via Ghedini non ci sono positivi».

Tra gli ospiti c’è chi ha scelto di uscire dal dormitorio per non rischiare il contagio

E loro? I senza fissa dimora come hanno vissuto tutto questo? Covid Italia News è entrata in contatto con Nicolò Consiglio sfrattato nel 2013 e dopo varie vicende finito nei dormitori pubblici torinesi. «All’inizio ti fanno ruotare un mese in ogni dormitorio -racconta – ed è piuttosto dura ma ero riuscito ad avere una permanenza di nove mesi in via Carrera e pure un tirocinio. Per me era l’occasione di riscatto e di ridare qualcosa indietro». Stava andando piuttosto bene per Nicolò che stava aspirando ad una casa popolare tutta sua. E poi è arrivato lui, il coronavirus. «Verso il 10 marzo le educatrici ci hanno detto che avrebbero chiuso ai nuovi ingressi e che se avessimo avuto un altro posto per passare il periodo di pandemia forse era meglio. Più sicuro». Il signor Consiglio trova questo amico per cui ogni tanto fa qualche lavoretto di riparazione e gli chiede se può stare in uno dei suoi capannoni poco fuori Torino. «Sono arrivato qui che era ancora molto freddo e non avevo i vestiti adatti – racconta – è stata dura anche perché un paio di giorni ho avuto la febbre e ho avuto paura». «Penso di aver fatto la scelta giusta – continua – sono ancora in contatto con il mio ex compagno di stanza che mi ha raccontato che ci sono tre positivi a Carrera ma anche se un po’ di timore ce l’ha mi dice ‘ma dove altro potrei andare?’».

Nicolò però dopo due mesi di isolamento vuole tornare a Torino, «Voglio vedere le mie figlie, voglio riprendere il tirocinio e il mio percorso. Io mi trovavo bene a Carrera. Speriamo che si possa presto ritornare alla normalità».

Cecilia Ferrara
Collettivo Emera

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FONTE: https://coviditalianews.org/2020/04/30/denuncia-dei-lavoratori-dei-dormitori-pubblici-di-torino-troppo-tardi-i-tamponi-rischio-focolaio-tra-i-senza-fissa-dimora/


Vivere dentro a un nuovo linguaggio. Forme del controllo e pratiche di lotta al capitale pandemico tra Cina e Italia

Intervista a ZHENG NINGYUAN (gruppo WUXU) realizzata da Connessioni Precarie www.connessioniprecarie.org

Pubblichiamo una lunga intervista a Zheng Ningyuan, artista e attivista cinese che vive a Bologna ed è tra i fondatori del gruppo WUXU e del progetto 4xDecameron, lanciato in occasione della pandemia da coronavirus Covid-19 per condividere riflessioni e pensieri sulla quarantena tra Italia e Cina. Zheng ci racconta dal punto di vista particolare di attivista e studente migrante cosa sta accadendo in Cina, soffermandosi in particolare sulle forme di tensione che caratterizzano le misure straordinarie introdotte dal governo cinese per arginare la pandemia. Dall’intervista emerge uno spaccato della situazione cinese utile per chiunque voglia capire meglio la realtà di un paese che non è solamente il primo luogo nel quale è scoppiata l’epidemia, ma anche un indiscusso protagonista globale del capitalismo contemporaneo. Se anche solo il lockdown imposto nella regione dell’Hubei, di cui Wuhan è la capitale, prima che il coronavirus si diffondesse in tutto il mondo, ha prodotto un contraccolpo quasi immediato nelle catene della produzione globale, questo significa che non possiamo guardare alla Cina né come a un posto lontano, né semplicemente come a un esempio per capire come frenare l’epidemia. Al contrario: comprendere ciò che accade in Cina, tanto nelle forme del governo, quanto per quello che riguarda le forme di conflitto, è decisivo per sviluppare una capacità di invenzione politica transnazionale, tanto più oggi, quando la dimensione globale dei processi nei quali siamo immersi è resa evidente da una pandemia che non li cancella, ma li modifica, a volte li rafforza o a volte impone svolte repentine. Questa intervista offre alcuni spunti sui quali ragionare. Ne emerge uno spaccato della società cinese molto diverso dall’immagine compatta offerta dallo scontro in atto tra gli Stati per conquistare la medaglia di «modello» in una lotta globale. D’altra parte, non siamo interessati né alla celebrazione di una presunta efficienza cinese, né a una polemica sui diritti umani che cancella le forme del potere, le differenze e le fratture politiche che attraversano la società cinese. Da quanto ci racconta Zheng possiamo osservare come la complessità amministrativa dello Stato cinese e la forte decentralizzazione siano alla base tanto di momenti di confusione nelle linee politiche, quanto di una spinta politica al protagonismo del governo centrale che sarebbe però sbagliato interpretare come espressione di un equilibrio omogeneo e intoccabile. Al tempo stesso, se le misure prese per il controllo della pandemia rafforzano in modo deciso strumenti di controllo già ampiamente sviluppati dallo Stato cinese, e che si basano su pratiche sociali diffuse, ciò non impedisce di osservare le molteplici forme di conflitto e mobilitazione che attraversano la Cina e i cinesi. È in particolare attraverso Internet, dove la continua censura non riesce ad arginare l’altrettanto continuo emergere di voci dissonanti, che molte di queste tensioni si rendono visibili. Ma l’intervista mostra anche l’attualità cinese di questioni politiche globali come la condizione dei migranti, dei lavoratori precari e delle donne. Tuttavia, crediamo anche che da questa intervista emerga la difficoltà di leggere e interpretare la realtà globale semplicemente applicando schemi o rivendicazioni che si affermano all’interno di ambiti ristretti di mobilitazione. Ci sembra invece più fruttuoso pensare al lavoro che ancora deve essere fatto per trovare dei modi di agire e un nuovo linguaggio capace di affrontare l’insieme di queste questioni. Questo riguarda anche i cinesi nel mondo e, in particolare, in Italia, ai quali Zheng invita a guardare evitando quello che potremmo definire uno sguardo limitato dalla pandemia.

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