NON LASCIAMOCI DISASSEMBRARE

Pubblicato il17/03/2020
Di seguito l’elenco delle pillole, che troverete aggiornato di uscita in uscita (work in progress):
Pillola 1. Chat, video e streaming liberiPillola 2. Educazione e didattica a distanzaPillola 3. Film, documentari, intrattenimentoPillola 4. Scrivere, archiviare, lavorare a distanzaPillola 5. Condividere file in sicurezzaPillola 6. Navigazione in rete e data tracking“Tutti a casa!” ha urlato il governo. “Siete degli irresponsabili!” ha urlato il padronato ai lavoratori in sciopero costretti a lavorare in condizioni di esposizione al contagio. “Restate connessi!”, hanno urlato i capitalisti della sorveglianza.

In questo periodo di clausura per i più (ma non per tutti) e di epidemia, stiamo già assistendo a un fenomeno pericoloso: la digitalizzazione accelerata e forzata di molti settori della società e di tanti aspetti delle relazioni e attività sociali. Saremo gentilmente costretti o invitati dalla “solidarietà-un-cazzo” delle grosse aziende e corporations della gig-economy a utilizzare piattaforme proprietarie per poter svolgere lavoro e mantenere una forma di quotidianità e contatto a distanza mediato dal mezzo tecnologico.

Dall’organizzazione dello smart working alla didattica-a-distanza, dagli “aperi-Skype” allo streaming video e musicale, fino all’aumento esponenziale dell’utilizzo di social network e chat per restare in contatto: il processo di esproprio di dati e mining reality, di costruzione di una architettura della scelta entro i limiti imposti da Google, Microsoft, Apple e gli altri operatori privati che dominano il digitale ha l’occasione come non mai di appropriarsi di interi segmenti di tempo e spazio delle nostre vite in modo capillare. Grazie al monopolio sul possesso dei mezzi di socialità a distanza in tutti gli ambiti, ci sono di fatto indispensabili per garantirci efficienza, soddisfazione, tempo libero, relazioni.

Il disassembramento ha molti aspetti: è lo stato d’eccezione che, in nome di misure di sicurezza necessarie, sospenderà per lungo tempo diritti civili e attraversamento degli spazi urbani; sono gli scarti della digitalizzazione accelerata, chi non può accedervi, le fratture sociali che diventano ulteriore isolamento ed esclusione in tempi di quarantena; è anche accettare lo scambio tra continuazione (responsabile secondo Decreto) della normalità e del lavoro e furto della propria individualità.

Si può e si deve mantenere la solidarietà sociale senza diventare fonti di arricchimento per quello stesso capitalismo delle piattaforme da cui diventiamo sempre più dipendenti quanto più cediamo parti di noi: proveremo, anche aiutati da chiunque ci voglia supportare in questo lavoro politico, a dire che delle alternative esistono, che l’attuale disassembramento non deve per forza significare anche sorveglianza e perdita di ulteriore libertà di decisione. Per ogni livello della vita sociale vi sono strumenti liberi e che tutelano le forme delle intimità personali e delle organizzazioni collettive: anche questo è un modo per resistere e prepararci alla crisi che si aprirà dopo, quando l’epidemia in un modo o nell’altro finirà.

Buona vita e non lasciamoci disassembrare.

Di seguito l’elenco delle pillole, che troverete aggiornato di uscita in uscita (work in progress):

Pillola 1. Chat, video e streaming liberi

Pillola 2. Educazione e didattica a distanza

Pillola 3. Film, documentari, intrattenimento

Pillola 4. Scrivere, archiviare, lavorare a distanza

Pillola 5. Condividere file in sicurezza

Pillola 6. Navigazione in rete e data tracking***

Non lasciamoci disassembrare/1: chat, video e streaming liberi

Whatsapp & co. funzionano alla grande. Ma hanno un piccolo difetto: espropriano i nostri dati personali e li vendono al migliore offerente, rendendoci più sorvegliati e ricattabili.Dietro la retorica della costruzione di “una comunità globale e connessa al servizio di tutti noi” c’è un progetto cinico e aggressivo per costruire un aspirapolvere globale di dati che attinge da tutti noi. Le grandi aziende come Alphabet (Google), Facebook (Fb, Whatsapp, Instagram) e Amazon guadagnano scavando in profondità nei nostri dati personali, ricavandone modelli di comportamento e attitudini di acquisto che poi rivendono a terzi istituendo, di fatto, un mercato, piú o meno invisibile agli occhi dei piú. Se la cosa può apparire innocua ai più, in realtà non lo è.Il fatto che ci invadano pubblicità sempre più invasive, mirate, targettizzate ai nostri gusti non dipende dalla capacità divinatoria delle macchine, ma dal fatto che stiamo vendendo a queste multinazionali “pezzi” della nostra vita. L’idea di un futuro digitale tutto rosa e fiori ha un prezzo sociale altissimo: passa dalla schedatura delle persone attraverso le loro operazioni on-line e sui dispositivi, considerandole non come individui ma aggregati di dati da spremere per ricavarne denaro. I dati che produciamo sono manodopera e hanno un valore che non viene riconosciuto dalle aziende di cui sopra.Il comportamento di queste aziende, inoltre, è sleale perché occulto: avete mai provato a leggere i termini di sottoscrizione a Whatsapp? Ma chi le legge 30 pagine di informativa sulla “privacy”? L’uso di un linguaggio vago, avvocatesco, é vantaggioso sempre e comunque per coloro che di fatto sono, cioé diventano, con un nostro semplice click, i proprietari delle suddette informazioni. Una macchina che favoriamo e supportiamo con la nostra disattenzione e inconsapevolezza, “accettando le condizioni” di un patto demoniaco con “fornitori di servizi”.Altra questione: chi sono questi “terzi” che comprano i nostri dati? Come ha dimostrato lo scandalo di Cambridge Analytica qualche anno fa, Facebook e gli altri social network di sua proprietà vendono dati al miglior offerente, e questa impressionante mole di informazioni può venire usata non solo per determinare le nostre abitudini e frequentazioni oltre che modificare aspetti fondamentali del nostro vivere. Oppure i dati possono venire usati, come ci insegna la recente crisi corona virus, per ventilare l’esercizio sui cittadini di una forma di controllo sociale dall’alto (la Regione Lombardia che monitora e controlla gli spostamenti attraverso gli smartphone), rendendo un futuro distopico il nostro presente reale. Quindi, per riprendere controllo delle nostre azioni che siano on-line o off-lilne e non accettare a-criticamente quello che ci accade intorno, le tecnologie open source e che proteggono i nostri dati sono un primo passo verso la messa in discussione di un modello accentratore (sia in termini di monopolio di mercato che di controllo para-statale) e potenzialmente distruttivo dei nostri diritti.***

Non lasciamoci disassembrare/2: educazione e didattica digitale

La popolazione scolastica in età dell’obbligo in Italia è di circa 9 milioni di minori, costretta a casa sicuramente fino a maggio e probabilmente fino a settembre, a causa delle misure precauzionali per emergenza #Covid19. Con la prospettiva di prolungamento della sospensione, Istituti scolastici e Ministero dell’Istruzione hanno iniziato a porsi la questione della continuità didattica e relazionale dei minori.Senza tener conto della ancora profonda disuguaglianza di accesso a internet e a computer o dispositivi che permettono la fruizione delle piattaforme digitali con cui le scuole vorrebbero far fronte alla didattica a distanza (a Milano il 79% degli abitanti è coperto da banda larga, mentre la media in Lombardia è inferiore al 50%, in Italia ancora inferiore), la crisi offre una occasione di estensione del business e di estrazione di dati ai grandi protagonisti del capitalismo della sorveglianza, che hanno offerto gratuitamente le loro piattaforme a insegnanti e genitori: a partire da Google e Apple passando per Microsoft e Promethean, leader mondiale nella produzione di dispositivi per la didattica.Da questa crisi non solo il diritto all’istruzione rischia di uscire ancora più segmentato, creando di fatto una discriminazione tra chi accede alla didattica a distanza e chi non può, ma il sistema educativo apparirà ancora più privatizzazione se non de iure, de facto.Google ha offerto al MIUR, come in altri paesi, mail per i docenti con spazio illimitato e piattaforme per l’istruzione telematica (G Suite for Education, Hangouts Meet e/o Google Classroom). La privatizzazione avviene su un doppio canale: l’infrastrutturazione digitale gestita da operatori privati, imponendo l’utilizzo delle loro piattaforme proprietarie, verso cui la scuola pubblica si pone in termini di subalternità e dipendenza; il rapporto docente-studente, mediato da canali che anzitutto sono mezzi di estrazione dati.Non sono accuse aleatorie, ma che hanno anche una recente storia processuale e di conflitto nella dimensione dei diritti civili: in New Mexico è stato aperto un caso contro Google, proprio sulla raccolta, registrazione e utilizzo informazioni sugli studenti delle classi che utilizzano GSuite, giustificato secondo gli avvocati dell’azienda dal fatto che la responsabilità sarebbe degli Istituti scolastici che avrebbero dovuto avvisare i genitori. Negli USA sono 80 milioni circa i bambini e gli insegnanti che usano le piattaforme Google.In Germania, l’equivalente del nostro Garante della Privacy ha vietato l’utilizzo dei servizi cloud forniti da Google, Microsoft e Apple all’interno delle scuole pubbliche, proprio a seguito di indagini che hanno rilevato la assoluta mancanza di rispetto della riservatezza da parte dei colossi GigTech. La Norvegia sta facendo indagini in tal senso. L’emergenza non deve giustificare l’attuale svendita e colonizzazione de facto non solo dell’istruzione, ma anche e soprattutto dell’infanzia.***

Non lasciamoci disassembrare/3: film, documentari, intrattenimento

Dentro le grandi piattaforme di intrattenimento (Netflix, Amazon Prime e da poco anche Disney +) batte un cuore di big data in grado di profilare non solo i nostri gusti, ma anche di avere un’idea sempre più chiara di chi siamo, di cosa ci piace, di quali sono le nostre idee e le nostre abitudini. Intrattenimento in cambio di informazioni: dietro questo scambio apparentemente innocuo si nasconde il solito evidente problema della tutela non solo della privacy ma della libertà di decisione e azione nell’economia digitale.Inoltre, se lo scopo degli algoritmi di Netflix & co a breve termine è quello di consigliarci il film giusto da guardare, nel lungo – attraverso l’analisi dei gusti individuali e la mappatura di tutte le nicchie di mercato – è quello, da un lato, di decidere cosa produrre e distribuire, accentrando produzione e distribuzione nelle mani di pochissime grandi aziende (ancora di più di quanto avviene oggi); dall’altro di determinare cosa vorremo guardare, non solo dentro Netflix e Amazon Prime, ma rispetto alla lunga filiera dell’entarteinment online, a cui vengono ceduti e venduti le informazioni su desideri e preferenze, spacchettate a seconda della tipologia. Sono i cosiddetti “mezzi di modifica del comportamento”.C’è poi un problema che ha a che fare con la politica dello sguardo. Il consumo sempre più diffuso di questo genere di intrattenimento e la capacità di analisi dei dati crea una “netflixitation dello sguardo”: se sono gli algoritmi a decidere in modo sempre più efficiente come una storia deve essere raccontata, come deve finire, a che punto deve morire il cattivo – o persino come una sequenza deve essere ripresa – si ottiene una omologazione dei contenuti a cui corrisponde un’omologazione del pensiero (come per Spotify, dove l’analisi ossessiva degli ascolti incoraggia i produttori a dare al pubblico ciò che si aspetta invece di provare strade nuove – la perfetta antitesi del concetto di creatività).Infine, bisogna considerare le sempre più raffinate tecniche di economie di scopo che le piattaforme dello streaming a pagamento stanno sperimentando e sviluppando: dopo aver iniziato proprio Netflix con programmi per bambini, ha implementato l’offerta per adulti con l’episodio interattivo Bandersnatch della serie Black Mirror, dove l’infrastruttura dell’interazione e della scelta produce inevitabilmente reazioni emotive, commenti, modelli algoritmici di azioni e reazioni che lasciano dietro di sé tracce riutilizzabili e rivendibili.Per resistere all’appropriazione capziosa dei nostri dati e dei nostri occhi in questi tempi di quarantena, abbiamo preparato una piccola lista nella pillola visual seguita da un elenco più completo, che cerca di dare voce alla pluralità di linguaggi, forme artistiche e distribuzione, e che ciascuno può arricchire come crede. Oggi vi proponiamo la prima parte:

Anarchist Film Archive: collezione crescente di quasi 1000 film, documentari, interviste, interviste, conferenze e brevi video difficili da trovare – tutti con temi anarchici o libertari di educazione, giustizia, resistenza – e liberazione. https://christiebooks.co.uk/anarchist-film-archive/Snagfilms: Film filantropici e spettacoli televisivi online. Oltre 2.000 film, episodi di telefilm, documentari Snagfilms.comOpen Culture: un catalogo di oltre 1150 film fra classici, noir, documentari gratuiti http://www.openculture.com/2011/09/three_anti-films_by_andy_warhol.html Archivio digitale Filarmonica di Berlino: fino al 31 marzo, ci si può registrare con il codice BERLINPHIL al sito che consentirà l’accesso gratuito a tutti i concerti e documentari nell’archivio per un periodo di 30 giorni. https://www.digitalconcerthall.com/en/home Idfa: il più importante festival di documentario europeo mette a disposizione parte del suo archivio storico https://www.idfa.nl/en/info/watch-films-onlineHome Movies: documentazione audiovisiva inedita, privata e personale, che costituisce un ampio e prezioso giacimento visivo per la storia italiana del Novecento https://homemovies.it/Rom Archive: archivio artistico e documentario sulla cultura Romanì (contiene documentari, foto, musica) https://www.romarchive.eu***

Non lasciamoci disassembrare/4: scrivere, archiviare, lavorare a distanza

Servizi come quello offerto da Google Drive esprimono pienamente il modo di operare del “capitalismo della sorveglianza”: le grosse multinazionali offrono servizi gratuiti, facili da usare e che si integrano alla perfezione con altri delle stesse aziende o parti terze (si pensi a Drive, gmail, google maps, calendar). Il rovescio della medaglia di questa comodità è la cessione dei nostri dati personali, con evidenti ricadute sulla privacy.Nel momento in cui inviamo file o documenti a Google la autorizziamo di fatto a modificarli, a riprodurli e crearne di nuovi a partire dai nostri, senza contare che Google può utilizzarli anche pubblicamente. Ovviamente l’azienda non farà mai nessuna di queste cose, perché non le interessa. Ci dice che queste clausole servono esclusivamente a migliorare e promuovere nuovi servizi del gruppo. Ciò che però le interessa, e che rappresenta il suo modello di business (e di controllo), è l’analisi dei dati contenuti nei nostri documenti (quello che scriviamo, quello che carichiamo sul cloud, i nostri appuntamenti) alla ricerca di informazioni attraverso potenti e raffinati algoritmi di calcolo per poter fornire pubblicità mirata e conoscere più dettagli sui propri utenti. Il problema riguarda non solamente Google Drive, ma anche Gmail e tutti gli altri servizi del gruppo, oltre a tantissimi servizi privati di archiviazione e di lavoro in remoto. Questo infatti è il principale modello di business del capitalismo della sorveglianza: conoscenza=potere=controllo. Oltre alla svendita e alla sottrazione illecita dei propri dati personali, che nell’economia digitale rappresentano la moderna manodopera e producono un valore, c’è un evidente problema di privacy, perché questi dati, così come sono liberamente trattati dalle aziende, potrebbero finire nelle mani di governi, polizia o altre organizzazioni.Dove possibile, è quindi importante cercare di organizzare il nostro lavoro e la nostra vita sociale su piattaforme collaborative, che non operino nessun tracciamento, nessuna pubblicità, nessuna profilazione e nessun data mining.***

Non lasciamoci disassembrare/5: condividere file, personali e di lavoro, in sicurezza

WeTransfer, Google Drive, DropBox, Hightail: questi servizi commerciali attraverso i quali milioni di persone condividono materiali di lavoro o file personali ogni giorno hanno accesso diretto ai contenuti che ci inviamo e scambiamo. Come proteggerci da cattura ed esproprio e tornare a un concetto reale di condivisione?

We Transfer è uno dei servizi di file sharing più diffusi e di maggior successo al mondo. Ma come tanti altri servizi di questo tipo e cloud storage commerciali ha degli evidenti limiti. Se il caricamento dei dati e l’invio dei link di download sono crittografati, il destinatario riceve un’email non crittografata che contiene il link. Soggetti terzi a cui il contenuto non era destinato possono quindi intercettare questa email e avere accesso ai file.Altri servizi commerciali molto diffusi, come Google Drive e Dropbox (ma anche la stessa We Transfer), sebbene operino in Europa mantengono sui propri server centrali, ubicati quasi sempre negli Stati Uniti, backup dei nostri documenti in forma non crittografata, rendendoli di fatto disponibili a controlli governativi o di parti terze. Questi strumenti dimostrano di avere un basso livello di protezione della privacy, rendendo sconsigliato archiviare o condividere informazioni sensibili e documenti personali (dati bancari, documenti di identità, ecc). Nel web esistono diverse alternative per aumentare la sicurezza e la privacy dei propri dati: da strumenti che permettono di crittografare i dati PRIMA dell’upload sui server, a programmi di archiviazione decentralizzati, in cui i file rimangono sul proprio computer e non sono condivisi con terze parti.Ci limitiamo qui a segnalare una breve lista (assolutamente non esaustiva) di servizi che uniscono alla semplicità d’utilizzo una filosofia operativa che vede il web come un ambiente collaborativo, anonimo, libero e senza ingombranti intermediari. Per tornare a un concetto reale di condivisione, in senso cooperativo ed egualitario, senza cedere nulla in cambio – come invece pretende la struttura del web sharing proprietario, che dietro la gratuità apparente nasconde invece l’accumulazione di surplus comportamentale e informazioni riservate.***

Non lasciamoci disassembrare/6: navigazione in rete e data tracking

La nostra esperienza sul web come materia prima di un mercato non aperto, di asimmetrie dell’informazione. Come cancellare le nostre tracce, evitare di essere tracciati e garantirci libertà di movimento digitale?

Nei primi tempi di Internet, il collegamento tra un computer e un server si basava sulla fiducia tra i due. Questa “fiducia” è stata manomessa dal marketing digitale, scoperto da Google e seguito da diversi altri. La nostra esperienza con il web è diventata la moneta di scambio, monetizzando Internet per il profitto commerciale di pochi. Ogni ricerca, ogni interazione, ogni acquisto, lettura, visualizzazione, transazione, scambio, click, refresh, caricamento e condivisione: insomma, letteralmente ogni nostra azione sul web produce una mole di dati e di tracce digitali. Soltanto una piccolissima parte di queste è immediatamente disponibile in forma strutturata, mentre il grosso richiede una lavorazione successiva. Sono ciò che gli studiosi del campo definiscono surplus comportamentale, la cui “scoperta” ha fatto la fortuna di Google e, successivamente, delle altre aziende della rivoluzione digitale che hanno imitato il business model originario inventato dal gigante di Mountain View. Alla base c’è l’intuizione che la vera fonte del profitto sul web sono le tracce e i dati non strutturati che noi tutti lasciamo inconsapevolmente, più che i segni scoperti e trasparenti – il comportamento consapevole – del nostro agire sui motori di ricerca, nei siti di e-commerce, sui social network, nel mondo dell’informazione online. Surplus comportamentale è ad esempio il tempo di svolgimento di una ricerca, le reazioni ai risultati delle ricerche, le parole chiave e come mutano nel tempo, il numero di click e così via. Il risultato è la costruzione di una UPI per ciascuno di noi: User Profile Information, che può essere inferita, presunta, dedotta. E’ il nostro dataset personale, scomposto e rivenduto in tante parti con altri pacchetti di informazioni, a soggetti terzi per milioni di volte.Ed è proprio qui un altro passaggio fondamentale del data tracking: la maggior parte dei siti al suo interno include bug, cookies, embedded code che provengono da domini e server di società terze, le quali registrano e monitorano le informazioni (indirizzo IP, tipologia e modello di devices utilizzati, sistema operativo) su di noi così come i nostri comportamenti attraverso questi strumenti. I dati sul nostro dispositivo e sul comportamento online consentono alle aziende di collegare i nostri gusti e interessi direttamente a noi e di creare le UPI, utilizzate in maggioranza per costruire inserzioni pubblicitarie ad hoc, personalizzate, ma anche per indurre il comportamento: producendo e sottoponendo nel momento e nel luogo – fisico in cui mi trovo o digitale su cui sto navigando – calcolato (previsto) come più opportuno dall’algoritmo. La logica pubblicitaria resta quella centrale – e non a caso ad esempio Facebook è registrato nei listini delle piazze finanziarie dove è presente come “società pubblicitaria” – ma è previsto un passaggio ulteriore rispetto al modello commerciale del secolo scorso: l’influenza e la previsione sull’interesse, l’acquisto di un dato prodotto e/o la navigazione, la lettura di un certo sito.Le normative sulla privacy e i regolamenti dei singoli siti o piattaforme valgono relativamente: sebbene in molti casi sia stato possibile, tramite cause e class action, correggere il comportamento dei principali attori del mercato digitale, tuttavia la maggioranza del data tracking non avviene in modo illecito o nell’illegalità. Sono le molte pagine delle normative sulla privacy che indicano la funzione dei cookies presenti sul sito o le finalità commerciali della vendita a parti terze. Tuttavia, diverse ricerche hanno dimostrato come sostanzialmente nessuno dedichi più di una media di 2 minuti alla lettura di documenti che ne richiederebbero almeno 45. Il nodo da sciogliere non è dunque sulla trasparenza normativa o il rispetto della privacy, quanto il monitoraggio e lo sfruttamento di quel surplus comportamentale che è permesso nell’architettura attuale dello spazio digitale. Interrompere la catena dell’esproprio di ogni nostro dato è il primo passo per inceppare il meccanismo di accumulazione del capitalismo della sorveglianza. Gli strumenti che proponiamo vogliono aiutare ad agire in tal senso.

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FONTE: https://www.offtopiclab.org/non-lasciamoci-disassembrare-il-mutuo-soccorso-ai-tempi-della-quarantena/

 

 


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