di Alexik
Ci avevamo sperato, dal chiuso delle nostre case, osservando sorpresi l’aria della pianura padana tornare trasparente, la biodiversità riapparire e la fauna selvatica avventurarsi, timida, attraverso il cemento degli spazi urbani.
Toccavamo con mano, durante il lockdown, la dimostrazione di come sarebbe bastato fermare questo sistema di produzione, questo modello di mobilità, questo consumo insensato di roba inutile, perché la natura cominciasse a riprendersi ciò che è suo.
Avevamo sperato che fosse diventata chiara a tutti la possibilità concreta di un cambiamento radicale, ma sapevamo, in cuor nostro, che avevamo vissuto solo una fragile tregua nell’aggressione del capitale agli ecosistemi e ai territori, un rallentamento che precede la rincorsa.
Ed anche che come tregua aveva fin troppe eccezioni.
Segnali provenienti da tutto il mondo ci avvertivano che gran parte delle attività di maggiore impatto sull’ambiente e sulle comunità non solo stavano proseguendo ‘as usual’, ma approfittavano della pandemia per espandersi e riorganizzarsi.
Segnali che andavano tutti nella stessa direzione, delineando una dimensione mondiale del fenomeno, con una serie di caratteristiche ricorrenti, come – per esempio – l’inclusione sistematica nell’elenco dei ‘servizi essenziali’ di attività ad altissimo impatto ambientale e sociale.
Molti settori impattanti non hanno conosciuto fasi di arresto, ed hanno continuato ad operare anche quando si sono trasformati in fulcri di contagio, trasmettendolo alle comunità dei territori dove operavano.
Il lockdown non li ha colpiti, ma piuttosto li ha sottratti al controllo delle popolazioni e dei militanti, costretti in casa e privati della libertà di movimento, e sempre più soggetti ad aggressioni favorite dal coprifuoco: violenze poliziesche, arresti arbitrari e, soprattutto in America Latina, esecuzioni extragiudiziali.
In generale la militarizzazione dei territori, dispiegata in tutto il mondo con il pretesto della pandemia, è stata un poderoso deterrente per le proteste sociali e ambientali, facendo da copertura per la violenza selettiva contro gli attivisti, dispensando cariche e sgomberi su presidi e manifestazioni.
Una violenza che non potrà che intensificarsi, perché ciò che si prepara per il futuro è un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento della Natura, che ci verrà venduto come l’unica scelta possibile per ‘riattivare l’economia’ di fronte alla recessione mondiale che viene.
La devastazione ambientale è … un “servizio essenziale”?
Una molteplicità di governi ha esentato dal blocco della produzione per l’emergenza Covid le imprese estrattive, minerarie e petrolifere, la costruzione di grandi opere e di infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi o per la produzione di energia, sebbene non abbiano nulla a che fare con il soddisfacimento dei bisogni immediati delle popolazioni colpite dalla pandemia.
In Italia è stata inserita fra i ‘servizi essenziali’ la costruzione del gasdotto TAP/Snam, grazie alla libera interpretazione del dettato del DPCM del 22 marzo, che dava il via libera al proseguo delle attività di trasporto e distribuzione del gas.
Una misura che, a buon senso, si riferiva alle reti distributive già esistenti e funzionanti, ma che con una evidente forzatura è stata estesa anche ai cantieri in corso d’opera.
Sulla “essenzialità” di un nuovo gasdotto, va detto che nel solo mese di aprile 2020 i consumi di gas in Italia sono calati di oltre il 23%, circa 1,3 miliardi di metri cubi in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, seguendo un forte trend negativo già visibile dal novembre scorso.
Comunque, in piena pandemia, i lavori di avanzamento nelle province di Lecce e di Brindisi sono continuati a pieno ritmo, spiantando altri uliveti, aprendo voragini, attingendo dal sottosuolo enormi quantità di acqua, inquinando le falde, e tuttora continuano in spregio ad ogni normativa visto che il 20 maggio scorso al TAP è scaduta anche l’Autorizzazione Unica.
Il cantiere è andato avanti nonostante fosse stata messa in quarantena una delle navi utilizzate da TAP per l’analisi dei fondali, è proseguito nonostante l’infortunio mortale di un giovane operaio, e nonostante la richiesta di sospensione per motivi di sicurezza da parte di sette sindaci salentini, motivata dall’avvicendarsi nei turni di centinaia di lavoratori, le cui condizioni sono state così descritte da un operaio ai microfoni RAI:
“Quelli della sicurezza hanno le mascherine a norma, noi lavoriamo con la carta igienica e il rischio di contagio è altissimo: in uno spogliatoio siamo 10-15 operai e non abbiamo nemmeno i 20 centimetri di distanza uno con l’altro”.
Dello stesso tenore la denuncia di due deputate del gruppo misto:
“Guanti e mascherine non a norma indossate anche per due tre giorni, operai che arrivano settimanalmente dal Nord, spogliatoi con 20 persone senza protezioni, distanze di sicurezza non rispettate, controlli farsa della Asl, che avvisa preventivamente i dirigenti sul giorno dei controlli, così da renderli perfettamente a norma”.
Uscendo dal Belpaese e attraversando l’oceano, una simile declinazione del concetto di ‘servizio essenziale’ la ritroviamo in Messico, dove il governo progressista presieduto da Andrés Manuel López Obrador ha ritenuto – nel paese latinoamericano con il più alto numero di morti di Covid (più di 25mila) dopo il Brasile – che la priorità nazionale fosse quella di autorizzare a colpi di decreto l’inizio dei lavori per la costruzione del ‘Tren Maya’.
Si tratta di una linea ferroviaria ad alta velocità lunga circa 1.500 kilometri che dovrebbe avere lo scopo di far scorazzare i turisti attraverso cinque Stati messicani, da Palenque a Cancun, con prezzi prevedibilmente al di fuori della portata della maggior parte degli abitanti dello Yucatan.
L’operazione è ad altissimo impatto ambientale e sociale in termini di esproprio di terre, espulsione e delocalizzazione delle comunità (prevalentemente indigene), deforestazione, prosciugamento delle sorgenti, distruzione di habitat ed ecosistemi, interruzione e sbarramento dei percorsi degli animali selvatici e dei collegamenti fra i villaggi.
Il tracciato della linea ferroviaria vorrebbe impattare su 709 siti archeologici, attraversando 15 aree naturali protette, fra cui la Reserva de la Biosfera de Calakmul (Campeche), riconosciuta dall’UNESCO come patrimonio mondiale dell’umanità, dove vive l’80% delle specie vegetali dello Yucatan. Assieme alla Reserva de Sian Ka´an (Quintana Roo), anch’essa minacciata dal Tren Maya, ospita centinaia di specie animali.1
Tutto questo viene messo a rischio da un’infrastruttura enorme, che sarà finanziata per il 90% da capitali privati (in buona parte internazionali), costruita ad uso e consumo degli interessi degli appaltatori e dei settori immobiliare, turistico (resort, grandi catene alberghiere), agroindustriale ed energetico.
Un’infrastruttura che promette devastazioni maggiori, perché è solo un tassello di un progetto di interconnessione più vasto della stessa penisola, e che comprende aeroporti, autostrade, assieme a nuovi gasdotti, raffinerie ed alla costituzione di Zone economiche speciali, aree deregolamentate e defiscalizzate dove è massimo l’arbitrio contro i lavoratori e la natura.
Sulla popolarità di una simile opera, probabilmente lo stesso López Obrador nutriva qualche dubbio, tanto da volerne affidare la realizzazione di ampi tratti direttamente all’esercito.
Infatti il progetto ha incontrato una fiera opposizione popolare, con in prima fila l’EZLN e i movimenti indigeni, anticapitalisti e antipatriarcali, che per ora hanno segnato un punto a favore: qualche giorno fa un tribunale ha accolto la richiesta del popolo Maya Chol, determinando la sospensione definitiva di «qualunque opera che non sia di puro mantenimento delle vie già esistenti», per l’intero periodo di emergenza sanitaria.
Il Tren Maya è rimasto temporaneamente in sospeso, ma il Messico presenta altri fronti aperti.
Il Governo infatti è tornato alla carica con il Corridoio Transistmico, un mega progetto di trasporto merci intermodale che dovrebbe collegare il Golfo del Messico all’Oceano Pacifico attraverso l’istmo di Tehuantepec.
Si tratta di un sistema interamente finalizzato all’integrazione e allo scambio sul mercato mondiale, che attraverserà gli stati di Oaxaca e Veracruz.
Il corridoio, che prevede una linea ferroviaria AV, strade, porti, la costruzione di un gasdotto, l’ampliamento della raffineria di Minatitlan, lo sviluppo di 10 nuove aree industriali e l’istituzione di una ‘Zona franca’, oggi viene sbandierato dal ministero dello sviluppo economico messicano come la via per uscire dalla crisi causata dal Covid-19.
Ma i militanti delle comunità sanno bene che il corridoio non è la via d’uscita, ma la crisi:
“Le persone vedranno e saranno colpite da tutti i problemi e dai rischi che una strada ad alta velocità genera, con l’interruzione del traffico di persone e animali. Le strade bloccheranno i sentieri naturali.
Tutta l’infrastruttura che deve essere costruita attorno a una ferrovia prenderà il controllo della terra delle persone, rovinerà la loro vita naturale e li impoverirà di più. Approfondirà la disuguaglianza economica nell’area. Pochi, pochissimi, ne trarranno beneficio, e la stragrande maggioranza, ancora una volta, vedrà deprezzare il valore della propria attività e della propria terra, che servirà solo da piattaforma di passaggio”.
Così come le comunità Zapotecos e Ikoots, riunite nella Asamblea de Pueblos de Istmo en Defensa de la Tierra, sanno che il megaprogetto, la cui costruzione verrà presidiata dalla Guardia Nazionale per garantire la serenità degli imprenditori, “porterà una nuova ondata di violenza, repressione, saccheggio, spoliazione, militarizzazione e guerra per i beni naturali”.
E le comunità Ikoots conoscono la violenza: l’hanno appena subita a San Mateo del Mar (Oaxaca), che dista solo 30 km da Salina Cruz, uno dei terminali del corridoio.
Un’epidemia di violenza
Il 21 giugno scorso, militanti dell’Unione delle Agenzie e delle Comunità Indigene Ikoots, mentre si avviavano a una riunione, si sono fermati presso ciò che sembrava un posto di blocco sanitario per il Covid-19, e invece era un’imboscata. Attaccati con armi da fuoco per ore da un gruppo armato legato ad un politico locale, in 15 sono stati assassinati, anche dopo esser stati torturati, lapidati, bruciati vivi. Molti sono rimasti feriti.
La comunità ikoots ha una lunga storia di lotte e di opposizione ai grandi parchi eolici, lotte che hanno intralciato anni fa molti interessi speculativi nella regione.
Ma negli ultimi tempi, le aggressioni contro gli ikoots sono aumentate nel contesto dell’inizio di lavori per il corridoio, in particolare l’ampliamento dei frangiflutti e delle scogliere del porto di Salina Cruz, ai quali si oppone la maggioranza delle comunità poiché questo implicherebbe l’irreversibile alterazione dell’ecosistema lagunare, sul quale basano la loro vita e la loro cultura ancestrale. (Continua)
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“Il massacro al villaggio ikoots di San Mateo del Mar non è il risultato di un conflitto interno o post elettorale, così come lo considera il presidente Andrés Manuel López Obrador, ma ha alla sua origine il rifiuto da parte delle assemblee comunitarie dei megaprogetti connessi al canale interoceanico, e mette in evidenza gli interessi di persone e gruppi che aspirano a convertirsi nei capataz locali prima di questa nuova conquista” (Preparatoria Comunitaria José Martì).
La strage di San Mateo de Mar mette a nudo la vacuità delle retoriche sulla ‘quarta trasformazione’, il cambiamento radicale proclamato da López Obrador che tanto entusiasmo aveva generato nella sinistra messicana e internazionale, e che prometteva di farla finita con la corruzione e l’impunità, oltre che di attuare una politica di lotta alle disuguaglianze attraverso il ripristino del ruolo interventista e redistributivo dello Stato, in discontinuità con le politiche neoliberiste dei predecessori.
Una discontinuità promessa nel nome di un nazionalismo interclassista che pretende di coniugare la lotta alla povertà con l’aumento dei profitti e degli investimenti, secondo una narrazione che identifica la causa della miseria nella ‘assenza di sviluppo’ e la soluzione nel più classico ‘desarrollismo’.
E’ in nome dello sviluppo, della creazione di posti di lavoro, della redistribuzione della ricchezza, e addirittura del ‘rispetto del medio-ambiente’ (!)1, che il governo messicano si appresta alla distruzione delle condizioni di riproduzione economica, sociale e culturale delle comunità investite dai megaprogetti del Tren Maya e del Corridoio Transistmico, prefigurando per loro un futuro di marginalità e sfruttamento salariato nelle maquiladoras e nel turismo di massa, e riproducendo, fra l’altro, le condizioni per il dilagare di quella corruzione, impunità e violenza che la retorica moralizzatrice della ‘quarta trasformazione’ si proponeva di combattere.
A proposito di impunità, attualmente, a un mese dell’eccidio di San Mateo del Mar, i funzionari e i dipendenti pubblici ritenuti responsabili della strage non sono stati nemmeno sollevati dall’incarico, e i familiari delle vittime hanno richiesto l’apertura di un’inchiesta da parte della Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH), mostrando evidentemente poca fiducia nella giustizia messicana.
Oltre all’uccisione dei quindici militanti Ikoots nell’Oaxaca, la quarantena ha favorito in tutto il Messico gli assassini di altri attivisti per la difesa ambientale, come quello di Isaac Medardo Herrera, storico difensore delle riserve naturali contro la speculazione edilizia, ucciso da un gruppo armato in casa sua, nello stato di Morelos, seguito da Juan Zamarrón, militante contro la deforestazione nella municipalità di Bocoyna (Chihuahua), ammazzato a domicilio assieme a due suoi familiari.
L’otto aprile è stato il turno di Adán Vez Lira, creatore di un importante progetto di ecoturismo comunitario nel villaggio di La Mancha (Actopan , Veracruz), su una laguna che rappresenta uno dei luoghi di sosta degli uccelli migratori più importanti del mondo. Assieme alla sua gente si era opposto all’assedio delle imprese minerarie, che premono per l’introduzione ad Actopan dell’estrazione a cielo aperto.
I sicari non si sono fermati nemmeno di fronte ai ragazzini, con l’omicidio a San Agustin Loxicha (Oaxaca) di Eugui Roy, 21 anni, studente di biologia, divulgatore scientifico e militante ambientalista.
Nomi di compagni che quasi si perdono nel conto complessivo dei morti ammazzati nel paese che hanno raggiunto il record di quota 17.982 solo nei primi sei mesi di quest’anno.
Scendendo dal Messico al Cono Sur, è la Colombia a detenere il primato delle esecuzioni extragiudiziali di militanti sociali, in un contesto dove gli accordi di pace fra il governo colombiano e le FARC, ratificati all’Avana il 23 giugno 2016, non hanno affatto rimosso le ragioni sociali che avevano dato origine alla guerriglia.
La smobilitazione delle FARC dai territori sotto il loro controllo lascia il campo libero alla penetrazione di interessi estrattivi, alla crescita di egemonia dei cartelli, all’imperversare di gruppi paramilitari di ultradestra (che a differenza delle FARC non hanno smobilitato) e di bande criminali di ogni tipo, esercito compreso.
Per quanto spesso in violenta frizione con le popolazioni locali, le FARC avevano perlomeno avuto, in questo senso, una funzione deterrente.
Dal 2016, la ‘pace’ seguita agli accordi ha per ora lasciato in terra circa un migliaio fra ex guerriglieri tornati alla vita civile e leader sociali, abbattuti con omicidi selettivi.
Nel 2020 sono stati assassinati, oltre a 36 ex guerriglieri, 179 fra militanti indigeni, contadini, sindacalisti e ambientalisti e loro familiari.
Succede in un paese dove non basta nemmeno la copertura come collaboratore ONU a salvarti la vita, come dimostra l’uccisione del cooperante italiano Mario Paciolla del 15 luglio scorso, per le autorità colombiane ufficialmente vittima di un suicidio a cui nessuno crede2.
Quest’anno gli omicidi mirati dei militanti in Colombia sono cresciuti a un ritmo quasi doppio rispetto agli anni scorsi3, e 108 sono stati portati a termine dall’inizio della quarantena.
Per Carlos Medina Gallego, docente della Universidad Nacional de Colombia, in questa escalation è palese la connivenza dello Stato con i gruppi paramilitari, la partecipazione frequente alle violenze di membri delle forze armate, le azioni e le omissioni di alti funzionari, e la responsabilità del governo di ultradestra di Iván Duque4.
Carlos Medina segnala come circa il 70% degli omicidi dei leader sociali siano connessi ai conflitti agrari o ambientali, e circa il 10% alle eradicazione forzate da parte della forza pubblica delle coltivazioni di coca delle comunità indigene e contadine.
Eradicazioni attuate in violazione degli accordi di pace del 2016, che prevedevano il sostegno ad un processo di sostituzione volontaria delle colture, fonte di sostentamento di migliaia di persone nelle campagne.
L’ultimo caduto in questo tipo di conflitto è stato il contadino quindicenne José Oliver Maya Goyes, appartenente al popolo Awà, ucciso il 20 luglio dalla Policía Nacional Antinarcóticos durante un’eradicazione forzata a Putumayo.
Non pago dell’omicidio di minorenni e in spregio agli accordi di pace, il governo Duque sta lavorando per riattivare le fumigazioni aeree di glifosato sulle coltivazioni di coca, vietate dal 2015 per le conseguenze devastanti sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni rurali, dimostrate dagli studi dell’OMS.
Sul fronte antiminerario, va ricordata la morte violenta del sociólogo colombiano Jorge Enrique Oramas, ucciso il 16 maggio scorso, conosciuto per la sua instancabile attività nella difesa dell’agricoltura contadina e contro l’agrochimica.
Difensore della biodiversità è stato un irriducibile oppositore dei tentativi di sfruttamento minerario del Parco nazionale dei Farallones di Cali.
Se l’attacco ai difensori della terra in Colombia si articola in centinaia di singoli agguati, Jair Bolsonaro in Brasile ha deciso di fare molto di più.
Non perché in Brasile si disdegnino gli assassini mirati, anzi.
Il 31 marzo nello stato amazzonico del Maranhão è stato ammazzato Zezico Rodrigues Guajajara, coordinatore della Commissione dei capi indigeni e promotore dei Guardiani della Foresta, un gruppo di 120 volontari a protezione del territorio di Araribóia dal disboscamento e dal commercio illegale di legname.
Negli ultimi due mesi del 2019 erano già caduti Paulo Paulino Guajajara, precedente portavoce dei Guardiani della Foresta, ed altri tre indigeni Guajajara, due capivillaggio e un ragazzino (squartato), uccisi in uno stato, il Maranhão, dove la copertura forestale è stata più che dimezzata negli ultimi quattro anni5.
A livello complessivo la situazione non va meglio: tra gennaio e giugno 2020 sono stati perduti oltre tremila chilometri quadrati di foresta amazzonica brasiliana, con un incremento del 25% rispetto al già disastroso 2019.
In maggio Bolsonaro ha deciso di fermare gli incendi schierando l’esercito nelle foreste, e destinandogli un budget 10 volte superiore a quello dell’Ibama, l’Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais deputato a questo tipo di lavoro6.
I risultati della militarizzazione “ambientalista” si vedono: nel solo mese di giugno 2020 nella foresta amazzonica sono stati registrati oltre 2.248 incendi, il 19,5% in più rispetto allo stesso mese dell’anno scorso7.
Le esecuzioni, la deforestazione e gli incendi sono la cifra della pressione esercitata sull’Amazzonia per trasformarla in una distesa per le coltivazioni intensive della soia, pascoli per la produzione di carne, campi di estrazione mineraria e petrolifera, e per imporre megaprogetti idroelettrici ai suoi grandi fiumi.
E’ il sogno di Bolsonaro e del blocco di potere da lui rappresentato, che trova ostacolo nella resistenza delle popolazioni indigene, già accusate dal presidente di voler impedire il progresso e di rappresentare una minaccia per la sovranità nazionale.
Un ostacolo da abbattere non più solo tramite la condiscendenza verso le uccisioni mirate, ma direttamente con il genocidio, usando il coronavirus.
In una recente lettera aperta, il teologo Frei Betto ha identificato nella determinazione di Bolsonaro nel sabotare l’attuazione delle misure per l’emergenza covid la volontà criminale di decimare la popolazione brasiliana anziana, malata e povera per risparmiare su pensioni, assistenza e sanità8. Una politica genocida che ha dedicato particolare attenzione agli indigeni e agli afrodiscendenti.
L’8 luglio il presidente, invocando ‘l’interesse pubblico’, ha posto infatti il veto ad una legge che intendeva garantire il diritto all’acqua potabile e all’assistenza ospedaliera per le popolazioni indigene e quilombo in tempi di pandemia, ed obbligare il governo a fornire materiali per l’igiene e la pulizia, l’installazione di Internet e la distribuzione di cibo, semi e strumenti agricoli ai loro villaggi.
Ai primi di luglio, secondo l’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil (APIB) il coronavirus colpiva già 122 gruppi etnici indigeni brasiliani, con 12 mila contagi e 445 morti tra le comunità originarie del paese, fra le più povere ed escluse dall’accesso all’assistenza sanitaria.
Fra i morti di covid anche Paulinho Paiakan, capo del popolo indigeno Kayap, difensore delle foreste dai tempi della lotta contro la costruzione dell’autostrada Transamazzonica, nei primi anni ’70.
Fu sempre in prima fila contro lo sfruttamento minerario dell’Amazzonia, contro il mercato illegale del legname, e contro la diga di Belo Monte sul fiume Xingu, la seconda centrale idroelettrica del Brasile, voluta da Lula e ultimata da Dilma Rousseff, che comportò all’epoca l’espulsione di 20.000 persone dalle zone allagate, ed ha stravolto per sempre l’ecosistema e la vita degli abitanti del corso del fiume. (Continua)
- Que es el Tren Maya ?, pamphlet propagandistico.
- Mario Paciolla era volontario nella Missione di Verifica delle Nazioni Unite sull’applicazione degli accordi di pace, e si occupava del reinserimento sociale degli ex combattenti delle Farc nella zona di San Vicente del Caguán. Si era impegnato in prima persona nella difesa delle famiglie di otto adolescenti uccisi nel novembre scorso da un bombardamento dell’aviazione militare Colombiana contro un accampamento dell’ala dissidente delle FARC.
- Nel 2016 ne sono stati conteggiati da Indepaz 132, 208 nel 2017, 282 nel 2018, 250 nel 2019
- Va rilevata la piena continuità di Iván Duque con la linea di Alvaro Uribe, suo padrino politico, veterano della guerra sporca contro la guerriglia e i movimenti sociali, condotta con ampio uso della tortura, esecuzioni extragiudiziali, ‘falsi positivi’, massacri e sparizioni. Durante la sua presidenza (2002/2010) non si curò di celare la sua vicinanza ai paramilitari.
- Celso H.L.Silva Junior, Danielle Celentano, Guillaume X.Rousseau, Emanoel Gomesde Moura, István van Deursen Varga, Carlos Martinez, Marlúcia B.Martins, Amazon forest on the edge of collapse in the Maranhão State, Brazil, Land Use Policy, Volume 97, 2020.
- Hyury Potter, Forças Armadas recebem orçamento 10 vezes maior que Ibama para não fiscalizar Amazônia, The Intercepter, 9 luglio 2020.
- André Shalders, Brasil entrará em temporada de queimadas sem plano para a Amazônia, BBC Brasil, 2 luglio 2020.
- Frei Betto, La politica necrofila di Bolsonaro sta compiendo un genocidio, Il Manifesto, 18 luglio 2020.
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“La violenza per l’estrattivismo non è una conseguenza ma una condizione necessaria” (A. Acosta).
Nel capitolo precedente abbiamo potuto approfondire come il lockdown generalizzato imposto in tempi di pandemia, riducendo il controllo popolare dei territori, le relazioni fra i vicini e la visibilità delle aggressioni, abbia esposto in molte parti del mondo i militanti sociali e ambientali a un rischio maggiore di intimidazione, assalti ed esecuzioni extragiudiziali.
Allo stesso tempo le misure di emergenza sono andate a colpire le forme classiche dell’ opposizione sociale, creando un contesto favorevole per l’aumento della violenza istituzionale, sia nei termini dell’inasprimento normativo contro le lotte che della repressione di piazza.
Proviamo a delineare una panoramica internazionale di queste tendenze iniziando dal Perù – attualmente sotto la presidenza del neoliberista Martín Vizcarra – dove lo scorso 27 marzo, cioè 11 giorni dopo la decretazione del lockdown, è stata promulgata la “Legge di protezione della polizia“, che prevede la possibilità di un uso sproporzionato della forza, la licenza di uccidere e l’impunità per gli effettivi della polizia e dell’esercito1.
Il provvedimento, frutto di un iter palesemente incostituzionale, è entrato in vigore nel pieno dello Stato di Emergenza Nazionale dichiarato in nome della pandemia, che pone i membri della polizia nazionale e delle forze armate sotto la catena di comando dell’ordine pubblico interno.
E’ una legge particolarmente pericolosa per l’opposizione sociale e per le lotte in difesa dei territori, tenendo conto che la polizia peruviana viene anche utilizzata per fornire servizi di sicurezza a pagamento per le compagnie minerarie – nel 2019 erano in vigore 29 contratti di questo tipo – e che in questa funzione esercita violenza sulle comunità2.
Sul piano politico, a giudicare dalla scelte operate negli ultimi trenta giorni da Martín Vizcarra nella designazione delle compagini di governo, il progetto che emerge è quello della costruzione di uno ‘Stato di polizia mineraria’, con la nomina in posizioni apicali del potere esecutivo di personaggi che agiscono in rappresentanza degli interessi delle imprese estrattive e con maturata esperienza nella repressione dei movimenti che contrastano le miniere.
Personaggi come Pedro Cateriano Bellido, già primo ministro con delega all’Interno sotto la presidenza di Ollanta Humala3, ruolo in cui si distinse per il tentativo di ‘pacificare’ con la mano pesante i conflitti minerari4.
O come Rafael Belaunde Llosa, nipote dell’ex presidente Belaunde e figlio del proprietario della società mineraria Argento SRL, impresa a cui sono state contestate più di 100 responsabilità ambientali.
O ancora come l’attuale premier, Walter Roger Martos Ruiz, ex Capo di Stato Maggiore delle forze armate, affiancato dal neo ministro dell’energia e delle miniere Luis Miguel Incháustegui Zevallos, che ha ricoperto in passato il ruolo di vicepresidente presso le compagnie minerarie Golds Fields e Lumina Coppers.
Il 20 luglio scorso la polizia e l’esercito hanno attaccato la popolazione della provincia di Espinar, in piena ribellione contro la multinazionale anglo-svizzera Glencore, la principale esportatrice di rame del Perù.
Glencore è fra quelle imprese che dall’inizio della ‘fase 1’ hanno continuato normalmente le proprie operazioni, mentre la gente normale rimaneva bloccata nelle sue attività di sussistenza a causa delle misure adottate dal governo durante la pandemia.
Per sostenere la popolazione colpita dalla crisi le autorità locali di Espinar avevano deliberato l’uso di un fondo istituito da un accordo quadro con la compagnia mineraria nel 2003, che prevedeva la devoluzione del 3% dei suoi utili annuali verso progetti di sviluppo nella zona.
Una compensazione misera in confronto ai danni arrecati agli ecosistemi e alle persone, con l’inquinamento di acqua, aria e suolo, e l’avvelenamento degli abitanti che presentano da anni metalli pesanti nel sangue (mercurio, cadmio, arsenico) ben oltre i limiti consentiti5.
Un mese fa la Glencore si è opposta all’utilizzo del fondo, innescando ampie proteste popolari.
La risposta del governo presieduto da Cateriano Bellido non si è fatta attendere, con l’invio di poliziotti infiltrati, l’uso di armi da fuoco sui manifestanti (con 5 feriti, di cui due minorenni), l’arresto di giovani e l’apertura di un’inchiesta contro otto dirigenti delle organizzazioni sociali.
Per non essere da meno del predecessore, l’attuale governo di Incháustegui Zevallos si è da poco occupato dell’aggressione contro il popolo amazzonico Kukama Kukamiria, che vive di pesca sui fiumi Marañón, Tigre, Urituyacu e Huallaga, fiumi a cui è legata la sopravvivenza e la cosmovisione delle comunità. Il nove agosto scorso, giornata internazionale dei popoli indigeni, la polizia peruviana ha attaccato una protesta pacifica di questo popolo contro lo sfruttamento petrolifero delle sue terre e l’inquinamento delle acque da parte della impresa canadese PetroTal Corp, assassinando tre manifestanti e ferendone 11.
Restando in America Latina, passiamo all’Honduras, dove la narcodittatura di Juan Orlando Hernández ha imposto al paese il coprifuoco dal 15 marzo, oltre alla sospensione di diritti fondamentali come la libertà di espressione e di riunione.
Il 25 giugno il governo ha approfittato del blocco imposto alla società honduregna per imporre l’entrata in vigore del nuovo codice penale, contestato dalle organizzazioni sociali come segue:
“Ripudiamo un codice penale che criminalizza le proteste sociali, mette a rischio l’esercizio effettivo delle libertà di riunione e di associazione, ponendo in pericolo coloro che esprimono opposizione alle decisioni dei settori al potere, e definisce come crimini il “disordine pubblico”, la “disobbedienza all’autorità”, le “riunioni e manifestazioni illecite” e il “terrorismo”, in termini così ampi e ambigui che si prestano immediatamente alla discrezione e all’arbitrio al momento della loro interpretazione e applicazione”.
Durante la pandemia sono aumentate nel paese le provocazioni dei militari, che pretendono di entrare in quelle comunità che hanno deciso di chiudersi per autotutela sanitaria, controllando autonomamente gli accessi dall’esterno. Tra queste ci sono le comunità resistenti ai progetti minerari ed estrattivi, che hanno sempre subito forme particolarmente dure di minacce e repressione da parte della polizia e dell’esercito.
Crescono in questo modo le occasioni di frizione con l’esercito e di conseguenza gli arresti arbitrari di militanti, che vengono messi ulteriormente a rischio per l’estensione dell’epidemia nelle carceri6.
Continuano a rischiare il contagio nei penitenziari honduregni otto difensori dell’acqua, detenuti illegalmente dal settembre scorso a causa delle loro opposizione, nel municipio di Tocoa, a una miniera di minerali di ferro a cielo aperto di proprietà della Pinares Investment7.
Giusto per stabilire due pesi e due misure, in nome dell’emergenza covid è stata tentata invece la scarcerazione – bloccata dalle proteste – degli assassini di Bertha Caceres, uccisa nel 2016 per la sua lotta contro le dighe sul fiume Gualcarque.
Nel frattempo un altro compagno honduregno ha fatto la fine di Bertha: Marvin Damián Castro Molina, dell’organizzazione MassVida, è stato ritrovato ucciso dopo la sua desaparecion il 13 luglio.
Aveva sempre lottato per difendere il territorio dall’imposizione di progetti minerari, idroelettrici ed agroindustriali nella zona di Choluteca, nel sud del paese.
Anche il governo populista e militarista di Rodrigo Duterte nelle Filippine ha approfittato della pandemia per far passare il tre luglio la nuova Legge antiterrorismo, seguita da un’ondata di ritorsioni contro i media indipendenti attraverso la tattica del ‘red tagging’8.
Una legge che verrà utilizzata anche contro i movimenti di difesa ambientale che operano già ora in un contesto violentissimo, che ha determinato l’uccisione di 119 difensori della Terra nei primi tre anni della presidenza Duterte (2016/2019), il doppio di quelli ammazzati nel triennio precedente9.
Durante il lockdown, il 30 aprile, è stato ucciso l’architetto Jory Porquia, membro del Movimento ecologico Madia-es, che aveva svolto un ruolo fondamentale nelle campagne contro l’estrazione mineraria su larga scala, le centrali elettriche a carbone e le grandi dighe.
Jory Porquia era il progettista dei mulini del Panay Fair Trade Center, una rete di cinque cooperative delle cui attività beneficiano oltre 10.000 famiglie sulle isole Panay, e la cui ‘colpa’ è quella di aver tolto molti piccoli contadini dalla dipendenza dei latifondisti.
Poco prima della sua morte era coinvolto nelle operazioni per gli aiuti alimentari e nella cucina comunitaria nella città di Iloilo, per far fronte alla pandemia di COVID-19.
Quarantadue persone, tra cui familiari e colleghi, sono state arrestate durante una carovana di protesta per il suo assassinio, ma non i suoi sicari.
Va detto che Duterte ha accresciuto enormemente la violenza non solo contro i militanti, ma anche contro la popolazione in generale, soprattutto nel corso delle campagne antidroga che hanno provocato la morte di 20.000 persone, prevalentemente povere, tramite esecuzioni extragiudiziali.
Violenza che si è manifestata anche in tempi di pandemia con l’arresto di 76.000 persone per violazione del lockdown, e particolarmente contro chi scendeva in strada per la perdita del lavoro e la scarsità degli aiuti alimentari da parte del governo.
In nome dell’emergenza Covid-19 sono stati sgomberati con la mano pesante gli accampamenti di protesta attorno alla miniera di Didipio, gestita da OceanaGold Philippines Inc., nella provincia di Nueva Vizcaya.
Gli accampamenti resistevano fin dal luglio 2019, quando ventinove comunità locali indigene e contadine avevano cominciato a bloccare gli accessi dei veicoli al sito minerario, che si estende per 27.000 ettari.
Il 6 aprile scorso un centinaio di poliziotti ha forzato il blocco delle ‘barricate umane’, in modo da permettere la fornitura di 63.000 litri di carburante per riattivare i generatori che azionano le pompe della miniera.
E’ l’ultimo atto di forza, in ordine di tempo, della australiana Oceana Gold, che negli anni ha imposto lo sgombero forzato di intere comunità per l’ampliamento della miniera di oro e rame, distruggendone le case con i bulldozer ed il fuoco, sotto la supervisione di forze di sicurezza private. La lotta contro Oceana Gold conta anche due morti nel 2012: la attivista Cheryl Ananayo e suo cugino Randy Nabayay, uccisi a colpi d’arma da fuoco in una esecuzione extragiudiziale.
In linea con il generale delirio repressivo in vigore nel paese, altri attacchi contro i movimenti antiminerari hanno interessato la Turchia, con lo sgombero del 28 aprile, nel distretto di Cannakale, dei presidi contro la miniera di Kirazli, della Alamos Gold.
Da 276 giorni migliaia di persone avevano popolato quegli accampamenti per proteggere il Monte Ida e le aree limitrofe dalle attività dell’impresa, che avevano già causato il taglio 200.000 alberi e che potevano mettere a rischio un bacino idrografico da cui si attinge l’acqua per 180.000 abitanti.
Lo sviluppo della miniera era stato sospeso dall’ottobre 2019, quando il governo turco non ha rinnovato le concessioni della società a seguito di proteste diffuse.
Gli accampamenti servivano da presidi di controllo per assicurarsi che la compagnia non rientrasse nella miniera, ma con il pretesto dell’epidemia le autorità turche hanno proceduto all’evacuazione dei campi ‘per motivi sanitari’.
Ai militanti sono state comminate multe di 8.000 dollari per aver ‘disobbedito alle misure sanitarie in vigore per il COVID-19’. Multe pesanti se si pensa che il salario minimo in Turchia è di 300 euro al mese, e 600 quello medio.
Dopo lo sgombero si teme che il governo possa rinnovare il permesso alle attività della Alamos Gold in qualsiasi momento.
Di sicuro, per ora, si prodiga affinché nessuno ne parli: il 26 luglio la polizia turca ha attaccato una conferenza stampa del Yeşil Sol Parti (il partito verde), finalizzata a denunciare l’inquinamento da cianuro generato dal processo di estrazione dell’oro, in riferimento alla regione di Çanakkale. In quella occasione venti attivisti sono stati arrestati.
Una situazione simile è stata registrata in Armenia, dove il 4 agosto la forza pubblica ha spalleggiato le guardie private della compagnia britannica Lydian, rimuovendo con le gru i blocchi eretti nel 2018 dalla popolazione residente, contraria alla apertura di una miniera d’oro presso il Monte Amulsar, a soli 7 km dal noto sito turistico e centro termale della città di Jermuk.
Vari manifestanti sono stati tratti in arresto.
Dalle Filippine alla Turchia e all’Armenia, la violenza al servizio dell’estrazione aurifera cresce in contemporanea con l’aumento del prezzo dell’oro, le cui quotazioni stanno schizzando in alto per la crisi pandemica e nella prospettiva di una recessione globale. (Continua)
- Qui l’analisi del provvedimento e dei suoi profili di incostituzionalità, redatta dalla Red de Protesta y Accion Mineria Ambiente Comunidades
- Juliana Bravo Valencia, Juan Carlos Ruiz Molleda, Ana María Vidal Carrasco (a cura di), Informe: Convenios entre la Policía Nacional y las empresas extractivas en el Perú. Análisis de las relaciones que permiten la violación de los derechos humanos y quiebran los principios del Estado democrático de Derecho, Lima, Febbraio 2019, pp.36.
- Una nomina che può essere considerata come l’emblema della continuità che unisce, nei loro tratti fondamentali, le politiche del ‘nazional progressismo’ di Humala con quelle dei suoi successori dichiaratamente neoliberisti, che non a caso utilizzano gli stessi soggetti, buoni per tutte le stagioni.
- Cateriano viene ricordato per la repressione a Cajamarca contro l’opposizione popolare al progetto di estrazione aurifera Conga, e per l’invasione militare della Valle del Tambo, la cui popolazione era da anni scesa in lotta per impedire l’avvio del devastante progetto di estrazione del rame ‘Tia Maria’ da parte della transnazionale Sothern Perú Coper Corp.
Nella primavera del 2015 sulla Valle del Tambo calarono 4.000 effettivi della polizia militare, macchiandosi di una serie di abusi, con infiltrazioni fra i civili, irruzioni violente nelle case, lanci di lacrimogeni dagli elicotteri, un agricoltore ucciso. - CooperAcción, Derechos Humanos sin Fronteras, Instituto de Defensa Legal y Broederlijk Delen, Metales pesados tóxicos y salud pública:el caso Espinar, 2016, pp. 44.
- Denuncia del Centro Hondureño de Promoción para el Desarrollo Comunitario (CEHPRODEC).
- La Pinares è legata a una delle famiglie più potenti del paese, la famiglia Facussé, proprietaria anche della Dinant, un gigante dell’ agribusiness e dei biocarburanti accusato dell’assassinio di decine di piccoli agricoltori contrari alle piantagioni di olio di palma a Bajo Aguán, nel nord dell’Honduras. In: Global Witness,Honduras, the deadliest place to defend the planet, gennaio 2017, pp.52.
- La tattica di propaganda del “red tagging” nelle Filippine è stata spesso diretta verso individui e organizzazioni critiche nei confronti del governo, etichettati come “comunisti” o “terroristi”, indipendentemente dalle loro attuali convinzioni o affiliazioni.
- Global Witness, Defending Tomorrow. The climate crisis and threats against land and environmental defenders, July 2020, pp. 52.
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FONTI:
https://www.carmillaonline.com/2020/07/09/estrattivismo-pandemico/
https://www.carmillaonline.com/2020/07/30/estrattivismo-pandemico-2/
https://www.carmillaonline.com/2020/08/13/estrattivismo-pandemico-3/