8 gennaio 2021 – Firenze – Il segnale lo dava l’ispettrice, nel suo ufficio trasformato in camera della tortura. Un cenno con la testa, «dall’alto al basso», sufficiente a scatenare la squadra di agenti. Calci, pugni sul volto, ginocchia premute sulla schiena fino a spezzare le costole.
«Lei vedeva che mi picchiavano e rideva», racconta un detenuto. Succedeva anche questo, secondo l’accusa, tra le mura del carcere fiorentino di Sollicciano. Nove guardie penitenziarie sono state raggiunte da misure cautelari con le accuse di tortura e per una serie di falsi commessi per coprire gli abusi. Agli arresti domiciliari sono finiti in tre, l’ispettrice Elena Viligiardi, considerata «l’istigatrice del reato di tortura», l’assistente capo Luciano Sarno e l’agente Patrizio Ponzo.
Per altre sei persone sono stati disposti l’obbligo di dimora nel Comune di residenza e l’interdizione per un anno dai pubblici uffici, mentre un decimo agente risulta indagato a piede libero. Le indagini della pm Christine Von Borries e del nucleo investigativo della penitenziaria hanno accertato i pestaggi subiti da un detenuto marocchino e da uno italiano: il primo costretto a farsi visitare in ospedale per la frattura di due costole, l’altro per un timpano perforato. Tutto sarebbe avvenuto nell’ufficio dell’ispettrice, su sua espressa indicazione, come punizione per intemperanze di poco conto.
Decisive le immagini delle telecamere di sorveglianza del carcere, ma anche le intercettazioni ambientali: «Gli hanno dato delle mazzate talmente forti che gli hanno rotto due costole», diceva un agente riguardo l’aggressione al detenuto nordafricano. «Quello era secco come un tavolo — commentava un collega — può essere che quando gli stai sopra con le ginocchia… ci sta che gliele sfondi due costole».
Drammatiche anche le testimonianze dei due detenuti. L’italiano, un cinquantenne, sarebbe stato picchiato dopo aver chiesto in modo insistente «di restare ancora un’ora all’aria libera». «Dopo pochissimi minuti — racconta nelle carte dell’inchiesta — sono stato chiamato dall’assistente e sono entrato nell’ufficio del capo posto e dentro era presente l’ispettrice (…) ho notato la Viligiardi che faceva un cenno con la testa facendo un cenno di assenso dall’alto al basso alle persone che erano dietro di me. A quel punto sono stato bloccato, il capo posto, grosso, pelato, alto, mi ha preso da dietro il collo e ha stretto impedendomi di muovermi e stringendo forte al punto che non riuscivo bene a parlare e respirare». E ancora: «Altri uomini, forse tre o quattro che in quel momento non vedevo, mi hanno preso i polsi dietro di me e mi tenevano per le gambe. Il capo posto mi ha sferrato un pugno tra la tempia e la mascella sinistra».
Stessa sorte per un detenuto marocchino, minacciato («Ti facciamo il c…, ti massacriamo»), pestato a sangue e poi, in un secondo momento, prima della visita in infermeria, costretto a spogliarsi e a restare nudo per diversi minuti. «Ecco la fine di chi vuole fare il duro», gli avrebbe detto un agente.
Nell’inchiesta, infine, sono finite anche le presunte manovre dell’ispettrice per sviare le indagini, organizzando un fronte comune con i colleghi, e il tentativo — non riuscito — di trovare «appoggi esterni per stabilire un contatto qualificato con il nucleo investigativo centrale, da cui dipende l’articolazione regionale che svolgeva le indagini, utile a rallentare-smorzare l’attività in corso».
Dura la presa di posizione del garante di detenuti per la Toscana, Giuseppe Fanfani: «Se i fatti contestati fossero veri sarebbero gravissimi ed inammissibili in un Paese civile. Si tratta di episodi da considerare sulla stessa linea di quelli gravissimi che hanno portato nel novembre scorso al rinvio a giudizio di agenti di polizia penitenziaria da parte del tribunale di Siena». Il riferimento è all’inchiesta per tortura che nei mesi scorsi ha coinvolto 15 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano: 5 sono stati rinviati a giudizio, altri 10 saranno processati con rito abbreviato.