10 novembre 2020, di Augusto Illuminati
La mescolanza di sussunzione formale e reale che caratterizza molti settori del più moderno capitalismo, in particolare di piattaforma, definisce una nuova composizione di classe già visibile nelle lotte
Se cercate giocattoli vintage – automobili d’epoca, trenini, macchine da cucire in miniatura – qualsiasi catalogo o l’oracolo Google vi rimanderà alla Louis Marx Toys. La macchina da cucire, ecco, ma c’era un altro Marx che se ne era occupato tempo addietro, quando i ritrovati tecnici più moderni non erano ancora invecchiati trasformandosi in giocattoli, come le antiche divinità olimpiche, dopo l’avvento del cristianesimo, erano state degradate a figure demoniache o personaggi di fiaba. Facciamo allora un passo indietro.
Dopo aver specificato che la produzione del plusvalore assoluto (estorto mediante prolungamento della giornata lavorativa e pertanto riduzione relativa della parte di lavoro necessario equivalente al salario) è l’espressione materiale della sussunzione formale del lavoro al capitale, mentre la produzione del plusvalore relativo (per intensificazione del lavoro e della produttività) va considerata espressione di quella reale, Marx – Karl stavolta – scrive, nel VI capitolo inedito: «Alle due forme del plusvalore, assoluta e relativa, considerate ciascuna per sé in esistenza separata […] corrispondono due forme diverse di sussunzione [Subsumption] del lavoro al capitale, o due forme distinte di produzione capitalistica, di cui la prima è sempre la battistrada della seconda, benché questa, che è la più sviluppata, possa a sua volta costituire la base per l’introduzione della prima in nuove branche produttive» (. Marx, Il Capitale: Libro I, capitolo VI inedito, Firenze 1969, pp. 51-58).
Passo ricco di promesse, anche se l’autore gravita nell’ambito di una concezione stadiale, in cui il meccanismo della coercizione al lavoro (il loro tratto comune) senza rapporti di dominio politico, quindi mediante puri mezzi monetari, si manifesta prima nel prolungamento del tempo lavorativo senza mutamenti sostanziali dell’organizzazione produttiva, poi come progresso tecnologico e intensificazione del lavoro. Le due forme di sussunzione possono occasionalmente coesistere, ma la prima (formale) ingloba solo virtualmente la seconda, mentre la seconda (reale) ingloba la prima quale suo antecedente logico e storico.
In che modo, allora, si può dare coesistenza fra due modi di coercizione ed estorsione del valore che sembrano succedersi in un processo organico?
La risposta che emerge dal primo passo citato è, appunto, che il capitale pienamente sviluppato, dove il capitalista comanda direttamente l’organizzazione del lavoro, può introdurre la sussunzione formale, dove tale comando non esiste, in nuove branche produttive, caratterizzate dal lavoro autonomo o comunque da rapporti precapitalistici.
Questa annessione temporanea è soltanto un momento di passaggio per la piena riconduzione di quei settori a forme di sussunzione reale, il cui primo segnale è l’aumento del volume del capitale e quindi del numero degli operai occupati simultaneamente da un singolo capitalista. In realtà, alla luce delle esperienze odierne, noi sappiamo che non esiste uno spazio liscio della sussunzione reale globalizzata, bensì «un movimento incrociato fra sussunzione reale e sussunzione formale» corrispondente al recupero di «forme di appropriazione capitalistica antiquate e parassitarie» (M. Hardt-A. Negri, Comune, Milano 2010, pp. 233-234) e che «non si dà transizione lineare e conclusa una volta per tutte dall’una all’altra, ovvero da una situazione in cui l’intervento del capitale nell’organizzazione diretta del lavoro e della cooperazione è limitato a una in cui è totalmente dispiegato» (S. Mezzadra, Un mondo da guadagnare, Milano 2020, p. 122) – esempio classico il lavoro migrante.
Nel primo libro del Capitale Marx offriva, senza usare il termine “sussunzione”, alcuni esempi di estensione del rapporto capitalistico a forme tradizionali di lavoro a domicilio, che viene funzionalizzato alle esigenze della fabbrica e modernizzato mediante l’introduzione di macchina prodotte in regime di sussunzione reale. Nel cap. XIV, paragrafo 8, egli mostra come la macchina dissolve la struttura organizzativa della manifattura, consentendo aumento della produzione e svalorizzazione del lavoro.
Lo stesso effetto si produce sulla cosiddetta industria domestica moderna «che non ha nulla in comune, fuori che il nome, con quella all’antica», implicante un artigianato urbano indipendente e un’economia rurale autonoma. Il lavoro a domicilio è ora diventato «un reparto esterno della fabbrica o della manifattura» (K. Marx, Il Capitale, libro I, Roma 1952-1956, t. 2, p. 172), dove lo sfruttamento del lavoro è ancora più accentuato, perché la capacità di resistenza degli operai diminuisce in misura della loro dispersione, l’ambiente di lavoro è peggiore e una massa di rapaci parassiti si insinua fra il datore di lavoro e l’operaio. L’impiego di forza lavoro femminile e minorile tocca qui il culmine e il deprezzamento del lavoro supera il limite naturale della sopravvivenza fin quando il lavoro si raduna in fabbrica (ivi, p. 181).
Marx, per un verso, registra come il nuovo lavoro a domicilio si muove «sullo sfondo della grande industria» (ivi, p. 176), reclutando parte della popolazione messa in sovrannumero dalle macchine, per l’altro tende a riproporre un’evoluzione stadiale dal lavoro “disperso” all’industria meccanizzata. Il salto di qualità decisivo in questo campo è una macchina particolare, la macchina da cucire – quella che diventerà un giocattolo della futura azienda dell’omonimo Marx.
«L’effetto immediato di questa macchina sugli operai è all’incirca quello di tutte le macchine […] I bambini nell’età più acerba vengono allontanati; il salario degli operai meccanici sale in confronto a quello degli operai a domicilio», i più poveri fra i poveri. Le macchine «distruggono il monopolio del lavoro maschile nelle operazioni più pesanti e scacciano da quelle più leggere masse di vecchierelle e di bambini immaturi. La concorrenza strapotente schiaccia gli artigiani più deboli. L’atroce aumento della morte per fame a Londra durante l’ultimo decennio è parallelo alla diffusione della cucitura a macchina» (ivi, p. 183).
Il lavoro si svolge in ambienti malsani e sovraffollati, che riproducono le condizioni del lavoro domestico pur se inseriti in un’organizzazione del lavoro più avanzata e segnata dalla sussunzione reale. Ma allo stesso modo può compiersi il processo inverso, che Marx intuisce ma non tematizza, cioè l’appalto di siffatti reparti a domicilio, con un apparente ritorno alla sussunzione formale. In realtà, come nell’accumulazione originaria Marx conosce linee di sviluppo diverse da quelle artigianato-contadini espropriati-lavoro “libero” ma non vi si sofferma e dunque può trascurare la coesistenza per un lungo periodo di sussunzione reale e sussunzione formale di altri modi di produzione o sue forme più arretrate (schiavitù, servitù a contratto, lavoro forzato), così ora – nell’ambito del lavoro “libero” contrattuale – tende a stabilire due stadi obbligati che non si intersecano mai. Proprio la macchina da cucire riporta il lavoro dalla fabbrica a domicilio, entrando in tutte le case (nella sua evoluzione tecnologica da macchina a pedale a elettromeccanica ed elettronica) per fornire semilavorati alla fabbrica o abiti confezionati al capitalista commerciale.
Nel passo che segue Marx si rende conto della «policroma confusione di forme di transizione» (ivi, p. 184) che si instaurano in questo particolare settore, ma che si potrebbe applicare anche ai processi di accumulazione originaria del XVII-XVIII secolo, nell’accumulazione permanente dei secoli successivi e oggi, su scala mondiale e con l’avvento delle piattaforme (1).
Torniamo alla rivoluzione industriale nell’Inghilterra ottocentesca, dove quelle forme di transizione «variano a seconda della estensione e del periodo di tempo in cui la macchina per cucire si è già impadronita di questa o quella branca d’industria […] Per esempio per la modisteria, dove il lavoro era già per lo più organizzato, principalmente per cooperazione semplice, la macchina per cucire costituisce da principio soltanto un fattore nuovo del sistema manifatturiero. Nella sartoria, nella camiceria, nella calzoleria, ecc. tutte le forme s’incrociano. Qua troviamo il sistema della fabbricazione in senso proprio, là ci sono intermediari che ricevono la materia prima dal capitalista en chef e raggruppano in “camere” o “soffitte”, intorno alle macchine per cucire a cinquanta e anche più salariati. Infine, come per tutti i tipi di macchinario […] in formato minimo, artigiani o operai a domicilio, con la propria famiglia, oppure chiamando alcuni pochi operai estranei, si servono anche di macchine per cucire delle quali essi stessi sono proprietari» (K. Marx, Il Capitale, cit., pp. 184-185).
In Inghilterra spesso il capitalista concentra nei propri edifici un gran numero di macchine e poi distribuisce il loro prodotto delle macchine all’esercito degli operai a domicilio per la ulteriore lavorazione. «La varietà delle forme transitorie non riesce a nascondere la tendenza alla trasmutazione in sistema di fabbrica nel senso proprio», dato che la versatilità della macchina per cucire spinge a riunire, per maggiore efficienza, nello stesso edificio e sotto il comando dello stesso capitale rami industriali prima separati. La tendenza sarebbe però di chiudere lo stadio precedente e mettere fuori mercato la piccola produzione per macchine da cucire individuali, soprattutto quando subentra l’energia centralizzata del vapore, non disponibile nelle abitazioni.
Le cose però sono andate diversamente e già la disponibilità in tutte le case della corrente elettrica consentì l’uso di una forza motrice non muscolare nei domicili individuali, così da invogliare le grandi aziende a decentrare una parte del lavoro fuori della fabbrica, trasferendo sui lavoratori i costi fissi per i locali e la sicurezza e incrementando il lavoro a cottimo, senza intralci sindacali. Lo spostamento fuori del controllo diretto ma con i ritmi della sussunzione reale utilizza forme di sussunzione formale, in cui il lavoratore resta in apparenza indipendente, per rendere più flessibile la produzione, migliorare l’economia degli spazi e del magazzino, ammortizzare gli sbalzi della domanda e della produzione, spremere i lavoratori esterni nei punti alti del ciclo e scaricarli durante quelli bassi. Una classica causa antagonistica alla caduta del saggio di profitto.
Il lavoro a domicilio 2.0 fa da modello a una ben più numerosa serie di sub-appalti che caratterizzano tutto l’indotto della produzione contemporanea e le pratiche di delocalizzazione. Analoga è la proliferazione di intermediari parassitari e agenzie interinali che si addensano intorno al lavoro precario prelevandone un pizzo (S. Mezzadra, cit. p. 234).
Spesso dove troviamo forme di plusvalore assoluto, tipo prolungamento orario lavorativo a tecnologia e produttività invariate, dove cresce il ricorso al cottimo e la deregolamentazione del lavoro prevale sull’incremento della produttività, abbiamo sintomi evidenti di una sussunzione formale dentro un quadro determinato dal perfezionamento della sussunzione reale (2).
Questo vale per tutti gli appalti a cooperative e i processi lavorativi in esternalizzazione (outsourcing), magari con ritorni parziali in back-sourcing per la finitura e il branding del prodotto. Ciò che consente un sensibile differenziale legale di salario e spesso il ricorso al lavoro nero – secondo gli orrori del vecchio e nuovo lavoro a domicilio. Ciò che vale, in tempi di globalizzazione, non solo in aree “coloniali” (l’uso di bambini-schiavi nella tessitura in Pakistan o Bangladesh, la conciatura nel Maghreb) ma anche per settori tecnologici d’avanguardia (il montaggio dei cellulari) e per la logistica. Inoltre non occorre andare all’estero per esternalizzare: si possono affittare lavoratori stranieri in carico a un’agenzia per raccogliere pomidori o lavorare nei mattatoi e nelle serre con i salari del luogo di provenienza e non di quello di impiego.
Il ricorso alla sussunzione formale vale anche per il lavoro di piattaforma? La questione è interessante perché aggiunge una nuova dimensione alle altre valenze di quella sussunzione oltre alla sincronizzazione violenta dell’eterogeneo storico e geografico e la “provincializzazione” dell’accumulazione originaria.
Nick Srnicek (Capitalismo digitale, Roma 2019) colloca la nascita delle piattaforme entro il flusso dell’esternalizzazione della produzione e dei servizi, terza fase dell’industria novecentesca dopo il fordismo e il toyotismo, resa possibile dai progressi della digitalizzazione del trattamento dei dati. La politica monetaria di bassi tassi di interesse e quantitative easing adottata dopo la crisi del 2008 ha ridotto i deficit, secondo i nuovi canoni di austerità, ma anche spinto gli investitori verso settori a più alto rischio e rendimento, favorendo soprattutto le tech companies. Le principali delle quali (Google, Oracle, Microsoft, Apple, Cisco) mantengono offshore oltre il 90% dei capitali, sottraendosi al fisco nazionale, mentre Amazon, in controtendenza, si limita al 36%. Nel contempo la grande maggioranza dei lavoratori si è impoverita e cresce la loro parte eccedente.
È il caso delle prestazioni collegate al lavoro per piattaforme: non tutte, evidentemente, Uber e imprese di food delivery, per esempio, dove lo status del dipendente auto- o ciclo-munito è formalmente autonomo – anzi, viene enfatizzato come tipico caso di “imprenditore di se stesso” (un termine marxiano poi ripreso da Foucault), con maschera “neo-artigianale” dal momento che possiede i propri strumenti di lavoro – e l’unica innovazione è l’uso delle app (il veicolo della sussunzione reale e della sottomissione a un capitalista centrale), mentre nel caso di Amazon abbiamo un’organizzazione scientifica del magazzino e un chiaro rapporto salariale. Rientrano nella sussunzione formale molte prestazioni a partita Iva, i subappalti a cooperative, una discreta parte dell’indotto e dei lavoretti informali della gig economy. Tutto ciò è parte integrante o sussidiaria di un sistema dominato dalla sussunzione reale, dove le altre strutture riversano il plusvalore estratto.
Alla base ci sta la deriva immateriale del lavoro e della produzione per effetto dell’espansione del ruolo del general intellect e il conseguente delinearsi di un ceto con componenti cognitive, sempre dentro il quadro di un regime capitalistico fondato sullo sfruttamento dei big data (non proprio immateriali né immagazzinati, se non metaforicamente, fra le nuvole) e non necessariamente della conoscenza – tema caro anche a Romano Alquati, che ha sempre vigorosamente distinto fra lavoro mentale e trattamento dati, che è estensione del taylorismo nel lavoro immateriale. Quanto era stato sempre utilizzato nella logistica ora diventa centrale e a buon mercato, una risorsa estratta per favorire la flessibilizzazione ed esternalizzazione del lavoro e il flusso delle merci. Le piattaforme – infrastrutture digitali che consentono interazione di più gruppi di fornitori e utenti – con il loro uso di algoritmi, sono lo strumento migliore a tal fine e possono essere inserite a vario titolo in molte forme di produzione e di servizi, tradizionali e start up, incorporando l’estrazione dei dati nell’interazione sociale. Ciò non toglie che nelle piattaforme si infiltri un parassitismo tecnologico che non ha nulla da invidiare ai suoi antecedenti interinali né alla pratica del sub-appalto.
Le piattaforme sono un nuovo tipo di aziende, proprietarie di software e di hardware di supporto, in grado di estrarre e organizzare dati dagli utenti, generando profitto dalle interazioni sociali e mettendo a valore (nel caso delle advertising platforms, alla Google) qualcosa (informazioni) che non viene prodotto né da un lavoro libero né da un non-lavoro e che implica anche discrete possibilità di sorveglianza sugli involontari “produttori”.
L’estrazione e l’analisi dei dati per un verso qualifica le piattaforme come veri e propri ecosistemi, per l’altro fissa i termini di un nuovo tipo di concorrenza e integrazione verticale (o “rizomatica”) con i più vari devices e campi di raccolta, senza trascurare le acquisizioni orizzontali di compagnie concorrenti o complementari. Secondo un rapporto del Congresso Usa (ottobre 2020) quattro piattaforme digitali – Amazon, Apple, Facebook e Google – hanno preso il controllo dei principali canali di distribuzione delle merci. Le quattro piattaforme gestiscono, in regime di monopolio, le infrastrutture dell’era digitale, abusando del proprio potere per eliminare la concorrenza. Su un mercato ancor più ampio operano piattaforme gemelle cinesi, che entrano duramente in gioco nelle battaglie commerciali con gli Usa.
Non intendiamo certo sostenere che le piattaforme siano il luogo privilegiato della sussunzione formale, anzi, nella loro maggioranza esse sono al servizio di fabbriche toyotiste per renderle più efficienti e interoperative e la più nota fra esse, Amazon, poggia sulla gestione razionale e digitalizzata di merci materiali, che sono inventariate, stoccate, imballate e spedite con una propria logistica, o perfino sulla loro committenza, con un significativo slittamento dall’e-commerce alla fabbricazione, per completare il tying, l’integrazione verticale3. Solo alcune piattaforme (peraltro quelle che hanno avuto la capitalizzazione più rapida) rientrano in una sfera di sussunzione formale, dalla raccolta domiciliare dei dati per Mechanical Turk (settore a parte di Amazon) alle piattaforme di servizi come Airbnb, Uber e le varie strutture di comando dei rider. Insomma, la polpa della gig economy, con il vantaggio supplementare (soprattutto per quelle che Srnicek chiama Lean platforms attribuendo loro scarso futuro) di uno scarsissimo capitale fisso impegnato in mezzi, personale dipendente diretto e depositi, con gestione dei servizi praticamente on demand. Una fabbrica toyotista senza fabbrica e senza operai, perfetta operazione negentropica rispetto alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Inoltre tale operazione rientra appieno nella logica neoliberale di spostare la concorrenza sul sociale, non confinandola nel rapporto salariale e risparmiando sui costi. Il suo equivalente militare è l’uso non inedito ma crescente dei contractor nelle guerre semi-coloniali.
Come si abbatte Covid-19 sulla policroma mescolanza di lavoro informale e digitalizzato e sulle mescolanze di quelle che Alquati avrebbe chiamato risorse “calde” e “fredde”?
Trattandosi di una pandemia a essere colpite sono le attività implicanti contatto e l’indotto spesso informale delle catene globali di produzione e distribuzione, sensibilmente compromesse e accorciate. A parte i probabili effetti negativi sulla produzione industriale a causa della contrazione di consumi interni e dell’esportazione e del subentro dell’e-commerce e dell’home banking ai corrispondenti servizi a vista, un’intera economia di subappalti, lavoretti e logistica di strada è stata sconvolta e il fatturato di alcune piattaforme di mobilità e turismo (Uber e Airbnb) falciato o azzerato al pari delle agenzie di prenotazione viaggi e alberghi on line – si pensi al fallimento emblematico della venerabile Thomas Cook all’immediata vigilia della pandemia, così come è saltato l’indotto che ruotava intorno al lavoro fisso impiegatizio (mense, bar, ristoranti, tavole calde) laddove è subentrata una quota rilevante di smart working.
Sono invece cresciuti rami sostitutivi del contatto, per esempio i rider per le consegne di cibo e oggetti. Gli effetti più considerevoli, però, potrebbero registrarsi proprio per la crescita dello smart working, che, eccetto il pubblico impiego, si accompagna spesso a retribuzioni a cottimo e a innovazioni contrattuali o di fatto in direzione di un rapporto indiretto di collaborazione, una rinascita su vasta scala del ruolo del lavoro a domicilio nel periodo dell’industrializzazione. Alla macchina da cucire subentra ora lo schermo del computer e del cellulare per gestire il telelavoro e le app di controllo (nel caso dei rider).
Da questa sommaria analisi si deduce infine la necessità di allargare un concetto di classe che non faccia riferimento ortodosso al solo lavoratore produttivo nell’ambito della sussunzione reale, ma si faccia carico altresì delle molteplici figure che si collocano nell’ambito della sussunzione formale e delle forme combinate e si trovano in un’analoga situazione di sfruttamento, dando spesso vita a lotte “di confine” cruciali per gli assetti più moderni del capitalismo. Considerazione che beninteso si aggiunge a una lunga storia – a partire dagli anni ’60 dello scorso secolo – della metamorfosi della condizione operaia, del lavoro immateriale e cognitivo, del rapporto classe-moltitudine, del lavoro relazionale, di cura e riproduttivo, del ruolo del genere, della razza, delle migrazioni e delle prestazioni domestiche e pseudo-autonome. Un plesso di problemi che in questa sede neppure ci sogniamo di sviluppare!
Note:
- Harry Harotoonian, Marx After Marx. History and Time in the Expansion of Capitalism, Columbia University Press, New York 2015, sulla scia di Althusser e Benjamin, fa della sussunzione formale il “personaggio filosofico” che spezza il tempo vuoto e uniforme del capitalismo inserendo il passato nel presente e definendo così l’eterogeneità e la collisione di tempi asimmetrici e forme diseguali nella formazione economico-sociale, senza nessuna cristallizzazione teleologica in stadi obbligati.
- S. Mezzadra- B. Neilson, Operazioni del capitale, manifestolibri, Roma 2020, pp. 111-112, mostra che «l’impiego della sussunzione formale è quello che è in gioco nella relazione del capitale con il suo fuori […] quando il capitale si confronta con la necessità di aprire a nuovi spazi per la sua valorizzazione e la sua accumulazione, anche in condizioni che non possono essere descritte come non capitalistiche». Il capitalismo post-coloniale è un luogo ricorrente per queste forme ibride, che peraltro si sono estese oggi a tutti i rami della gig economy, del lavoro on demand e mediante piattaforme, immpnendo la necessità di una “traduzione” delle situazioni e delle lotte. Seguendo D. Harvey (Spaces of Capital, Routledge, New York 2001, p. 76) Mezzadra e Neilson (pp. 126 e 131) sostengono che non solo il capitale deve produrre sempre nuovi “fuori” geografici e della domanda sociale, ma che l’articolazione di sussunzione reale e formale con cui il capitale internalizza i suoi molteplici “fuori” è sempre a servizio del potere appropriativo e del dispiegato dominio del capitale (ivi, pp. 126, 131 e 235-236). Per gli effetti spaziali e geografici della sussunzione formale cfr. ivi, pp. 184-186 e 269 ss., nonché H. Harootunian, Marx after Marx, cit., pp. 153 ss. e 210 ss.
- Cfr. L’analisi di S. Gainsforth, Sotto la cupola di Amazon, “Dinamoprint” 2, 2020. La spedizione delle merci è effettuata in parte mediante il proprio servizio di consegne FBA, in parte utilizzando con tariffe capestro altri operatori come USS e FedEx e usando tutti i trucchi di dumping e fidelizzazione per condizionare clienti e consumatori.