La fase e la pandemia

L’esperienza del lockdown ha forse solo rafforzato, in coloro i quali sanno leggere la fase, la consapevolezza di un adagio che tiene banco tutt’ora nello sproloquio polemico che passa sotto il nome di dibattito politico, ossia la responsabilità individuale di ogni singolo per il buon andamento della società. Se da un lato è innegabile che il piccolo gesto quotidiano reiterato nel tempo da un numero crescente di persone crea problemi, dall’altro questo assunto viene distorto e reindirizzato su corpo sociale come giustificazione per ogni situazione negativa. È un po’ come la faccenda dei rifiuti: se da un lato c’è chi li butta in ogni dove dall’altro si pretende che il comportamento del singolo sopperisca all’inerzia dell’industria di abbandonare alcuni materiali pericolosi, o peggio che il singolo si trasformasse in una sorta di micro-centrale di smistamento. Questo piccolo esempio è per inquadrare la fase, incentrata sulla responsabilizzazione del corpo sociale per quanto concerne le azioni delle varie governances.[1]

La fase storica che la struttura socio-economica del cosiddetto mondo libero sta affrontando e la pandemia che ne è figlia dovrebbe suggerire una serie di ripensamenti e riflessioni sul funzionamento del sistema nel quale siamo inseriti. Si è passati dalla denuncia a vista di solitari runners alla delazione contro il vicino che all’alba o alla sera portava il quadrupede ad espletare i suoi bisogni, al menefreghismo andante alla irrefrenabile voglia di movida e spensieratezza. In un atteggiamento del genere sembra di vederci più un atteggiamento schizoide che altro ma nulla di nuovo sotto il sole, semplici atteggiamenti che si ripetono. Un po’ come il lancio delle monetine a Craxi e Berlusconi: nella folla di indignati lanciatori, moltissimi li avevano sostenuti e adorati fino al giorno prima, difendendoli a spada tratta contro tutto e tutti. Come dicevo nulla di nuovo.

Se quindi non è tanto la massa ad avere responsabilità strutturali – se mai si tratta di responsabilità limitata alle circostanze strutturatesi attorno a specifici asset produttivi ed ai comportamenti e trend sociali che ne derivano – in chi o in cosa è possibile rintracciare le autentiche dinamiche distruttive? Ebbene basterebbe avere la pazienza di leggere un po’ di dati ed analisi economica dei settori in sofferenza per capire i livelli di incompatibilità tra alcuni comportamenti sociali oramai assodati ed il relativo mercato di “riferimento”. Il virgolettato è d’uopo dal momento che vi è un effetto di coazione fra una tendenza sociale, il mercato che vi si struttura attorno, e l’effetto moltiplicativo che esso innesca nel momento in cui si solletica l’immaginario attraverso l’investimento in marketing pubblicitario (con tutti i canali disponibili dal banalissimo spot, al film o alla serie ambientati in specifici siti di interesse).

Se prendiamo come esempio il mercato del fossile nel suo complesso e tutto il complesso produttivo ad esso collegato (raffinerie, combustibili, industria chimica o dei polimeri ecc.), questo è un mastodonte da trilioni di dollari – senza contare il mercato finanziario di riferimento. Ebbene questo vivace bestione tiene banco da oltre settant’anni nella sua attuale configurazione: nessuno ha potuto metterlo in discussione e solo l’aumento dei costi di estrazione unito all’innovazione tecnologica ed alla convenienza (leggi incentivi pubblici) di investire nelle “rinnovabili”[2] hanno riorientato il mercato verso altri lidi.

Il turismo ed il leasure sono quelli che attualmente tengono banco, in alcuni casi sostituendo nettamente i precedenti asset produttivi: un esempio tra tutti è Dubai che sta riorientando gli investimenti dal petrolio al turismo per tutte le tasche ed alle seconde case per miliardari. Se quindi il divertimento e il viaggio di piacere sono divenuti elementi trainanti tanto da soppiantare, nel caso dei viaggi aerei, gli spostamenti per ragioni lavorative,[3][4] è quindi assai facile attendersi che anche una piccola restrizione al numero di passeggeri su un vettore o la chiusura a voli da e per determinate mete turistiche fanno crollare le previsioni di guadagni tirandosi dietro tutto l’indotto, che nel caso di voli e turismo corrisponde ad intere filiere produttive dedicate o riorientate nel recente passato a questo tipo di attività, residenze temporanee, car sharing, ristorazione viaggiante, agenzie turistiche, carburanti per vettori, manutenzione società aeroportuali – un indotto di centinaia di migliaia di lavoratori.

Il grosso problema è che una volta che si da per scontato un mercato con tutti i suoi attori, i suoi agenti ed i suoi miliardi di investimenti, risulta particolarmente difficile far cambiare qualcosa, anche in presenza di contraddizioni macroscopiche quali la trasmissibilità di infezioni dovuta a milioni di individui che si muovono spensieratamente da un capo all’altro del mondo, cosa da tempo denunciata dall’OMS,[5] ma che ha cominciato ad interessare solo con la pandemia.

Non è però, ovviamente, mettendo una pezza qui e là che il problema si risolve: c’è un dato strutturale che dovrebbe essere tenuto a mente che è legato al perché di alcune tendenze ed al fatto che una volta che esse assumono un ruolo di traino nel mercato vengono considerate intoccabili, al di là del fatto se i benefici siano di gran lunga inferiori ai costi o se esse costituiscano un reale giovamento sociale.

Il fenomeno del turismo e la trasformazione di alcune città in mete turistiche e/o quartier generale di colossi industriali o finanziari – vedi New York in primis – hanno reso labile il sistema economico locale.[6] Creando una iper-specializzazione in pochissimi settori, nel momento in cui il turismo è venuto meno e con lo smart working in molti hanno capito che potevano vivere più comodamente in aree rurali spendendo molto meno e senza stress, l’economia locale è collassata. Non serve però andare oltreoceano: basta gettare un occhio alle “città d’arte”, una su tutte Venezia che, durante il lockdown era pressoché deserta, non solo per il divieto di andare a zonzo, semplicemente perché di abitanti veri e propri ne sono rimasti ben pochi, soppiantati da abitanti effimeri, i turisti mordi e fuggi che al massimo pernottano una sola volta.

Di là delle facili critiche (facili ma affatto prive di fondamento) sull’inconsistenza della cultura in quanto tale e della sua banalizzazione commerciale quando diventa “curiosità turistica”, si deve prendere in considerazione che il modello socio-economico nel quale viviamo non solo non è un modello capace di sanare le diseguaglianze – se mai le crea per sostenersi – ma non è neanche resiliente in sé ed ha sempre bisogno di sacrificare qualcosa per potersi salvare; generalmente la spesa pubblica per i servizi base. La pandemia non è stato un disgraziato scherzo del fato: sono state le logiche e le meccaniche proprie del sistema che hanno diffuso il contagio. Non è solo una questione sanitaria e lo vediamo ogni giorno che passa, nelle saracinesche chiuse, nelle partite IVA a spasso e negli industriali che sbraitano; il sistema è entrato in crisi proprio perché si sono inceppati i meccanismi di base, il circuito sanguigno si è fermato per un tempo tale da provocare la necrosi di parti fondamentali del sistema.

Il sistema basato sull’integrazione globale, ha mostrato il suo punto debole esattamente nella necessità di scambi continui da un continente all’altro, non per semplice capriccio ma perché la produzione si è configurata come un sistema a rete con nodi specializzati in alcuni settori, che controllano sotto-reti produttive a loro volta connesse con altri nodi ecc. in un arabesco di flussi di merci, persone e capitali, che ad ogni passaggio generano plusvalore, quelle che Gary Gereffi definì Global Value Chains (GVC).[7]

Ebbene, stando così le cose, il COVID-19 non ha fatto altro che portare alla luce i (molti) punti deboli del sistema socio-economico che oramai caratterizza l’intero pianeta ma quel che sconcerta è che si cerca disperatamente di tornare ad una normalità che, di normale, ha solo il fatto di garantire disuguaglianza a norma di legge. Quel che si spaccia per cambiamento non è altro che un rattoppo, spesso raffazzonato e condito con incertezze di ogni tipo nel timor panico di infastidire qualcuno o di mandare gambe all’aria un settore “essenziale”.

Sui concetti di normalità ed essenzialità sarebbe interessante sapere cosa ne pensano i vari governanti. È ad esempio ritenuto essenziale il settore ludico ricreativo (discoteche e locali similari) ma se uno si mette a scavare sulla qualità del servizio offerto, sulle paghe effettive degli addetti, sui circuiti economici “paralleli” che vi si sviluppano, verrebbe da chiedersi: a chi risulta essenziale questo settore? Essenziale forse per una logica di divertimento incanalata nell’esborso di quattrini – un divertimento deve costare qualcosa altrimenti non è “in”. Turismo di massa, divertimento di massa, eventi di massa, consumo di massa, forse sono questi i punti dai quali estrapolare le contraddizioni e le lacune del sistema, punti che fanno da specchio a povertà di massa, licenziamenti di massa, esodi di massa ecc.

La pandemia quindi dovrebbe essere vista non come cordoglio di massa o funerale collettivo ma come momento di riflessione profonda sull’insensatezza del meccanismo di riproduzione del capitale sempre più determinante per la riproduzione sociale. Se le condizioni base per la riproduzione e la concentrazione del capitale sono quelle che favoriscono miseria e precarietà, rendono vulnerabile la maggior parte del corpo sociale e propagano morbi di ogni genere o agenti inquinanti di ogni genere, è chiaro che il ritorno alla normalità non deve e non può essere un rientro nei ranghi dello status quo pre-pandemia. I cambiamenti necessari non servono solo a tenere a bada ulteriori e futuri contagi, ma a rendere nuovamente il sistema socio-economico compatibile con le esigenze ecologiche dalle quali il genere umano non può prescindere.

J.R.

NOTE

  1. Con governance non si intende il governo istituzionale ma tutti quei soggetti con capacità decisionale a livello territoriale o nazionale che influenzano scelte e gestione socio-territoriali attraverso il soddisfacimento dei loro interessi, che spesso coincidono solo marginalmente con quelli generali.

  2. Il virgolettato si è reso necessario in quanto sulla definizione di rinnovabili ci sono molte perplessità, in quanto ad esempio in Italia vi è la dicitura “rinnovabili e assimilate”, ossia risorse energetiche di origine fossile che, ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, vengono assimilate alle fonti rinnovabili in virtù degli elevati rendimenti energetici. Secondo il disposto del provvedimento Cip n. 6/92, sono considerati impianti alimentati da fonti assimilate gli impianti di cogenerazione, gli impianti che utilizzano calore di recupero, fumi di scarico ed altre forme di energia recuperabile in processi produttivi e in impianti, nonché gli impianti che utilizzano gli scarti di lavorazione e/o di processi e quelli che utilizzano fonti fossili prodotte esclusivamente da giacimenti minori isolati.

  3. https://www.ilsole24ore.com/art/perche-turisti-salveranno-trasporto-aereo-ma-politica-non-sa-ADAPazh
  4. https://www.ilsole24ore.com/art/compagnie-aeree-picchiata-covid-e-gia-costato-9-miliardi-ADMj2Sj
  5. Viaggi internazionali e salute, situazione al primo gennaio 2012, OMS https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/75329/9789241580472_ita.pdf;jsessionid=3E7843E4E3430E2D6BA9F52138D77B73?sequence=1

  6. Kevin Baker in un articolo rcentemente apparso su Atlantic, “Affluence Killed New York, Not the Pandemic”, illustra come le trasformazioni introdotte nella città di NY hanno di fatto sradicato le piccole attività imponendo solo attività ad altissimo rendimento innescando un circolo vizioso di crescita vertiginosa dei prezzi e degli affitti, l’autore pur non usando mai il termine gentrification ne descrive di fatto il meccanismo.

https://medium.com/the-atlantic/affluence-killed-new-york-not-the-pandemic-cde9d014156a

  1. Gereffi G, (1995) “Global Production Systems and Third World Development”. In B. Stallings (Ed.), Global Change, Regional Response: The New International Context of Development (pp. 100-142). Cambridge; New York and Melbourne: Cambridge University Press.

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FONTE: https://www.umanitanova.org/?p=12702


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