30 ottobre 2020, da infoaut
Condividiamo questo interessante testo apparso su Esquire firmato da Paolo Mossetti che ci sembra individuare bene alcuni temi del dibattito sulle piazze che in questi giorni stanno attraversando il paese. Abbiamo trovato convincente la sua lettura sull’ambivalenza delle piazze e sui problemi che pogono in termini di comprensione delle stesse, di “agenda politica” e “ideologia condivisa”. Ci sembra che l’autore però si soffermi meno su due questioni che riteniamo baricentrali nella riflessione: da un lato il fatto che queste piazze siano in qualche modo per la prima volta l’emersione di un “sociale” nella pandemia in Italia, con una propria richiesta di reddito (declinata in maniera contraddittoria) e una propria forza capace di imporre un’agenda politica di redistribuzione (più o meno interclassista, più o meno sporca) e dall’altro una riflessione sul rapporto tra queste proteste e la dimensione più generale della questione della salute come fatto sociale complessivo nella pandemia. Buona lettura!
Estrema destra, estrema sinistra, anticapitalismo e padronato: identikit di una protesta e delle sue contraddizioni.
Una rivolta di queste dimensioni, così spontanea e così diffusa non si vedeva in Italia da almeno dieci anni. Quando in piazza a Milano quest’estate erano scesi i cosiddetti «gilet arancioni», guidati dall’enigmatico ex-generale dei Carabinieri Antonio Pappalardo, per chiedere libertà dalle mascherine e dal 5G, e poco dopo, a Roma, la borghesia dai capelli grigi aveva marciato contro le restrizioni anti-Covid, la stampa nazionale aveva avuto gioco facile a parlare di «negazionisti», di untori, di spettacolo circense. Troppo evidente erano la marginalità di quelle forme di lotta, l’eccentricità dei partecipanti, la sconnessione tra realtà pandemica e desideri. Stavolta però c’è da temere – o sperare – che sia diverso.
La nuova, vasta protesta contro il coprifuoco e le chiusure imposte dal governo Conte ha un tono che ricorda piuttosto le banlieue parigine, ma con la presenza preponderante della piccola borghesia impoverita al posto del proletariato magrebino. A cominciare dalla città da cui tutto è partito, Napoli: la prima 77 anni fa a liberarsi dal nazismo, e la prima oggi a scalfire la «dittatura sanitaria» (se l’interpretazione arriva da destra) e a dare la sveglia alle «coscienze assopite» dal bisogno d’ordine (se arriva dalla sinistra).
Due cortei sono partiti nella notte del 24 ottobre dal centro storico partenopeo, verso la sede della Regione: uno organizzato da giorni dai commercianti, piccoli imprenditori, camerieri, ultras e lavoratori del turismo, per chiedere la cancellazione delle chiusure serali. L’altro, più spontaneo, organizzato da gruppi antagonisti classici con uno striscione «la salute è la prima cosa, ma senza soldi non si cantano messe». In centinaia si sono uniti all’uno o all’altro, col passaparola, poi mescolati in uno solo, con qualche volto noto della camorra nel mezzo, mettendo da parte snobismi e pregiudizi sulle manifestazioni, fino a quando non sono degenerate in uno scontro con la polizia a colpi di lacrimogeni e inseguimenti per strada.
Sembrava finita lì, perché in fondo Napoli è da sempre un luogo dove i mali italiani sono acutizzati e drammatizzati. E invece da giorni il paese è attraversato da un’ondata di pseudo-jacquerie, al tempo stesso prevedibili e indefinibili, oggetto di entusiasmo e insieme di incertezza, in cui i sommovimenti della classe media in crisi si incontrano con i messaggi istantanei lanciati dalle periferie e dagli anarchici. E così #ItaliaSiRibella si è espansa nella notte del 26 ottobre nel nord e nel sud, come un’epidemia, o una tarantella di massa: Milano, Torino, Trieste, Pesaro, Terni, Ravenna, Latina, animate grazie al tam-tam su Facebook e WhatsApp più che alla rete di qualche partito o movimento. I più «ricettivi» nel recuperare il disagio, insieme alla gauche anti-parlamentare, sono i nazional-populisti: una simpatizzante della Lega ha raccolto le immagini delle varie piazze in un post diventato subito virale, con migliaia di condivisioni nella prima ora. La sinistra liberal e persino quella marxista sembrano spiazzate, o addirittura afone.
Ma chi sono queste migliaia di insofferenti, impegnati da giorni a contestare la serrata e minacciare sommosse fiscali, che si ritrovano associati nelle gallerie fotografiche dei giornali ai vandali che prendono di mira le vetrine di Gucci? Il 24 notte, nel silenzio di una Napoli già rintanata in casa, l’identikit dei manifestanti si era chiarito già dopo qualche ora. Erano per lo più giovani e meno giovani, tra i 35 e i 40 anni, quasi tutti uomini, un segmento della popolazione che con il boom dei voli low cost degli anni Dieci era stato assorbito dal business del cibo e degli affitti brevi, rinunciando a essere «manovalanza» che prima in parte viveva grazie ai clan. «Con la riduzione del personale in molti si sono trovati senza lavoro e sono tornati nei ranghi precedenti», scrive il giornalista Francesco Piccinini. Altri sono finiti invece nell’esercito di rider in competizione spietata tra loro – aumentando di una volta e mezzo in sei mesi, mi spiega il più importante sindacalista della categoria, Antonio Prisco – oppure sono ricascati nel buco della disoccupazione, in una città dove il problema è cruciale da oltre mezzo secolo, ben prima dell’ingresso dell’Euro.
Più difficile invece definire la composizione delle altre piazze italiane, che si sono moltiplicate in seguito. In Centro Italia prevalgono i piccoli artigiani, i ristoratori, proprietari di palestre e di cinema monosala, molte proteste hanno l’aspetto di veglie di anziani con candele in mano, non c’è aria di conflitto radicale. A Roma il 27 notte la guerriglia urbana è stata scatenata dal movimento di estrema destra Forza Nuova, con l’effetto di allontanare i depoliticizzati che provavano a vedere che aria tirasse. A Milano si sono resi protagonisti degli scontri gruppi di qualche centinaio di persone, quasi esclusivamente adolescenti, anche lì con pochissime ragazze. Si sono sentiti gli slogan: «Conte tu sei un figlio di puttana», «Conte Conte vaffanculo» e «Libertà, libertà, libertà». Racconta il giornalista di Radio Popolare, Roberto Maggioni:
«Non c’era una vera organizzazione, un gruppetto stava davanti e in modo piuttosto confusionario… Non c’erano striscioni, non ci sono stati slogan con riferimenti politici classici e se tra loro c’era qualcuno più politicizzato a trainare gli altri era molto ben camuffato. C’erano ragazzi col piumino, giubbotti neri, i jeans aderenti, tute Adidas, di quelli che trovi a fare lo struscio il sabato pomeriggio al centro commerciale o a lavorare dietro le bancarelle ai mercati o nei bar. C’era anche una componente di origine nordafricana piuttosto vivace. Mini riot giovanili di chi non vive nel centro di Milano… gruppi di amici, compagnie che si sono date appuntamento per lasciare un segno».
Nessuna delle manifestazioni, tuttavia, avrebbe la forza di portare centinaia di persone in strada se non ci fossero stati gli autogol del governo e profonde incoerenze nella comunicazione istituzionale: che ha prima illuso il paese di poter tornare indietro nel tempo, predisponendo l’apertura delle attività e delle scuole con complicatissime normative sulla sicurezza, e poi ha richiuso di nuovo tutto, o quasi, a metà ottobre, con molti nodi logistici e sanitari che restano irrisolti. Si pensi anche al presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, del Partito democratico, «uomo forte» dal piglio quasi zarista, allergico ai giornalisti, rieletto a settembre con quasi il 70 per cento delle preferenze grazie al «miracolo» di un territorio povero e dalle infrastrutture a pezzi uscito indenne dalla prima ondata, e oggi travolto dal rapido innalzamento della curva, con sei mesi di possibile preparazione sprecati.
A poco è servito il suo ricorso alla violenza verbale, per far digerire lo scarico delle responsabilità a una popolazione stanca e preoccupata: «Sentitevi solo essere umani – diceva il 23 ottobre – non ci sono più distinzioni, né politiche, né religiose, né economiche né ideologiche. Da oggi in poi siate solo essere umani impegnati a difendere la vita dei vostri cari… La missione della Campania è dare coraggio a un paese che spesso di coraggio non ne ha molto… Affrontiamo questa crisi da uomini… Nei momenti in cui un paese è in guerra non c’è nulla che ci distingue: siamo parte di una sola famiglia». Messaggio che è stato recepito, sì, ma nel senso di trasformare il Sud nella polveriera pronta a esplodere sotto il sedere dell’Italia che si convince che «andrà tutto bene», e provocando l’unione di segmenti di dissenso che prima sembravano inconciliabili.
L’economista Emiliano Brancaccio avverte: «bande di inverecondi divulgatori convinti che questa crisi immane colpirà solo magliari e bottegai con simpatie fasciste. Ma la regola di solvibilità e la legge di centralizzazione funzionano diversamente: la lotta tra grandi e piccoli capitali è destinata a riversarsi su una classe lavoratrice totalmente disarticolata e priva di rappresentanza». Potrebbe essere la destra estrema quella meglio attrezzata per approfittarne, soprattutto da Roma in su.
Eppure gli italiani non sembrano ancora pronti ad appoggiare la sollevazione come i francesi con i gilets jaunes: secondo un sondaggio Swg del 25 ottobre, il 64 per cento degli italiani ritiene adeguate o troppo poco stringenti le misure del decreto governativo, e solo il 25 per cento eccessive. Anche quando si analizzano le varie restrizioni, chi le ritiene troppo draconiane è una minoranza, tranne che per i bar e i ristoranti chiusi alle 18. È forse la prova che il problema, al momento, non è l’eccesso di “negazionismo” o di “eresia” nel paese, al netto del fatto che queste posizioni sono forti in diversi segmenti. Né sono in discussione davvero le misure di tutela sanitaria in sé, quanto piuttosto il ragionamento che sta dietro quelle decisioni e le possibili tutele. Di fatto, tra le proteste non c’è una parola d’ordine unificante, come potrebbe essere la richiesta di un sussidio generalizzato, ma solo un coacervo di richieste d’aiuto e di furori incollati dal desiderio di tornare alla normalità.
Persino lo slogan più potente finora emerso – «tu ci chiudi, tu ci paghi», sta creando non poche fratture. I ragazzi dei centri sociali che espongono striscioni sulla sanità da finanziare e il reddito «di quarantena» sono sommersi dalla voce di chi vorrebbe decretare la fine dell’emergenza, e il ritorno al lavoro. Permane, nonostante tutto, la fiducia nel mercato, come se rimanere aperti risolvesse qualcosa, come se i ristoranti e i cinema non si fossero svuotati anche prima, per la paura del contagio. C’è, inoltre, la paura che l’ottenimento di un indennizzo si traduca in una capitolazione, e peggio ancora in un ulteriore legame con uno Stato percepito come nemico, dalla burocrazia umiliante, buono solo a fare controlli superflui.
Numerosi commercianti hanno proposto di violare il coprifuoco in massa, precisando che avrebbero accettato solo pagamenti in contante, ma non sembrano aver avuto successo. Molto spesso in città il commercio al dettaglio è un’occupazione residuale, si arriva ad aprire un negozio senza una chiara idea di business. D’altro canto, c’è sicuramente una grossa fetta di quella categoria per cui evadere è l’unico modo di riprendere competitività: non si può diventare virtuosi tutt’un tratto. Il dramma di fondo è lì, nel fatto che ogni misura rischia di essere dolorosa.
Tutto questo avviene mentre i «competenti» dicono tutto e il contrario di tutto, gli esperti in tv sono in competizione tra loro e le statistiche mostrano numeri che non si capisce bene se dovrebbero terrorizzare oppure tranquillizzare. Anche la parola «immunità di gregge» non è più un tabù, con la virologa Ilaria Capua che spiega che l’unica soluzione ormai è far diffondere il virus lentamente, senza che ci ammazzi tutti insieme, finché non perderà forza, e al momento del vaccino sarà diventato come un banale raffreddore. Un ragionamento sensato, ma che confonde ancora di più le idee a chi si era fatto promotore del lockdown, in cambio di promesse a ripensare la tassazione, e il ruolo del settore pubblico. Commenta una giovane proprietaria di bar in piazza: «Perché la gente si può ammassare per veder il giro d’Italia e non può aspettare fuori un take away il suo panino? Perché in Chiesa sì e in teatro no? Perché bisogna stare in quattro ad un tavolo e in 200 in metropolitana? Perché io devo ritrovarmi senza lavoro dopo che per riaprire ho investito in sanificazione, barriere in plexiglass, igienizzanti e ho predisposto e riorganizzato l’attività nel rispetto delle normative?».
La sinistra moderata, che un po’ ovunque in Occidente ha sposato la linea della sicurezza e della scienza, rischia di ritrovarsi contro tutti: dai fan di Giorgio Agamben – pronti a vendicare le teorie anarco-conservatrici del filosofo – ai segmenti della borghesia trascurata, che adesso scoprono cosa vuol dire fronteggiare una polizia che minaccia di ammazzarti al primo passo falso – anche se i celerini giocano quasi ovunque di ripiego. Com’era prevedibile la politica mainstream si affanna a condannare i disordini, mentre gli intellettuali filogovernativi condannano con voce ferma.
Il Partito democratico spiega che si tratta di teppisti e c’è il tour manager di un gruppo storico di Ska che invoca una risposta massiccia della polizia, mentre i fan di Trump tifano per i riots. Un mondo sottosopra. Di certo i «Gilet Covid» italiani sono un segmento della popolazione lontano anni luce dalle manifestazioni degli studenti, fatti di uomini e donne urbanizzati e con la laurea. Qui ci sono solo maschi, giovani e vecchi, rossi e neri, sguaiati e silenziosi, abituati alla partita doppia e alla ricerca di una saracinesca da scardinare. Il ceto riflessivo anche questa volta rimane a casa, sperando che dalle piazze non nasca una reazione contro il suo mondo, contro l’idea di ripudiare anni di citazioni di Foucault per una missione superiore.
In questo scenario i movimenti sovranisti di nuova generazione, del socialismo conservatore e no-Ue, del superamento di categorie come «destra» e «sinistra» in un’ottica comunitarista non hanno dubbi su quale parte stare. Le mini-galassie politiche gravitanti attorno al partito Italexit del giornalista Gianluigi Paragone (ex Lega ed ex Movimento 5 stelle), ai rossobruni di Vox Italia e al Partito comunista dell’ex ministro Marco Rizzo si radunano nei primi gruppi Facebook in sostegno delle piazza antigovernative. Per la prima volta possono uscire dalla teoria, dalla gabbia dei social media e provare a incidere nel presente.
Mandano i loro influencer in avanscoperta, e su pagine come “Italia sovrana”, “Reopen Milano”, “Sovrani Uniti”, tra i video girati col cellulare in macchina da contoterzisti che chiedono l’impiccagione della classe politica tutta, responsabile di far dormire gli italiani in macchina mentre i clandestini dormono negli hotel, fanno capolino i video del gramsciano lepenista Diego Fusaro, dell’influencer pro-Assad e rinato cristiano Giorgio Bianchi, del reporter “antisionista” Fulvio Grimaldi, con una nuova classe di intellettuali anti-sinistra che sperano di tessere la loro rete di contatti e, chissà, di coltivare gli elettori del futuro fuori dall’assetto politico consolidato: come il Movimento 5 stelle degli esordi, ma in una versione più molto nazionalista e populista. Emergono subito le contraddizioni, tuttavia: gli utenti con la mascherina nel profilo vengono derisi dal padronato «no-mask», e quelli che chiedono prese di distanze dai diffusori dei complotti vengono chiamati «zecche» da chi ha dipendenti da pagare. Formulare un’ideologia condivisa non sarà forse così semplice.
Nel frattempo l’opposizione resta col fiato sospeso. I più importanti tagli alla sanità sono avvenuti, immancabilmente, quando il governo è stato in mano a Berlusconi o quando il centrodestra ha dato il suo appoggio al governo tecnico di Mario Monti. La Lega e Fratelli d’Italia si presentano come fortemente euroscettici, ma oscillano tra riscoperta dell’intervento statale e fiducia nel mercato, e non se la sentono di promettere rivoluzioni. Non a caso Salvini e Meloni sembrano non voler infierire troppo su Pd e M5s, o di voler cavalcare le proteste: sia perché governano in alcune delle regioni più colpite dalla pandemia, e il loro elettorato è molto anziano, sia perché al posto dei «giallo-rossi» con tutta probabilità avrebbero ricette molto simili. D’altra parte, il governo non riesce più a interloquire con alcune delle categorie scese in piazza, che non ne vogliono più sapere di ulteriori sacrifici. Potrebbe presto rafforzarsi l’idea di allargare la maggioranza, e coinvolgere l’opposizione nella gestione di una pandemia che non sarà breve. Si avverte, nell’aria, un governo di unità nazionale. Nascerà entro fine dell’anno l’Esecutivo della Terza Ondata?
Foto di Stefano Guidi, Anadolu Agency, Marco Cantile, Nurphoto, Kontrolab
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