1 novembre 2020
Cosa è successo?
Dopo Napoli, prima della tempesta.
Venerdì 23 ottobre 2020, è sera tardi, in rete e in tv iniziano a circolare le immagini della rivolta di Napoli. Le proporzioni enormi di quello che sta succedendo sono chiare a chiunque le guardi, e sono alla base di quanto successo a Torino e nel resto del paese tre giorni dopo, lunedì 26.
tre giorni, in cui sui profili social della gente si moltiplicano gli appelli a fare altrettanto, “facciamo come a Napoli” recitano numerosi meme che circolano tra Telegram e WhatsApp. Molti riprendono le immagini della rivolta, gli striscioni, “tu ci chiudi tu ci paghi”, “ la salute è a primma cosa.”
Se ne parla nei bar, sui mezzi pubblici strapieni, nei capannelli che si trovano in giro per strada.
Molti hanno l’impressione che succederà qualcosa di grosso, dalle periferie in tanti si muoveranno, nelle curve circolano appelli a scendere in piazza.
I media autoalimentano la paranoia e la paura della polizia che la rivolta di Napoli si possa replicare anche a Torino. I servizi giornalistici allarmistici, non fanno che rinforzare il senso di necessità di scendere in piazza, nei gruppi Facebook e Telegram, in tanti dicono “guardate neanche abbiamo fatto niente che ne parlano già tutti”.
I concentramenti sono due: uno in piazza Vittorio Veneto autorizzato dalla Questura e uno in piazza Castello, sotto il palazzo della Regione Piemonte. Soprattutto quest’ultimo, rievoca le giornate del movimento dei forconi del 2013, quando in migliaia per giorni diedero vita alla più grande rivolta proletaria di Torino degli ultimi 20 anni.
Nessuno sa bene chi abbia lanciato questo appuntamento, ma probabilmente nella spontaneità della convocazione in molti ne hanno riconosciuto la centralità.
È subito rivolta.
Piazza Castello, inizia a riempirsi dalle 8, il concentramento è lanciato per le 8 e mezza.
In piazza Piazza Vittorio l’affluenza comincia leggermente dopo perché l’appuntamento è alle 9.
Le prime cariche incominciano alle 8 e un quarto in Piazza Castello, ma prima di continuare è necessario fare una piccola digressione su come si sono disposte le forze dell’ordine all’interno del centro, per capire le dinamiche di quello che accadrà nelle ore seguenti.
Piazza Vittorio, che rimane proprio sopra il Po, il quale da il nome alla via porticata che la collega direttamente a Piazza Castello, è pesantemente blindata. Si contano 4 -5 camionette che ne presidiano l’ingresso dal lato di via Po, e diversi mezzi, defender jeep e auto in borghese sparse nel resto della Piazza. Gli uomini dei reparti celere e dei carabinieri sono a terra e impediscono l’accesso e l’uscita lasciando però liberi i portici. Intanto diversi scooteroni e moto della Digos pattugliano via Po. Risalendo verso l’altra piazza non ci sono presidi nelle vie laterali e fino all’imbocco di piazza Castello la strada viene lasciata libera.
Qui la polizia è schierata con almeno 3-4 camionette sotto la prefettura e con alcuni mezzi sotto il Teatro Regio. Superando palazzo Madama, altre camionette con reparti a terra sono su entrambi i lati della piazza, ma con una preponderanza di forze schierata sotto la Regione. Rimane sgombro l’accesso al Palazzo Reale.
Sul lato di via Pietro Micca ci sono altre camionette e reparti dietro i quali sembra idealmente situata la retrovia per l’affluenza di rinforzi. l’accesso al centro vero e proprio non è sbarrato, infatti Via Roma, Via Accademia delle Scienze e Via Carlo Alberto, non sono presidiate.
L’intenzione palese di un dispositivo di questo genere è quello della difesa dei palazzi istituzionali e dello sbarramento fra le due piazze, in previsione di bloccare ipotetici cortei sia da piazza Vittorio verso Piazza Castello che viceversa.
Come già dicevamo sotto la regione l’affluenza è molta e inizia ben prima dell’orario della convocazione. Alle 8 e 15 ci sono già dalle 300 alle 500 persone. Non ci sono impianti audio ne striscioni che delimitino un inizio e una fine. A piccoli gruppi tutti si accalcano sotto la regione. Si improvvisano comizi davanti ai giornalisti. I discorsi sono contro Conte e il governo. Contro il coprifuoco e la chiusura delle 18, la rabbia è tanta e si scaglia anche contro gli stessi giornalisti. Questo atteggiamento verso i cronisti determinerà una loro completa assenza nelle fasi successive all’interno della rivolta che ne segue, e rimarranno relegati ai cordoni delle forze dell’ordine.
Molte persone sono coperte, dopo qualche coro, iniziano a partire bottiglie e qualche bomba carta verso la Regione. La polizia carica immediatamente attraversando la piazza verso via Po. Tutto ciò succede mentre la piazza si sta ancora riempendo e sono ancora molti quelli che devono arrivare. Alcuni riescono a entrare in piazza, altri sono costretti ad unirsi a chi è stato respinto in via Po. Si crea un flusso di persone che entra in piazza Vittorio dai portici ingrossando la presenza del secondo concentramento. Qui inizia il comizio dei commercianti e ristoratori nella zona più vicina ai Murazzi, mentre in centinaia, anche qui molti coperti, si accalcano davanti ai cordoni dei carabinieri. Non ci sono cariche però.
Torniamo a Piazza Castello. Qui la polizia è ritornata alle posizioni originali e a questo punto la Piazza si è riempita sia dal lato della Regione, che dal lato di via Accademia delle Scienze. I reparti a difesa di via Pietro Micca iniziano a sparare lacrimogeni e si accende una e vera propria battaglia. Dopo poco c’è una carica che da Piazza Castello spinge centinaia di persone giù per via Roma, lasciando un piccolo contingente all’incrocio fra la via e la piazza.
La scelta di non chiudere le vie di accesso al centro si rivela un vero e proprio disastro nella gestione della piazza. Le forze dell’ordine si trovano obbligate a rimanere a presidiare i palazzi istituzionali, e i reparti che vengono spediti giù per via Roma vengono continuamente accerchiati dai manifestanti usando via Accademia, Piazza Carignano, via Carlo Allberto, e le perpendicolari via Cesare Battisti e principe Amedeo.
A questo punto iniziano i primi saccheggi in via Roma e le barricate, Apple e altri negozi sono colpiti nelle vetrine, la via con diversi cantieri offre molto materiale alla rivolta e la polizia deve affrontare centinaia di persone che scagliano sanpietrini e bombe carta. Solo l’uso dei lacrimogeni, massicci e sparati ad altezza uomo, gli permette di scendere giù per via Roma e piazzarsi all’angolo con via Principe Amedeo. Intanto in piazza si riaccende lo scontro e vengono sparati altri lacrimogeni.
Piazza Carignano e Carlo Alberto per un’ora e mezza sono basi inespugnabili della rivolta. Da lì in gruppi di centinaia si spostano sia cercando di riprendere via Roma sia verso la Regione. Le pensiline della piazza diventano la linea di scontro fra polizia e manifestanti che costruiscono barricate rudimentali con cestini e monopattini. La polizia avanza e il grosso è spinto nuovamente verso via Po, qui alcuni svuotano il cantiere lasciato incautamente incustodito all’imbocco della via. Viene costruita una barricata e incendiata verso la prefettura, i materiali del cantiere vengono usati contro la polizia, che a questo punto è costretta ad avanzare, ma non prima dell’arrivo dell’idrante in supporto. Salgono anche i reparti di carabinieri da piazza Vittorio e i manifestanti, fiutando la trappola, riparano su via Carlo Alberto costruendo barricate e sciamando nei dintorni del primo parlamento italiano. Alcuni tornano su via Roma, ora indifesa, verso piazza San Carlo ed è lì che viene saccheggiata la vetrina di Gucci. Contemporaneamente a tutto questo qualcuno dal lato di via Pietro Micca spara fuochi d’artificio alle spalle della polizia.
Sono le 10 di sera, il centro di Torino ha cambiato faccia, ovunque ci sono cassonetti e dehor usati come barricate, il selciato è divelto in molti punti, cocci di bottiglia e cartucce lacrimogene. Le bombe carta esplodono con regolarità ad ogni avanzata della polizia o dei manifestanti, si respira un aria surreale. La dinamica è fatta di una miriade di gruppetti che insieme danno forma ad una rivolta informe e spontanea, la rabbia si respira a pieni polmoni con il gas, è la forma che ha preso l’odio per le condizioni di vita in cui le persone vivono l’anno 0 della pandemia da corona virus. Un vero e proprio riot come molte volte si sono visti in Francia o negli Stati Uniti, ora brucia nel cuore della vecchia Motor City in decadenza.
Una grossa barricata difende l’ingresso di via Carlo Alberto, nonostante l’idrante, la celere non riesce a passare, il lancio di pietre e fittissimo e i gas sono talmente densi da impedire il passaggio della polizia. È l’ultimo atto di una serata che segnerà nel bene o nel male la storia di Torino. Nonostante il pezzo finale della via sia un tappeto di sanpietrini per quasi mezz’ora la polizia non avanza. Solo dopo l’aiuto di un reparto che scende da via Cesare Battisti, riescono a prendere piazza Carlo Alberto.
La rivolta a questo punto intono alle 22 e trenta si va placando e velocemente si disperde nelle vie del centro. Anche piazza Vittorio si svuota in fretta. Ne segue una caccia all’uomo delle volanti della digos e della polizia che riescono a fermare una decina di persone. Molti sono giovanissimi.
Chi c’era in quelle piazze?
Lo abbiamo già scritto, le piazze di lunedì erano estremamente composite e stratificate, fino ad arrivare quasi all’estraneità tra le diverse composizioni partecipanti.
Al primo impatto quello che si notava era la differenza di età tra le due piazze: in piazza Vittorio l’età media di chi partecipava al comizio era tra i trentacinque e i cinquantanni, mentre in piazza Castello a prevalere erano i giovani e giovanissimi. L’altro dato che balzava immediatamente all’occhio è che entrambe le piazze erano prevalentemente maschili, anche se in piazza Castello, con l’abbassarsi dell’età media, era più facile incontrare giovani donne insieme alla loro compagnia di amici.
In piazza Vittorio pareva ad una prima occhiata esserci una composizione più omogenea: commercianti, localari, lavoratori autonomi, partite iva, alcuni lavoratori dipendenti scesi in piazza a fianco dei propri datori di lavoro. Per lo più si tratta di un ceto medio che si è caricato il rischio di impresa e adesso vede in discussione la possibilità di mantenere in piedi la propria attività. Lo spettro che sembra aleggiare un po’ per tutti è quello della chiusura o dell’indebitamento, a seconda delle disponibilità finanziarie e il conseguente impoverimento, tanto in termini di reddito quanto in termini di posizione sociale. Si tratta in qualche modo di una resistenza alla proletarizzazione che si dà, anche in termini ideologici come fiducia, ancora, nel libero mercato e nella possibilità di realizzarsi e salvarsi in esso. Ma dentro la crisi anche la stratificazione di questi settori è molto più marcata di prima. In controluce si notano le tensioni interne tra chi è un imprenditore a tutti gli effetti e chi magari ha un’attività a gestione familiare oppure una piccola partita IVA. Se a farla da padrone dunque sono le voci che chiedono la “libertà di lavorare” e quindi di un ritorno alla “normalità” in cui riprendere le forme di accumulazione classica della piccola e media impresa, non mancano le voci che dicono: “Ok, chiudiamo perché è necessario, ma ci dovete pagare il lockdown”. Alcuni interventi poi spostano la contraddizione un po’ più avanti, rompendo parzialmente la narrazione ideologica, indicano il neoliberismo come problema, le multinazionali dell’e-comerce come controparte, in poche parole il grande capitale. Ma sono episodi sparuti in una piazza che per lo più sembra riproporre la propria coesione corporativa. Rispetto alla rivolta dei forconi del 2013 sono quasi completamente assenti i mercatari, che in quel caso in qualche forma rivestirono allora il ruolo di avanguardia delle proteste.
Alcune parole vanno anche spese sui lavoratori dipendenti che partecipano al comizio. Sono lavoratori che vedono i propri destini inevitabilmente incrociati a quelli delle piccole imprese dove lavorano, che trovano una comunanza d’interessi con i padroni perché il loro reddito dipende direttamente dalla sopravvivenza delle aziende. Sono lavoratori per lo più sfruttati e malpagati, ma di fronte al rischio di rimanere disoccupati, e magari anche su pressione del “capo” scendono in piazza per chiedere di poter lavorare. Sono dinamiche in qualche modo già viste, a volte incoraggiate dai sindacati, anche nel lavoro operaio. Su questa base materiale si stratifica la cosiddetta “identificazione nell’azienda” dei lavoratori tra gli anni ’80 e ’90 che allo stesso tempo si fa “ideologia dominante”.
Piazza Vittorio è comunque la piazza “politica” (in termini di indirizzi) della serata di lunedì. E’ la piazza dove ci sono obbiettivi e controparti chiare: la continuità produttiva da un lato, il Governo Conte e i DPCM dall’altro. Chi sta in quella piazza ha chiaro quali sono le sue rivendicazioni e sa come tradurle in istanze. Non a caso dall’inizio alla fine della manifestazione si susseguiranno senza interruzione dal gazebo gli interventi dei partecipanti. E’ una piazza che ha una voce, una coesione, una chiarezza di intenti.
Piazza Castello è invece più difficile da inquadrare in una dinamica classica, la composizione è estremamente magmatica e di parole ce ne sono poche, più che altro mutuate dall’altra piazza. E’ un fluido collage di un proletariato urbano impoverito, centinaia di giovani e meno giovani che dalle periferie sono giunti nel centro cittadino. Ci sono i figli e i nipoti della Torino operaia, cresciuti tra le case popolari e la disoccupazione imperante, nati tra anni novanta e i primi anni dieci del duemila, quando già era quasi compiuta del tutto la deindustrializzazione della Detroit italiana e ci sono le seconde e terze generazioni di migranti che risiedono tra Porta Palazzo, Aurora e Barriera. Le compagnie di amici scese in piazza sono miste: italiani, figli di gente proveniente dall’est Europa o dal Maghreb. Alcuni lavorano da iperprecari e con salari da fame nella ristorazione o comunque nel terziario basso. Sono quelli che vivono in cinque in una casa popolare minuscola, magari con un solo stipendio, magari con amici e parenti con malattie croniche a carico, quelli che se in età scolare non hanno i mezzi per la didattica a distanza, quelli che più di tutti hanno sofferto e sopportato il primo lockdown senza quasi alcun aiuto da parte della dimensione istituzionale. E’ una generazione completamente integrata nel consumo, ma totalmente esclusa dall’accesso alla ricchezza sociale. In questa contraddizione si muove, filmandosi con lo smartphone durante gli scontri, assaltando le vetrine del centro non in quanto simbolo del capitale, ma per accedere a un po’ di quella ricchezza, di quel lusso vietato che ad ogni ora appare sulle bacheche dei social. Scendono in piazza senza rivendicazioni precise, senza piattaforme (almeno per adesso), e vogliono aumentare il loro costo sociale, dire “siamo qui anche noi, esistiamo e siamo arrabbiati”. Sono attirati in piazza da un misto di immaginari: i racconti dei più grandi in quartiere sulla rivolta dei Forconi, Black lives matter, Napoli, la banlieue.
Attenzione però a considerarli ingenui o ignoranti. Questi giovani si costruiscono il proprio punto di vista al di fuori dei circuiti di formazione classici, nella socializzazione fisica e virtuale. La scelta di scendere in piazza, in “quella” piazza non è casuale o eterodiretta, scelgono di essere lì perché sanno che è possibile che succeda qualcosa, che è possibile che esploda un conflitto latente. Anche per quanto riguarda il virus, come si può leggere in alcune delle interviste fatte a posteriori dai giornali ai protagonisti di quella piazza, non hanno affatto atteggiamenti negazionisti o complottisti. C’è chi dice “Fanno bene a chiudere”: il punto non è la presunta dittatura sanitaria, ma le condizioni in cui è costretto a vivere l’emergenza chi non ha i mezzi e le risorse per affrontare le misure del governo.
Certo, i negazionisti del virus in piazza ci sono, in entrambe le piazze, ma appartengono per lo più al folklore dietro cui si nascondono gli interessi materiali.
L’unica dimensione un po’ più solidificata in piazza Castello è quella degli Ultras di entrambe le massime squadre della città: sanno come muoversi in queste situazioni, sono variamente connessi con la composizione allargata di chi sta protestando (se non altro come codici, comportamenti e contatti), ma nonostante questo non mancano gli attriti e gli scontri con i settori che abbiamo descritto sopra. In qualche modo tutte le componenti anche blandamente organizzate della piazza vengono superate dalla spontaneità che dilaga.
In termini generazionali, nonostante come dicevamo sopra a prevalere siano i giovani e giovanissimi vi sono anche sparuti gruppi di gente con un’età più avanzata, alcuni curiosi di vedere cosa sta succedendo, altri collocati nelle schiere dei disoccupati o del terziario basso in sofferenza, oppure piccoli commercianti con molto poco da perdere.
Durante le proteste gli slogan sono pochi e la piazza non parla un linguaggio proprio, viene cantato “libertà, libertà, libertà” oppure slogan contro i celerini e i carabinieri. Non vi sono interventi, se non uno improvvisato prima che parta il marasma. L’aria che si respira in piazza è pesante e non gioiosa, si vede che i sentimenti prevalenti sono la frustrazione e la voglia di vendicarsi delle condizioni in cui si vive. Quindi poi ad uscire come discorso è soprattutto quello di Piazza Vittorio. Piazza Castello è per lo più “parlata”, senza una capacità di espressione propria. In questo senso sembra che manchi un “riconoscersi”, un prodursi “in autonomia”, bisognerà vedere se e come questo emergerà in futuro.
Pandemia, rivolta ed istanze
Dicevamo, una differenza sostanziale tra le due piazze era l’avere voce per esprimere le proprie istanze oppure no. Piazza Vittorio mostra richieste precise, attraverso gli interventi al microfono: la garanzia di tornare a lavorare, di poter condurre la propria vita uguale al prima che ci avevano promesso che sarebbe tornato. Scansando l’individualismo che impone una richiesta come questa oggi, essa si può tradurre in una chiara richiesta di reddito. Il proprio lavoro equivale infatti all’unica fonte di reddito esistente. Se non si lavora non si hanno i soldi. Certo, all’interno di questa parte le ambiguità e le contraddizioni non mancano. Se la solidarietà ai commercianti, ai piccoli imprenditori, ai baristi e ai ristoratori è senso comune nel nostro Paese, essa si accompagna alla volontà di porre alcune rigidità, si legge sul web “sono con voi, tranne con il datore di lavoro di mia nipote che la pagava 3 euro cinquanta l’ora in nero al bar”. È senso comune l’idea che essere lavoratori privati implica sudore e fatica molto più che essere dipendenti pubblici e la tensione tra i due poli si acuisce in questi giorni. La facilità con la quale la narrazione mainstream mette all’angolo le proteste sottolineandone la disaffezione alla tutela sanitaria, alimenta la forbice che allontana quelli che qualche mese fa erano considerati gli eroi e chi scende in piazza contro le misure del governo. È una semplificazione anche questa, un’ulteriore scorciatoia per dividere i buoni dai cattivi e non dover rendere conto a nessuno da parte delle istituzioni.
Gli interessi di questa parte di classe si scontrano ma si incontrano con quelli dell’altra parte, differente per generazione e per reddito. Vogliamo tutto, vogliamo anche Gucci. Ci insegnano i Gilet Gialli sugli Champs Elysées che lo sfregio per il lusso è insieme la smania di accedervi, di integrarsi, di potere. Quello che si esprime in piazza lunedì sera è rabbia legittima ed esasperazione, non è una piazza vivace e spensierata. Si susseguono ore di sfogo, di rivalsa, di tentativo di vendetta. Questa vita non è più nemmeno quella che c’era prima, che già di per sé non è che fosse il massimo. In molti studiosi, universitari, antropologi si sono spesi nell’analisi della composizione, delle sue richieste e di come interpretarle, utilizzando categorie che rimandano ad altri contesti urbani e sociali, come le periferie francesi. Che qua sia tutto diverso e se siamo di fronte o no a una “rivolta delle banlieues” non è particolarmente interessante di per sé, ma una cosa è vera. Quando nel 2005 scoppiarono le emeutes, adolescenti per strada bruciavano le scuole e gli ospedali e i centri di aggregazione giovanile. E c’era chi diceva, ottusamente “perchè bruciate ciò che non potete avere, ma di cui avete bisogno?”. Il motivo era evidente. Perchè era l’emblema dell’impossibilità, dell’inaccettabilità di una condizione. Erano i simboli ben concreti della violenza del razzismo strutturale dello Stato e di tutte le sue articolazioni, della differenza tra chi aveva i soldi e chi no, tra chi veniva trattato con paternalismo per essere “integrato” e chi no. Oggi vale ancora. Ma oggi si aggiunge un elemento, la pandemia, ciò che si rischia non è solo di vivere una vita di sfruttamento e di dominazione di razza e classe, si rischia la vita.
Non è un caso che durante i mesi del primo lockdown l’intera popolazione stesse a guardare impotente, al massimo affacciandosi al balcone, sperando e confidando nell’operato della gestione dell’emergenza, accettando le misure restrittive in nome di una più alta tutela della salute di tutti. Oggi la mediazione, il sacrificio di stare a casa, senza lavoro e quindi senza reddito – perchè lo stato non ha messo in campo nessun’altra forma di sostegno economico alle famiglie – è bruciata in fretta, si è consumata. Innanzitutto perchè è evidente che le misure scelte non sono le più efficaci per limitare il contagio e la diffusione del virus. Il risultato è che queste colpiscono una parte ben precisa della popolazione, tutelando palesemente gli interessi di altri. È normale chiedersi cosa cambia tra un ristorante aperto e un bus stracolmo di gente. Hanno anche una conseguenza ben precisa, la limitazione dell’agire sociale umano delimitando il lavoro come l’unica terreno di relazione sociale.
Senza voler sovrarappresentare una realtà complessa, contraddittoria e per certi versi disarmante, ciò che si può vedere in controluce è la consapevolezza di un necessario cambiamento. Tra la nostalgia di un passato irriproducibile e l’assenza di un orizzonte verso cui guardare si è stretti in un presente che fa stare male. Sapere cosa volere è una pretesa troppo alta di fronte al disastro dispiegato. Un grido di attaccamento alla vita è l’unica cosa che resta in proprio potere.
Conclusioni (necessariamente provvisorie)
Difficile trovare delle conclusioni appropriate mentre lo sviluppo di queste piazze in tutta Italia è ancora in corso e non accenna a finire. Impossibile dire se diventerà un movimento con i suoi codici e i suoi discorsi solidificati o se rimarranno esplosioni di rabbia destinate a ripetersi. Ma alcuni nodi crediamo che possano essere esplorati.
1- In primo luogo ci sembra necessario e in parte scontato dire che in quelle piazze ci sono anche i “nostri”, anche se non solo i nostri. L’esclusione dalla ricchezza sociale assume un ulteriore significato dentro la crisi pandemica e cioè esclusione anche da alcuni aspetti della riproduzione sociale industrializzata dentro l’emergenza. La differenza di accesso ai mezzi ed al reddito crea un’ulteriore movimento di deintegrazione nella parte bassa della classe che si vede scaricare il peso della crisi totalmente addosso e viene considerata forza lavoro superflua. Banalmente c’è chi può accedere alla didattica a distanza e chi no, c’è chi può fare lo smart working e chi no, c’è chi può pagarsi un tampone in un ospedale convenzionato e chi è costretto ad attendere nell’incertezza.
Questo movimento di “deintegrazione” si allaccia all’altro movimento generato dalla pandemia, cioè l’ulteriore concentrazione della ricchezza nelle mani della grande borghesia a scapito delle classi basse, ma anche della piccola borghesia, dei bottegai e dei lavoratori autonomi. Ma c’è un ma, se queste due dinamiche, quella di “deintegrazione” e quella di “declassamento tendenziale” sono state le prime ad esplodere e si ritrovano loro malgrado e conflittualmente nelle stesse piazze, è evidente che gli interessi materiali sono coincidenti fino a un certo punto. A Torino in questo senso pensiamo si sia manifestata in maniera confusa questa difformità. E’ da capire quanto, come e in che direzione si approfondirà.
Se da un lato il governo sta dando delle parziali risposte alle piccole attività in sofferenza, dall’altro lato alle date condizioni sembra strutturalmente impossibile un tentativo di reintegrazione. Resta da vedere se questa divergenza porterà a una “fine” delle piazze in assenza di un determinato vettore politico o allo strutturarsi di qualcos’altro in alternativa.
Una delle variabili ci sembra la possibilità o meno che settori di classe più “garantiti” inizino a mobilitarsi in questo spazio aperto da altri su istanze più chiare dentro la contraddizione reddito-salute.
2- Queste piazze hanno dimostrato un’efficacia. Rendono credibile l’assunto che dentro la crisi se si lotta, e lo si fa con una certa durezza, si ottengono dei risultati. Hanno rotto con l’idea di una comunità nazionale che viaggia tutta nella stessa direzione di fuoriuscita dall’emergenza (fatto che si è mostrato come materialmente falso proprio a causa delle scelte politiche di questi mesi) e si sono articolate secondo gli interessi contrastanti. Fino a qualche mese fa l’unico discorso di contrapposizione era quello di Confindustria, di guerra di classe dall’alto. Oggi per quanto confuse si intravedono altre istanze che potenzialmente almeno si possono sviluppare in una contesa sulla questione delle risorse e di chi deve giovarne.
3- La partita sulla questione della salute è tutt’altro che una sfida a parte. Solo uscendo da una visione che interpreta la salute come un fatto collegato unicamente alla malattia e ponendo la lente sulle determinanti sociali, economiche, ambientali e culturali che ne permettono la proliferazione, si può sperare di comprendere nella sua totalità il fenomeno della pandemia. Dunque è necessario sempre di più cercare delle strategie che superino la contraddizione salute-lavoro: quindi sì, pagateci il lockdown, ma anche troviamo delle strategie collettive dal basso per tutelarci visto che lo Stato non è in grado di farlo. Introdurre in tendenza questi temi nelle piazze, con tutte le difficoltà e le contraddizioni del caso, può essere fondamentale per provare a ipotizzare una traiettoria politica di questa emersione sociale e inserirsi nelle possibili divaricazioni.
In termini generali ci sembra che queste piazze siano il prodotto della convergenza tra quello che definiamo il secondo ciclo del neopopulismo (più sporco e senza più una vera rappresentanza coagulata) e il fenomeno pandemico, formando una tempesta perfetta in cui la vera posta in palio è il fatto che si chiariscano o meno gli interessi di classe, che si produca un “riconoscimento” tra chi vive nelle stesse condizioni e si approfondisca la frattura tra alto e basso nella società. Difficile dire se questa “chiarificazione” avverrà o meno, ma crediamo che chiunque abbia a cuore il cambiamento di questo sistema di cose esistenti debba porsi il problema di come agire in questi fenomeni.
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FONTE: https://www.infoaut.org/target/torino-la-citta-dei-sommersi-la-pandemia-e-noi