La cultura della sorveglianza filtra e scorre dappertutto

5 novembre 2020

Perché abbracciamo le nuove forme di controllo digitale? Una lettura di La cultura della sorveglianza, di David Lyon.

1984 è la metafora sbagliata per raccontare la nostra epoca, e ormai lo si afferma da tempo. Quello immaginato da Orwell è un mondo grigio, opprimente e governato da dittature feroci. Per quanto la società di 1984 sia basata sulla sorveglianza – come lo è sempre di più anche la nostra –, si tratta di una sorveglianza “tradizionale”, da stato di polizia, in cui il controllo è solo dall’alto verso il basso: una sorveglianza che schiaccia e umilia. La situazione in cui viviamo noi, oggi, alle prese con la pervasività di smartphone, social network, applicazioni, telecamere, riconoscimento facciale e droni è completamente differente.

“L’osservazione degli altri in senso sorvegliante è una pratica antica”, scrive David Lyon nel suo La cultura della sorveglianza (LUISS University Press, 2020, traduzione di Chiara Veltri), saggio in cui esplora le modalità con cui la sorveglianza permea ogni aspetto della nostra società, diventando la sua cifra distintiva.

Per gran parte della storia dell’umanità, la sorveglianza è stata l’attività di una minoranza, appannaggio di persone o organizzazioni specifiche. Oggi, gran parte della sorveglianza è ancora un’attività specializzata svolta dalla polizia, dalle agenzie di intelligence e ovviamente dalle aziende. Ma viene svolta anche a livello domestico, nella vita quotidiana. I genitori usano dispositivi di sorveglianza per controllare i bambini, gli amici osservano gli altri sui social network, ed è sempre più diffuso l’uso di gadget per il monitoraggio della nostra salute e forma fisica. (…) In questo modo osservare diventa uno stile di vita.

È per questo che termini classici come “stato di sorveglianza” o “società della sorveglianza” non sono più adeguati a descrivere il nostro tempo, e bisogna parlare di “cultura”: perché i dati che creiamo usando Facebook vengono sì sfruttati dalle organizzazioni per venderci al miglior offerente – e da nazioni poco democratiche per monitorare ciò che pensano i cittadini – ma sono anche lo strumento che usiamo noi stessi per sorvegliare, de facto, ciò che i nostri “amici” dicono e fanno, i luoghi che visitano, i cibi che mangiano, le persone che incontrano, i film che vedono, la musica che ascoltano e così via. Viviamo costantemente immersi in una condizione di sorveglianza che non è più solo top-to-bottom, ma è anche peer-to-peer.

Siamo ormai talmente assuefatti alla sorveglianza da non trovare nulla di strano nemmeno nel sorvegliarci da soli per poi cedere dati sensibili e personali ad aziende pur non sapendo esattamente che cosa, con questi dati, faranno. Ci auto-sorvegliamo, utilizzando Fitbit, smartwatch e altri wearables ormai del tutto simili a (finti) dispositivi medici.

I dispositivi indossabili sono diventati sempre più popolari, e ormai si sente parlare comunemente di ‘quantified self’ [il sé quantificato]. In questo mondo le persone cercano una forma digitale di conoscenza di sé in modo da poter condurre ‘vite migliori’, anche se vedono solo un piccolo frammento dei dati, che invece confluiscono per la stragrande maggioranza nei database delle aziende produttrici dei dispositivi indossabili.

La sorveglianza costante, di chiunque e ovunque è ormai una tale condizione di normalità che ci monitoriamo anche all’interno delle nostre abitazioni. Basti pensare a Ring, il citofono smart di Amazon che riprende costantemente cosa avviene davanti alle nostre abitazioni (e anche al loro interno) e condivide queste informazioni con i vicini che utilizzano l’applicazione Neighbors by Ring; informazioni a cui hanno accesso anche Amazon e le forze dell’ordine che con Amazon hanno stretto una partnership.

Promette sicurezza, ma Ring è in realtà uno strumento per la sorveglianza che decidiamo volontariamente di mettere nelle nostre stesse case; fornendo alla polizia e a un colosso multinazionale un buco della serratura privilegiato dal quale osservare la nostra quotidianità (e pazienza anche se i video del nostro salotto o degli amici che citofonano a casa finiscono su Facebook). Ring, adesso, è disponibile anche nella versione Always Home, in cui la videocamera-smart prende le forme di un minidrone che si alza in volo e controlla cosa avviene in qualunque stanza, attivato da sensori che registrano movimenti sospetti quando siamo distanti. In questo modo è sempre possibile sapere cosa stanno facendo i figli, i babysitter, i collaboratori domestici e quant’altro: sorvegliamo da soli la nostra stessa abitazione, senza più alcun timore di invadere la privacy altrui.

Sorveglianza liquida
È per tutte queste ragioni che quella che stiamo affrontando, secondo Lyon, è la terza evoluzione della sorveglianza: dalla sorveglianza di stato (la classica modalità che associamo, per esempio, alla Stasi) siamo passati alla società della sorveglianza (successiva di qualche decennio e contraddistinta dalla pervasività, in sempre più luoghi, di videocamere che tutto osservano e tutto controllano) e infine, con l’avvento di smartphone e social, siamo arrivati alla cultura della sorveglianza, che emerge “man mano che la sorveglianza diventa più flessibile e fluida e tocca frequentemente le routine della vita quotidiana. La sorveglianza liquida filtra e scorre dappertutto”.

Quella che stiamo affrontando è la terza evoluzione della sorveglianza: dalla sorveglianza di stato siamo passati alla società della sorveglianza e infine siamo arrivati alla cultura della sorveglianza.

Esiste qualcosa, in questo ambito, che rappresenti meglio l’idea di liquidità – di ciò che filtra ovunque – delle stories di Instagram? Brevi spaccati della nostra quotidianità, pubblicati più e più volte al giorno per documentare la giornata come se fosse, letteralmente, una storia. E che ovviamente permettono a chiunque ci segua sui social di sapere con precisione cosa facciamo, con chi e dove siamo in qualunque momento. Ci auto-sorvegliamo, ci mostriamo anche nei momenti più privati e intimi e creiamo uno stile di vita in cui la narrazione di noi stessi avviene in presa diretta. Il tempo trascorso sui social non si alterna più al tempo trascorso nel mondo fisico: le due situazioni sono fuse l’una nell’altra. Un’evoluzione che illustra come la cultura della sorveglianza sia dinamica e si muova assieme alle nuove tecnologie e alle abitudini a cui danno forma.

“‘Sorveglianza liquida’ non è tanto una definizione completa di questa tipologia di sorveglianza quanto un orientamento, un modo per situare gli sviluppi nella modernità fluida e sconvolgente di oggi”, prosegue David Lyon. Sempre l’esempio delle stories ci aiuta a comprendere un altro aspetto, che lo stesso autore definisce “il cuore del problema”: il ruolo della performance. In un mondo in cui siamo sempre sorvegliati, tutto è performance. E questo provoca inevitabili effetti collaterali.

Un esempio è dato dalla forma di sorveglianza più accettata, e ormai considerata quasi naturale dalla popolazione: quella aeroportuale. Nel momento stesso in cui ci mettiamo in fila per i controlli, ognuno di noi mette in scena una performance. Tutti cerchiamo di mostrarci il più innocenti e sereni possibile, ma ovviamente c’è chi subisce queste modalità più di altri e si deve maggiormente impegnare nella performance (Lyon, che lavora in Ontario, fa l’esempio delle famiglie canadesi di origine araba che si impegnano a parlare tra loro solo in inglese finché non avranno passato i controlli).

La sola consapevolezza di essere potenzialmente osservati modifica il nostro atteggiamento: ci rende innocui, ci fa conformare al comportamento che sappiamo essere il più rassicurante. Questo non avviene solo in aeroporto, ma, ancora una volta, anche quando utilizziamo uno strumento ormai banale come i social network. In questo caso, il concetto chiave è quello battezzato “collasso dei contesti”, secondo il quale, su Facebook, si fondono contesti troppo differenti delle nostre vite: tra i contatti annoveriamo colleghi, amici d’infanzia, ex compagni che non vediamo da una vita, persone che abbiamo appena conosciuto, parenti e altro. Tutti possono vedere ciò che scriviamo o pubblichiamo e questa sorveglianza, per quanto voluta e ricercata, rende più difficile postare liberamente. Nella nostra vita offline, ciascuno di noi è una persona parzialmente diversa a seconda del contesto in cui si trova. Su Facebook e altrove, questi contesti collassano in un unico amalgama, che modifica il nostro comportamento e ci impedisce di essere spontanei in quello che dovrebbe essere un semplice avatar digitale di noi stessi. Invece, mettiamo in scena una performance in cui tutto ciò che diciamo, mostriamo e facciamo è ciò che riteniamo desiderabile dalla maggior parte dei nostri follower.

Oggi ci auto-sorvegliamo, ci mostriamo anche nei momenti più privati e intimi e creiamo uno stile di vita in cui la narrazione di noi stessi avviene in presa diretta.

“Possiamo notare un’interiorizzazione dello sguardo sorvegliato nei cambiamenti di comportamento che avvengono quando ci si rende conto che sta avvenendo un’osservazione specifica”, scrive ancora Lyon. Tornando al nostro esempio, siamo talmente consapevoli di come essere sorvegliati influenzi i nostri comportamenti che cerchiamo rifugio nei gruppi Whatsapp, dove i contesti rimangono ben separati (il gruppo della famiglia, dei colleghi, degli amici storici e così via) e ci permettono di comportarci in maniera più spontanea. Il legame forse più esplicito e diretto tra sorveglianza e performance è però quello che si registra sul mondo del lavoro.

Costretti a giocare
Isaak è un algoritmo prodotto dalla britannica Status Today in grado di analizzare quante mail gli impiegati di un’azienda hanno scritto, a chi le hanno inviate, quante volte si sono allontanati dalla postazione, quanti file hanno aperto e modificato e tutta un’altra serie di operazioni svolte da chiunque lavori davanti a un computer. Analizzando questi dati, Isaak non è solo in grado di capire quanto siate stati attivi durante la giornata di lavoro, ma anche se nel vostro settore siete degli “innovatori” o degli “influencer” (ma probabilmente anche se siete degli scansafatiche o dei procrastinatori), e promette di valutare i dipendenti in maniera oggettiva, rimuovendo dall’equazione le simpatie e le antipatie tipiche degli ambienti lavorativi.

Solo un anno fa, l’utilizzo di uno strumento come Isaak poteva sembrare un’eccezione. Da allora, però, le cose sono cambiate radicalmente: la pandemia da COVID-19 ha diffuso il lavoro da remoto, incentivando l’installazione di questo tipo di software per controllare i dipendenti anche quando si trovano lontani dall’ufficio. I dati sono inequivocabili: già nel mese di aprile, la richiesta per questo genere di software era aumentata a livello globale dell’87% rispetto ai tempi pre-COVID. A maggio, era cresciuta di un ulteriore 71%.

La sorveglianza che, complice lo “smart working” si fa digitale e pervasiva anche sul luogo del lavoro ci costringe a performance che diano almeno l’impressione di velocità ed efficienza.

La sorveglianza che, complice quello che in Italia chiamiamo “smart working”, si fa digitale e pervasiva anche sul luogo del lavoro ci costringe a performance che diano almeno l’impressione di velocità ed efficienza (digitare tasti compulsivamente inganna l’algoritmo; prendersi un’ora per riflettere attentamente su una questione viene invece valutata come una perdita di tempo). E a volte per spronare all’efficienza si ricorre a forme di gamification che rendono la sorveglianza sul lavoro – tramite premi, punteggi e incentivi – qualcosa di più simile a un videogioco. “Ma quand’è che un gioco non è un gioco?”, si domanda retoricamente Lyon. “Probabilmente quando il principale vi obbliga a ‘giocare’. Non devono essere molti i dipendenti che non si accorgono quando un gioco non viene proposto per divertimento ma per aumentare la loro efficienza e quindi la redditività dell’azienda”.

Perché tolleriamo, anzi abbracciamo, tutte queste forme di controllo? Tra le varie spiegazioni raccolte nel saggio di Lyon – di stampo sociologico e psicologico – vale la pena di riprenderne almeno una, che si appoggia ai grandi cambiamenti che hanno coinvolto per prima la società statunitense e poi tutto il mondo occidentale:

[Una] possibile spiegazione del perché gli utenti dei social permettono che i loro dettagli personali circolino liberamente online è che questo rappresenta una logica conseguenza di quello che Arlie Hochschild [sociologa statunitense] definisce ‘outsourced self’. Hochschild definisce l’America del Novecento come un luogo in cui si sono verificati immensi dislocamenti e tumulti e in cui le famiglie, in passato sostenute dalle comunità locali, hanno dovuto cavarsela da sole. (…) Quando l’identità viene appaltata all’esterno in questo modo, entra in gioco il mercato, che invade numerosi aspetti della vita intima.

In poche parole, in una società che si è fatta via via più disgregata, e in cui le reti sociali fisiche si sono dissolte o comunque allentate, i social network hanno offerto la parvenza di un coinvolgimento emotivo. E noi l’abbiamo accettato di buon grado, forse perché non abbastanza consapevoli delle controindicazioni. È proprio questa forma di consapevolezza che un libro come La cultura della sorveglianza è in grado di fornire, approfondendo tutte le sfaccettature di uno degli aspetti dirimenti dell’epoca che stiamo vivendo: è un testo divulgativo che per densità si avvicina a un saggio accademico, ma che rimane accessibile a chiunque abbia la pazienza necessaria a seguire Lyon mentre scardina metodicamente molti concetti chiave che abbiamo introiettato del nostro vivere comune.

Cosa significa, per esempio, che la gente oggi “vede in modo sorvegliante”?

Un modo per pensare agli immaginari della sorveglianza è prendere in considerazione i modi in cui la videosorveglianza è diventata una componente familiare del paesaggio urbano e pertanto della vita quotidiana. Le telecamere pubbliche sono una parte inevitabile della nostra visione della città, e molti sono consapevoli della tipologia di visione – riprese sgranate – che offrono.

Siamo di fronte a un’evoluzione di quanto teorizzato da Susan Sontag, secondo cui “insegnandoci un nuovo codice visuale, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che vale la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa più importante, un’etica della visione”.

Chi controlla i controllori?
L’onnipresenza di videocamere e l’abitudine a essere controllati e osservati ha quindi modificato il nostro stesso sguardo. Ma questo non è esclusivamente un male: l’occhio degli smartphone sempre puntato su ciò che avviene nel mondo è ciò che ha permesso – per fare un esempio recente – di riprendere l’uccisione di George Floyd e fare chiarezza su un caso che ha poi scatenato proteste in tutti gli Stati Uniti e non solo. Ma Lyon mette in guardia da eventuali entusiasmi:

Molti attivisti ritengono che i tweet e i messaggi di testo abbiano grandi potenzialità nell’ambito della solidarietà sociale e dell’organizzazione politica. Pensiamo al movimento Occupy o alla Primavera Araba, nel 2010 e nel 2011, o alla Rivoluzione degli Ombrelli di Hong Kong nel 2014. Ma questa è un’area da tenere d’occhio con attenzione, non da ultimo perché viene già sorvegliata. L’esistenza stessa dei social network dipende dal monitoraggio degli utenti e dalla vendita ad altri dei loro dati. Le possibilità di resistenza offerte dai social network sono attraenti e in una certa misura fruttuose, ma sono anche limitate, sia per la mancanza di relazioni vincolanti in un mondo in via di liquefazione, sia perché il potere della sorveglianza dentro i social è endemico e significativo.

A cadere sotto i colpi di questa sorveglianza endemica è anche il significato di uno slogan tanto celebre quanto controverso come “chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere”: “In passato, nelle società che adottavano lo stato di diritto, nel quale si sosteneva la fondamentale presunzione d’innocenza, era piuttosto sicuro dare per scontato che se non avevi niente da nascondere non avevi niente da temere”, spiega Lyon. E oggi? La situazione è radicalmente cambiata: aziende e organizzazioni utilizzano software che classificano le persone in base alle abitudini di navigazione, e non più solo in base alle singole pagine che visitano. Siamo quello che visualizziamo: “Da queste valutazioni automatiche scaturiscono decisioni su qualsiasi cosa, dall’affidabilità creditizia ai livelli di assistenza post-vendita, dalla velocità della connessione internet alla capacità di mantenere un conto in banca”. Soprattutto, se siete già marginalizzati o svantaggiati, il sistema si assicurerà che queste debolezze vengano ingigantite (sono gli effetti di quello che Oscar Gandy, studioso dell’economia politica dell’informazione, ha chiamato ‘svantaggio cumulativo’).

Poco importa, quindi, se abbiate qualcosa da nascondere o meno: soprattutto se già siete tra le fasce sociali più deboli o marginalizzate avete comunque da temere da un mondo che controlla, osserva e valuta tutto ciò che fate:

Si attinge sempre di più ai dati per trarre conclusioni su persone e gruppi. I dati personali di qualcuno potrebbero essere usati per il guadagno economico di altri, e questo solleva interrogativi nell’ambito della giustizia e delle libertà civili. L’attribuzione di un punteggio è un modo cruciale per decidere chi dovrebbe ricevere cosa in termini di merci e servizi, o chi potrebbe essere un sospetto o un criminale. Il punteggio viene attribuito usando algoritmi che processano dati personali per fare previsioni che potrebbero produrre una discriminazione negativa solo perché gli individui sono categorizzati come membri di un particolare gruppo sociale. Questo può influire sull’accesso alle cure sanitarie, al credito, all’assicurazione, alla previdenza sociale, agli istituti di istruzione, ai prestiti per studenti e alle possibilità di impiego. A sua volta ciò crea delle vulnerabilità, come essere presi di mira ingiustamente dalla polizia e dalle agenzie di sicurezza.

Il cerchio
Qualche tempo fa, l’amministrazione Trump ha aggiunto i profili social alle informazioni opzionali da inserire nel modulo per ottenere l’Esta (il visto online che possono ottenere alcuni paesi, tra cui l’Italia). Inevitabilmente, non avere un social o non voler inserirne il link (magari perché si sono postati contenuti anti Trump) potrebbe già oggi diventare motivo di sospetto e causarci ritardi, inconvenienti se non addirittura, potenzialmente, negarci l’accesso agli Stati Uniti. Non solo subiamo la sorveglianza altrui, e sorvegliamo costantemente gli altri, ma oggi cercare di sottrarsi a queste pratiche diventa motivo di sospetto.

Per dirla con le parole di Dave Eggers, che qualche anno prima, sul Guardian, aveva anticipato il rischio di un uso distorto del concetto di trasparenza: “ripensate a tutti i messaggi che avete mandato. A tutte le telefonate e le ricerche che avete fatto. Ce n’è qualcuna che potrebbe essere fraintesa? Ce n’è qualcuna che il prossimo McCarthy, il prossimo Nixon (…) potrebbe usare per danneggiarvi? Questo è l’aspetto più pericoloso e traumatico della situazione attuale. Nessuno sa con certezza cosa viene raccolto, registrato, analizzato e conservato, né come tutto questo verrà usato in futuro”.

Lo stesso Eggers, nel 2013, ha raccolto queste angosce nel romanzo Il Cerchio (uscito da noi per Mondadori, nella traduzione di Vincenzo Mantovani)ampiamente citato da Lyon. Eggers immagina un mondo in cui, al motto di “la privacy è un furto”, viene instaurata una “democrazia digitale obbligatoria” in cui tutti i cittadini sono sono costretti ad accettare di condividere le proprie vite sui social e indossare, sempre in nome della trasparenza, una microtelecamera che riprende ogni loro attività quotidiana. “Chi commetterebbe un reato sapendo di essere sorvegliato in ogni momento, dappertutto?” Una distopia travestita da utopia, come chiosa Lyon, che consiglia caldamente la lettura del libro di Eggers. Anche se oggi fatichiamo a vederla, infatti, l’unica alternativa alla cultura della sorveglianza non può che passare dal porsi nuove domande, dal coltivare nuovi immaginari:

Riconoscere il nostro mondo per quello che è costituisce un passo fondamentale. Rendersi conto che le cose non devono continuare così come sono oggi è il secondo. La dottrina dell’inevitabilità tecnologica è falsa, perché la tecnologia è un’impresa umana ed è determinata dalla società. Chi insinua che la tecnologia è una forza inesorabile e inarrestabile di solito è mosso da qualche interesse a impedire la resistenza o a negare il ruolo della agency umana. Vale la pena lavorare per le alternative del “bene comune” e della “prosperità umana”: un altro mondo è possibile.

 

di Andrea Daniele Signorelli

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FONTE: https://www.iltascabile.com/scienze/cultura-sorveglianza-lyon/


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