Più digitali, meno umani

7 settembre 2020

Dal 2019 le vendite di Amazon hanno superato quelle di Walmart, il più grande supermercato del pianeta. Con la pandemia, poi, sono cresciute in modo esponenziale, facendo di Jeff Bezos l’uomo più ricco del mondo con una fortuna personale stimata in poco meno di due miliardi di dollari. Nel luglio scorso, Amazon, Google, Facebook e Apple – con Microsoft, le prime cinque imprese tecnologiche del pianeta – sono state chiamate a rispondere all’accusa di utilizzare gravi scorrettezze e pratiche monopoliste contro i competitor minori, i clienti e i consumatori in un’audizione, durata diverse ore, di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Ne ricaveranno, probabilmente, poco più di un rimprovero e poi quella non è certo l’accusa più grave che si possa muovere al “capitalismo delle piattaforme” mentre sembrano crollare i nodi strutturali dell’economia, ma quelle accuse vorranno pur dire qualcosa per chi ha fatto una religione della “libertà del mercato”. In questo articolo, Aldo Zanchetta indica invece, anche grazie a pochi cenni di storia, alcune delle questioni cruciali che riguardano i pericoli insiti nelle relazioni umane con le tecnologie. Lo fa, in estrema sintesi, con un riferimento assai solido al pensiero illuminante quanto anticipatore di Ivan Illich. Un esempio? Nel lontano 1972 il Massachussets Institute of Technology stilò, su commissione del Club di Roma, un notissimo documento intitolato “I limiti dello sviluppo”. Invitava a mitigare lo sviluppo industriale per ridurre il consumo di risorse “non rinnovabili” e a realizzare il passaggio graduale a una economia basata sulle nuove tecnologie digitali, immateriali. Illich non era certo fautore di una società ad alta intensità di merci, ma dissentiva sostenendo che gli effetti che sarebbero derivati dalle tecnologie digitali sulle menti sarebbero stati più gravi di quelli materiali causati dalla produzione industriale. Parecchi anni dopo precisò il suo pensiero: a proposito del declino dell’era degli strumenti apparsi con l’uomo, sostituiti poco a poco dai sistemi, spiegò che se i primi erano come una protesi della mano, coi sistemi era l’uomo a divenire protesi

Negli anni ’70 del secolo XX gli “effetti collaterali” dello sviluppo cominciarono a farsi sentire pesantemente sull’ambiente, tanto che le Nazioni Unite nel 1983 crearono una apposita Commissione di studio, che nel 1988 pubblicò un preoccupante rapporto dal titolo “Our Commune Future”. Del problema aveva già preso atto da alcuni anni un gruppo di scienziati, imprenditori, intellettuali e politici, riuniti dal 1968 nel cosiddetto Club di Roma, che commissionò uno studio al MIT (Massachussets Institute of Technology). Erano gli anni della prima grande crisi del petrolio; delle ribellioni dal basso note poi come il ’68 studentesco; della crisi dell’economia dopo i 30 gloriosi (1945-1975) che avevano visto appunto l’industrializzazione crescere vigorosamente.

Le indicazioni del MIT, pubblicate nel 1972 col titolo “I limiti dello sviluppo”, furono: mitigare lo sviluppo industriale al fine di ridurre il consumo delle “risorse non rinnovabili”; limitarne gli effetti ambientali e realizzare il passaggio graduale a una economia basata sulle nuove tecnologie digitali, immateriali. Ivan Illich, intellettuale destinato di lì a poco a fare scandalo affrontando in modo radicale alcuni temi scottanti come i sistemi scolastici (Descolarizzare la società, 1971), la tecnologia (La Convivialità, 1973), la salute (Nemesi Medica, 1976), invitato a far parte del gruppo, si era negato con la motivazione che gli effetti che sarebbero derivati dalle tecnologie digitali sulle menti sarebbero stati più gravi di quelli materiali causati dalla produzione industriale, della quale, beninteso, era critico. Sul finire degli anni ’80 si rese conto del declino dell’era degli strumenti apparsi con l’uomo – sostituiti poco a poco dai sistemi. Se i primi erano come una protesi della mano, coi sistemi era l’uomo a divenire protesi.

Un esempio: il sistema dell’odierna comunicazione. La rete di internet con il suo sempre più fitto cablaggio (oggi sempre più wireless, senza fili), le sue cloud, ormai è una “rete neuronale” estesa mondialmente, ben oltre un normale sistema di comunicazione. Nell’ottobre 2002, per quella che doveva essere la sua ultima conferenza pubblica, Illich scelse come soggetto “La decisione personale in un mondo dominato dalla comunicazione”: l’eccesso di comunicazione stava paralizzando le nostre capacità di libera decisione. Egli soleva dire che per capire dove si dirige il presente non necessita una sfera magica, ma è sufficiente guardarsi intorno con attenzione. Nella macchina di Turing (1935), antesignana del futuro internet, egli aveva letto il futuro cyborg della persona umana. (D. Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, 1994).

Il computer, che nell’uso più semplice equivale a una moderna macchina da scrivere, quando viene connesso in rete diventa una macchina che ci spia, “estrae” i nostri pensieri, carpisce i desideri e li trasferisce nel Big Data da dove, in un processo di ritorno, grazie agli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, essi ci vengono restituiti opportunamente rielaborati. E ancora: i dati a noi estratti, uniti a quelli di molti milioni di persone, vengono classificati, “impacchettati” e rivenduti per le finalità più varie, dal marketing alle campagne politiche. Il caso più famoso è l’episodio della Cambridge Analytics, e nonostante le successive scuse e promesse di rispetto della privacy, il fenomeno continua, è notizia ANSA del 27 giugno che operatori “infedeli” di TIM hanno trafugato e venduto dati degli utenti della rete TIM.

Ivan Illich. Foto tratta da Discorso Comune

Per Illich, il digitale, ovvero la computazione, per usare il linguaggio dei transumanisti per i quali essa è il destino “inevitabile” inscritto nel nostro DNA, significava la scomparsa dell’umano, con «la gente (che) occupa sempre più un nuovo spazio cibernetico senza dimensioni. […] Il modo migliore per parlare di una persona moderna è quello di parlare in termini di organismo biologico cibernetico, il cyborg». Il cyborg, nella sua versione più elaborata, in parte uomo e in parte macchina, o addirittura chimera, in parte uomo e in parte altro essere vivente, come il liocorno delle favole medioevali o, arretrando nel tempo, le mitiche Amazzoni, metà donne e metà cavalli. Il filosofo spagnolo Jorge Jurgmann, in una appassionata perorazione, riferendosi al mondo prossimo dove le chimere saranno fra noi, dichiara “Io sto con la mia tribù”.

Un grande poeta, Giuseppe Ungaretti, con l’intuizione propria dei poeti, già nel 1953, invitato a scrivere un testo per il primo numero della rivista La civiltà delle macchine, si domandava: «Quale sforzo dovrà sempre più fare l’uomo per non essere senza amore, senza dolore, senza tolleranza, senza pietà, senza ironia, senza fantasia?». Ormai siamo prossimi alla singolarità tecnologica, il momento in cui le macchine spirituali, quali i supercomputer quantici, uguaglieranno l’intelligenza umana e ne diverranno indipendenti. Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, autore del libro “L’era delle macchine spirituali”, artefice principale di tale computer (ottobre 2019) nonché dell’ultima generazione dei nostri cellulari, asserisce che ciò avverrà nel corso della decade ora iniziata. L’intelligenza umana potrà così ibridarsi con quella delle macchine, e l’essere umano, presto non più differenziato secondo il vecchio concetto di genere, dominerà l’universo. E una volta trasferita in un chip la sua essenza – l’attività cerebrale, il pensiero – e posto questo su un robot, l’uomo finalmente privato del vincolo corporeo avrà raggiunto l’eternità, cibernetica beninteso.

“Follie”, dirà chi legge, “fantascienza”. Poco informato: è ormai notizia normale, direi mensile, la realizzazione in istituti universitari, di “dialoghi” fra neuroni naturali e neuroni artificiali, addirittura gli uni in Italia e gli altri in lontane università, connessi via internet. E quale sia la potenzialità della cibernetica, lo evidenzia il progetto per i nuovi vaccini, non più virus “addormentati” iniettati nel corpo umano, ma prodotti ex novo al suo interno (RNA o/e DNA vaccines), su istruzioni giunte via 5G ai chip applicati a 7,8 miliardi di persone (progetto ID2020 elaborato in collaborazione fra Organizzazione Mondiale della Sanità e Gavi, la Vaccine Alliance, società di investitori privati, mediate dalla Fondazione Bill&Melinda Gates). Gli intenti sono nobili, certamente, e la privacy promessa (perché il chip conterrà la storia medica personale del portatore). Ma potrebbe anche essere l’occasione (che come si sa fa l’uomo ladro) per un Panottico perfetto, digitale.

L’articolo che ci ha inviato Aldo Zanchetta è stato pubblicato anche in un dossier sul 5G del mensile l’altrapagina

 

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FONTE: https://comune-info.net/piu-digitali-meno-umani/


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