16 maggio 2020.
Appena calata l’attenzione sull’emergenza sanitaria, il sistema imprenditoriale e proprietario italiano ha deciso di passare al contrattacco con inusuale violenza. Giocano d’anticipo per farci pagare la recessione che verrà e per evitare che la loro crisi di legittimità si fissi in nuove pretese sociali. Ora, con l’approvazione del decreto Rilancio, i nuovi rapporti di forza vengono ratificati da un esecutivo preso in ostaggio dagli interessi privati.
Cominciamo già a vedere le prime avvisaglie di uno scontro campale che segnerà il nostro prossimo futuro. Non contro quel nemico invisibile – il virus – che continuerà probabilmente a circolare più o meno indisturbato nella nostra società, declassato a minaccia di minore entità. Quello che ci accompagnerà in questa lunga fase di transizione è un conflitto senza esclusioni di colpi con quel corpo agonizzante che è il sistema imprenditoriale e proprietario italiano.
Dopo aver per decenni succhiato senza alcun ritegno e contropartita le risorse pubbliche, condannato generazioni alla più totale precarietà e messo in ginocchio le istituzioni del Welfare, i nostri coraggiosi capitani d’impresa hanno cominciato a far sentire ancor più forte la loro voce. Sanno bene che il peggio deve ancora arrivare e si organizzano in grande stile per farcelo pagare. Ora che – con l’acquisizione diretta di “Repubblica” e satelliti – hanno tutto il sistema dell’informazione mainstream a loro disposizione, possono passare al contrattacco. E lo stanno già facendo. Le esternazioni del nuovo Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, assieme alle varie di voci che su quello stesso spartito hanno inondato in questi giorni gli interventi dagli scranni parlamentari e dai mezzi stampa hanno già monopolizzato il dibattito pubblico in vista del nuovo decreto governativo.
Ci avevano già provato in tutti i modi – nella fase critica dell’emergenza sanitaria – a cedere il meno possibile alle misure del lockdown, ma si erano dovuti contenere, almeno pubblicamente, di fronte ai dati drammatici dei decessi che il ritardo da loro imposto al blocco economico aveva contribuito ad innalzare. Nonostante ben il 44% della forza lavoro italiana non abbia mai smesso di lavorare, avevano in quel periodo aggirato tacitamente le misure di sospensione delle attività produttive facendo inserire nel Dpcm del Governo una norma che consentisse loro di riaprire prima del tempo le fabbriche, grazie a una semplice firma del prefetto di turno.
Oggi, una volta calata l’attenzione sull’emergenza sanitaria, tornano all’attacco con inusuale violenza per dettare al Governo le linee per il rilancio dell’economia e per ricordare che in Italia la libertà d’impresa comprende la licenza di uccidere, finanziamenti a fondo perduto e mani libere per scaricare nell’indigenza una forza lavoro a cui vogliono togliere anche le briciole per la sopravvivenza.
Tuttavia, questa nuova ferocia del discorso confindustriale italiano non è né improvvisa né isolata. Trova corrispondenti in quasi tutti i paesi del mondo dove le diverse varianti del fronte conservatore e neo-autoritario stanno forzando per una rapida rimozione dei blocchi alla produzione e alla circolazione, ovviamente in nome della libertà.
Questo ampio fronte si sta preparando a gestire la probabile seconda ondata epidemica e la sicura recessione economica imponendo nel dibattito pubblico l’idea che la vita della popolazione è in fin dei conti un costo troppo alto che un’economia di mercato possa permettersi di pagare.
In Italia, buona parte del sistema partitico sembra essersi dimostrato ben disposto a farsi trainare dalla nuova presidenza di Confindustria verso questi esiti. Con il “decreto Rilancio” il Governo Conte ratifica già le premesse che definiranno il “nuovo corso”.
A fronte di una strategia complessiva che – bene che vada – punta solo a guadagnare tempo, ritardando con politiche emergenziali e di mero contenimento il cataclisma sociale e occupazionale che la recessione porterà con sé, lo squilibrio di risorse e di trattamento a favore del mondo delle imprese è la traccia più evidente dei nuovi rapporti di forza che segneranno questa lunga fase di transizione: finanziamenti a fondo perduto e ingenti sconti fiscali per le imprese, soldi freschi da spendere a piacimento e senza alcuna condizione. Anche gli interventi di ricapitalizzazione da parte dello Stato avvengono nella più classica cornice della “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”. Ma tra tutte, è sicuramente la cancellazione della rata di giugno dell’Irap a condensare esemplarmente la logica di questo squilibrio.
Confindustria infatti è riuscita a far rimuovere dal Governo qualsiasi limite era stato inizialmente posto, per cui potranno beneficiare del maxi-sconto anche quelle le imprese con fatturato fino a 250 milioni di euro che si sono arricchite durante l’emergenza e per di più senza alcuna condizione sull’utilizzo dei soldi. Se si considera poi che la quasi totalità dell’Irap va a finanziare il sistema sanitario nazionale, dei 3 miliardi destinati alla sanità dalla manovra occorre contare i 4 che verranno a mancare per via del taglio di quell’imposta (a meno che la differenza venga colmata attingendo, unici in Europa, all’insidioso Mes). In questa modifica dei trasferimenti fiscali c’è però qualcosa di più di una partita di giro: c’è l’attestazione più evidente che il mondo delle imprese italiano, di fronte alla più grande emergenza sanitaria del secolo, viene meno alla sua responsabilità istituzionale nei confronti del sistema del Welfare pubblico, intascandosi i soldi e lasciando lo Stato e la collettività a colmare i vuoti.
Eravamo partiti con il dibattito sullo Stato “innovatore” e programmatore e ci ritroviamo con una bieca forma di assistenzialismo a favore dell’élite imprenditoriale italiana.
Ultima in ordine di tempo, ma sulla stessa direttrice, è la sfacciata richiesta della Fca di una garanzia statale su un prestito di 6 miliardi chiesto a Banca Intesa con cui si segna il glorioso ritorno al saccheggio statale di antica memoria Fiat da parte di una società che non paga le tasse in Italia e che ha infauste prospettive di mercato.
Del resto, in luogo di una vera e propria strategia, l’impianto complessivo della misura sembra esser stato piuttosto l’esito di compromessi tra gruppi in competizione, con le innumerevoli “cabine di regia” a funzionare come camere di compensazione tra interessi concorrenti: alla linea aggressiva di Confindustria orientata a difendere le imprese più esposte all’export, si è sommata quella delle Regioni, preoccupate di sostenere il commercio interno per mantenere la propria base elettorale; al pregiudizio lavorista del Partito Democratico si è aggiunto l’opportunismo razzista dei Cinque Stelle. È stato in questo quadro scomposto che l’offensiva padronale ha trovato il terreno per imporsi.
Tutto questo è avvenuto in un momento storico nel quale la rivalutazione politica del Welfare pubblico si poneva al centro delle rivendicazioni che provenivano dalla società. La pressione crescente dell’opinione pubblica e dei lavoratori che all’inizio del contagio hanno incalzato il Governo e le Regioni per adottare misure di confinamento mentre buona parte della classe politica e industriale minimizzava la gravità della situazione, si sono saldate con le proteste del personale sanitario che mentre reggeva da solo l’onda d’urto investiva gli ospedali, denunciava la carenza di dispositivi di protezione e la strutturale incapacità del nostro sistema sanitario di fare fronte all’evento epidemico.
Si è reso visibile in quei giorni quanto l’intero funzionamento dell’economia dipendesse da una forza lavoro relegata ai margini del dibattito politico, invisibile, precarizzata e sottopagata e che una società ha la possibilità di salvarsi solo grazie a quelle stesse istituzioni collettive dissanguate e debilitate nei decenni precedenti.
È di fronte a questo ribaltamento nell’ordine di priorità che bisogna commisurare le tiepide misure di rifinanziamento del Welfare, in particolare della Sanità e della Ricerca. Queste intervengono come una forma minima di risarcimento per colmare quei buchi strutturali che la pandemia aveva mostrato come non più sostenibili. A fronte della necessità di un piano di riorganizzazione complessiva della fiscalità, del Welfare e del sistema della protezione sociale, il decreto del Governo prova semplicemente a contenere gli effetti immediati della crisi sociale, con una giustapposizione di interventi contro la povertà e la disoccupazione – tutti temporanei e di piccola entità – che sembrano servire solo a mantenere la frammentazione e a scongiurare il rischio di coalizioni tra la forza lavoro. Quando l’emergenza si concluderà lasciando il campo alla recessione economica, le imprese avranno tutta la libertà di scaricare i lavoratori senza ormai più nessuna rete di protezione.
Del resto, questo è stato l’esito preparato dalle pressioni del blocco imprenditoriale e proprietario italiano che ha deciso, con la Fase 2, di assumersi direttamente il ruolo di controparte politica dell’esecutivo.
L’obiettivo è stato fin troppo evidente: assaltare la diligenza dei nuovi fondi europei per la ricostruzione dell’economia, bloccando preventivamente la possibilità che la difesa e il reinvestimento sulle istituzioni del Welfare si traducessero in una messa in discussione dei rapporti tra il pubblico e il privato e che le misure estemporanee e insufficienti per il contenimento della povertà e della disoccupazione alludessero pericolosamente a un sistema di protezione sociale incondizionato e universale.
Per loro la partita è chiara ed epocale: bisogna scongiurare che la crisi di legittimità del neoliberismo che l’emergenza Covid ha reso palese in settori sempre più ampi della popolazione, si fissi in nuove pretese e nuovi rapporti di forza nella società. Di fronte a questa minaccia, hanno iniziato l’assedio all’esecutivo, e dobbiamo sapere che saranno disposti a tutto.
Quanto i movimenti sociali sapranno incarnare quella minaccia è difficile da dire. Quel che è certo è che dovranno intercettare quella difesa dell’interesse pubblico cresciuta in questi mesi e lasciata inevasa dalla strategia claudicante di un esecutivo preso in ostaggio dagli interessi privati. In assenza di un’iniziativa a questa altezza, che sappia cogliere nel nuovo protagonismo confindustriale l’esigenza di un’altrettanta radicale ambizione politica, quella tensione verso un cambiamento profondo rischia di rimanere sopraffatta dall’offensiva dell’avversario. Del resto, coloro che avevano previsto che l’evento pandemico avrebbe d’un colpo messo in discussione il neoliberismo e “cambiato tutto”, hanno con troppa facilità dimenticato che i cambiamenti passano per i rapporti di forza e che la forza va organizzata concretamente.
Le molte campagne politiche e le iniziative di intervento mutualistico che si stanno producendo in questi giorni in tutta Italia vanno già in questa direzione, definendo un nuovo programma di rivendicazioni e una nuova concezione del Welfare. Ma soprattutto stanno, in nuce, delineando convergenze inedite con i lavoratori del settore pubblico e privato e con l’utenza dei servizi espulsa dal circuito della sopravvivenza. Solo l’ampliamento e il consolidamento di un’alleanza di questo tipo potrà indicarci, nella lotta di classe scatenata dal nemico, qual è la nostra parte e la nostra voce.
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LINK ORIGINALE: https://www.dinamopress.it/news/la-voce-del-padrone-la-nostra/