Politica del dato, discorso pubblico e forme della sorveglianza

Il patto sociale dell’epidemia

Una epidemia, in un contesto umano, non rappresenta soltanto un fenomeno naturale, ma è anche e soprattutto un fenomeno sociale: come la società, e in particolare il sistema sanitario, è arrivata pronta o meno di fronte alla crisi della Salute pubblica; come la classe dirigente gestisce l’emergenza, come la società civile reagisce, il grado di percezione e l’immaginario dell’opinione pubblica: in sostanza, nella mediazione tra malattia, individui e gruppi operata da Stato, governo, capitali finanziari e industria.[1] In questo processo, centrale diviene il sapere medico, la cultura di organizzazione della sanità pubblica e il suo orientamento economico.[2]

Ciò che rende più o meno letale un virus non sono solo le caratteristiche sue proprie, ma anche il sistema di protezione che la società organizza nei confronti dei suoi membri in quanto corpi e organismi biologici.

La pandemia Covid-19 sarebbe dovuta rimanere una epidemia più virale e letale dell’influenza stagionale, con effetti lievi sulla grande maggioranza della popolazione, e molto seri solo su una piccola frazione di essa. Invece – se consideriamo in particolare alcuni Paesi europei e gli Stati Uniti – lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici.[3]

A rivestire un ruolo fondamentale nella mediazione è il piano comunicativo, utile a legittimare le diverse forme della sorveglianza e del distanziamento sociale che inevitabilmente il governo applicherà. Ma come è costruito il discorso politico e tecnico che racconta giorno per giorno l’andamento della malattia e che viene poi ripreso, a cascata, da social network e grandi media? Alle ore 18 il paese si ferma. La comunicazione del bollettino della Protezione Civile e dell’Istituto Superiore di Sanità è diventato il rito laico del discorso pubblico nello stato d’emergenza epidemiologica.

Dall’inizio dell’emergenza abbiamo assistito a un cambio nella retorica pubblica, in un crescendo di aggressività e paternalismo di Stato verso la popolazione, in parallelo con l’inasprirsi delle misure di contenimento e la consapevolezza (arrivata troppo gradualmente e a un prezzo troppo caro) delle falle e degli errori commessi dalla classe dirigente nelle prime due settimane. La narrazione avviene in modo gerarchico e verticale, producendo i riverberi che poi vengono ripresi da social network e media.

Per rafforzare un racconto di “guerra” dove l’individuo (libero di esprimersi) diventa soldato (esegue degli ordini) la comunicazione del dato viene usato come spauracchio o elemento giustificatore di politiche di sorveglianza sempre più restrittive e permanenti. Il dato viene inserito in una cornice narrativa dove al senso di responsabilità e al sacrificio di chi sta in prima linea – personale medico-sanitario – in primis, si contrappone non una organizzazione produttiva, ad esempio, che ha mantenuto e continua a mantenere grossi assembramenti di persone non necessari, ma l’irresponsabilità dei comportamenti individuali. L’immagine del sacrificio è infatti riportata a più soggetti: i medici, appunto; i lavoratori che fanno andare avanti la produzione; i cittadini che restano in casa.

L’epidemia, come ogni situazione emergenziale in cui è a rischio la salute collettiva – e noi non dubitiamo di trovarci esattamente in questa situazione –, fonda un nuovo, sebbene in teoria temporaneo, patto sociale, caratterizzato inevitabilmente da maggiore disciplinamento sociale; tuttavia il profilo di questo dipenderà dal regime politico e dal contesto in cui scoppia l’emergenza, come già detto. Da noi, il garante del patto, che i sacrifici e le misure di sicurezza necessarie a tutelare tutti, a partire dai più deboli, vengano rispettati non è il ruolo proattivo della società e dei corpi intermedi, ma il braccio repressivo dello Stato: Forze dell’Ordine, militari, polizie locali.

Quando il piano del patto sociale epidemiologico è sbilanciato più sulla sorveglianza che sulla solidarietà ed eguaglianza sociale allora il rischio è che si verifichi un fenomeno che i sociologi, prendendo in prestito il termini dalla fisica, chiamano isteresi: detto anche fenomeno di ereditarietà, per cui il valore istantaneo di una grandezza che è determinata da un’altra dipende non soltanto dal valore di questa allo stesso istante, ma anche dai valori che essa ha avuto in istanti precedenti. Tradotto in termini più semplici: la forma di un corpo, sottoposto a una determinata pressione, rimane deformata anche successivamente al termine della pressione.

Sbatti il dato in prima pagina

La narrazione dei dati assume dunque una doppia funzione: da un lato, giustificare una certa forma di sacrifici (quella permessa dal governo e dai mercati), distogliere l’attenzione dall’organizzazione sociale e concentrarla, in una ottica di comportamentismo radicale, sui singoli irresponsabili – i runner, i passeggiatori irriducibili, i genitori che portano fuori i figli, chi va a fare la spesa per “pochi euro” e così via in un elenco dal sapore sempre più grottesco – che determinerebbero, con la loro influenza sugli altri, ampie variazioni nella statistica dei grandi numeri; dall’altro, ricordare che <<un prerequisito della libertà è la salute fisica>>[4], e dunque tutte le limitazioni sono legittime se ci troviamo in una “guerra contro un nemico invisibile”.

Ma di che dati stiamo parlando? Davide Mancino, su InfoData del Sole 24 Ore[5], ci ricorda che per interpretare correttamente i numeri assoluti comunicati quotidianamente nel bollettino delle 18

Dobbiamo però tenere a mente che già in tempi normali raccogliere informazioni da fonti diverse a un ritmo così sostenuto, metterle insieme in forma sistematica e senza errori non è per nulla facile. Le difficoltà si moltiplicano poi in una situazione di grave crisi come quella in cui ci troviamo.

Inoltre, citando una ricerca del Centre for the Mathematical Modelling of Infectious Disease[6], gruppo multidisciplinare alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, in Italia appena il 4,7% dei casi reali di contagio da Covid-19 sarebbe stato individuato dalle autorità. Questo, se da un lato dunque restituisce una dimensione molto più imponente all’epidemia, dall’altro lato però riporterebbe anche alla realtà l’allarme circa la più alta mortalità che in media il virus registrerebbe da noi rispetto ad altri paesi – anche se bisogna aggiungere che altri due fattori incidono nella percentuale di decessi: la struttura demografica della popolazione, a partire dall’età; la maggiore pressione cui sono sottoposti gli ospedali in questa emergenza, fatto che abbassa la soglia di cura dei ricoverati.

Prendere consapevolezza di questo dato aiuterebbe anche a controllare meglio la comunicazione, le reazioni dell’opinione pubblica e la gestione stessa della malattia: quando infatti, il governatore lombardo Fontana dichiara di stupirsi per l’aumento di ammalati registrato in Lombardia, senza considerare ad esempio la correlazione con il numero di tamponi effettuato, tradisce anche una profonda ignoranza e competenza in termini di data literacy.

Infografica ripresa da InfoData24

In secondo luogo, un’altra avvertenza che ci arriva dai ricercatori, ci aiuta a decostruire la stessa cadenza quotidiana del bollettino di Protezione civile e ISS: fra la conferma di un caso e un decesso passa necessariamente diverso tempo, in media 13 giorni, secondo le stime del gruppo; e anche questo va tenuto a mente: i numeri che guardiamo oggi sono in realtà una foto scattata circa due settimane fa. E a questo proposito, aggiungiamo il secondo punto, quello dei decessi: come dimostrato da un’inchiesta de L’Eco di Bergamo[7] e denunciato anche dall’associazione dei medici di base bresciani, un metodo sistematico per calcolare la reale mortalità causata dal Covid-19 in un territorio non può basarsi sui solo decessi ufficiali, ma dovrebbe operare la differenza tra la loro media statistica, poniamo, degli ultimi 10 anni e il numero registrato nel periodo in cui è scoppiata l’epidemia. Dopo le prime settimane di silenzio e reticenze, la pressione da parte della società civile ha ottenuto che l’ISTAT[8] e il Sistema di sorveglianza sulla mortalità giornaliera (facente capo al Ministero della Salute) pubblicassero le statistiche sui decessi. Il risultato, se da un lato ha resto più profondi il lutto e il trauma sociale[9], ha però posto come centrale la questione del sommerso: mortalità effettiva, dinamiche del contagio e necessarie misure di solidarietà con tutti gli esclusi, per qualunque ragione, dal dato ufficiale. E, come dimostrato dalle recenti aperture di indagini sull’ospedale di Alzano Lombardo e sulle Residenze sanitarie per anziani, fare luce sul sommerso significa anche evidenziare le gravi mancanze nella gestione politica dell’epidemia e le responsabilità nella subordinazione, dalla Regione Lombardia al Comune di Milano, della salute pubblica alle pressioni di Confindustria e Confcommercio.

Ad ogni modo, anche ad applicare le dovute correzioni di calcolo e di analisi, resta che vivremo in ogni caso in una illusione di precisione. E’ il punto forse più importante, che ci conferma una volta di più del carattere del dato come costrutto sociale: questo infatti è cosa si sceglie di comunicare, ma anche come si sceglie di raccoglierlo. A proposito dei dati comunicati dalla Protezione Civile, che giustificherebbero la transizione verso la fase 2, con allentamenti previsti dal 14 aprile per le attività lavorative, in un post su Facebook dell’11 aprile, ha notato giustamente il giornalista Daniele Raineri che

Siamo troppo in là con i giorni di lockdown, lo stessa percentuale di crescita che una settimana fa [5 aprile, NDA] ci faceva dire “le cose stanno andando meglio” oggi apre una questione. Abbiamo bisogno di nuovi dati, quelli che ci arrivano dalla Protezione civile sono troppo opachi. Età media dei nuovi contagiati? Uscivano per lavorare o erano in lockdown? Avevano familiari o persone in casa infetti? Hanno usato i mezzi pubblici? Hanno notato i primi sintomi una, due, tre settimane fa? Sono dati anonimi e facili da raccogliere. Soprattutto sono dati che dovrebbero essere comunicati a un paese che va verso i quaranta giorni di restrizioni della libertà personale. Comunicare soltanto quante persone sono in terapia intensiva regione per regione comincia a suonare condiscendente, devi comunicare qual è il problema di trasmissione del virus oggi.

E in un post del giorno successivo:

I dati non sono falsi, sono parziali. In alcune categorie sono precisi e utili. In altre categorie hanno soltanto una vaga relazione proporzionale con la realtà. Ne servono molti di più e scomposti meglio. A cominciare dai tamponi. Il numero dei tamponi di controllo (quelli per sapere se se i malati già accertati sono ancora malati oppure no) va separato dai tamponi che scoprono nuovi positivi.

Che la precisione sia reale o meno è secondario rispetto a quella necessità di chiarezza che la società sviluppa quasi con morbosità quando viene posta violentemente di fronte alla complessità del mondo[10]: è meccanismo tipico delle crisi, come aveva già notato Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, e come sembra ancora più presente in questa nuova fase della crisi globale che ci costringe a una ossimorica separazione iper-connessa e all’overdose informativa.

Al tempo stesso, la narrazione del numero assoluto è al centro dell’altro livello della macchina del consenso, quello contro i comportamenti individuali che parte da decreti e ordinanze dei governanti e viene poi rinforzata in questo caso da telegiornali, quotidiani e social network. Se infatti mettiamo il giro di vite alla prova dei dati (spostamenti, traffico web, percentuale violazioni ordinanze) non sembra giustificato l’attacco retorico e giuridico verso la popolazione. Alcuni casi a titolo di esempio:

  • Il numero di controlli nel periodo 9-27 marzo nella Città Metropolitana di Milano è 222.757, di cui le violazioni delle ordinanze è 5166, ovvero il 2,3%; numero che si abbassa ancora di più a Milano città (circa 1,5%). Mentre sulle attività commerciali si rasenta lo 0%;
  • A livello nazionale, il numero di controlli al 23 marzo è stato di circa 2 milioni con violazioni del 4,6%;
  • Sabato 4 aprile il Corriere della Sera apriva la prima pagina con il titolo Troppi fuori casa, più controlli e a pag. 2, annunciando un presunto <<boom di sanzioni>>, riportava che giovedì 2 aprile queste erano state quasi 7.659 su un totale di 246.829 controlli (quindi 3,10%) – a Milano 369 su 17.639 (2%). La settimana successiva si confermava il trend, con 18497 controlli il 10 aprile e appena 4 denunce;
  • Secondo l’osservatorio dell’Università di Bergamo Covid-19&Mobility[11], la maggioranza dei movimenti delle persone è dovuto a motivi lavorativi o di sopravvivenza (fare la spesa, andare in farmacia), come dimostra il picco delle persone a casa nei fine settimana (77% il 28-29/3 e 83% il 11-12/4) e una media infrasettimanale del 65%.

Eppure, nonostante una tendenza complessiva di rispetto della quarantena, come ha sottolineato in più occasioni Luca Casarotti[12] è aumentato l’utilizzo del codice penale e delle misure punitive per indurre gli individui ad atteggiamenti e movimenti leciti. Tale uso appare sempre più non solo ai limiti della costituzionalità, ma legate a fini di rinforzo negativo (“non comportarti in un certo modo”) e costruzione di un immaginario coerente con l’azione governativa – e la inazione e confusione – più che con la reale applicazione di questo nuovo diritto d’emergenza sanitaria, le cui diverse parti (decreti e ordinanze) assume sempre più il carattere di <<oscuri proclami>>[13], difficilmente interpretabili e che possano trovare riscontro nella prassi sanzionatoria[14].

A Milano la prefettura porta a 165 i militari impiegati nei controlli (278 in Lombardia), gli vengono affidati a livello centrale poteri di ordine pubblico insieme alla polizia locale; Beppe Sala e Attilio Fontana lanciano un nuovo piano di sicurezza urbana chiamato Smart 2020 per aumentare controlli su rispetto ordinanze e misure di distanziamento, attraverso più agenti sul territorio e utilizzo telecamere ed elicotteri; i governatori regionali e i sindaci assumono sempre più il personaggio di uomini soli al comando; il governo avvia i prossimi passi di monitoraggio via app di movimenti e comportamenti della popolazione (più che di contenimento dell’epidemia), in un generale “rinserrare le fila” dai toni militaristi – che però pare non riguardare, in perfetta coerenza con il modello culturale neoliberale, la libertà d’impresa dei padroni del sistema produttivo.

Covid-19&Mobility, aggiornamento del 13 aprile

Forme del controllo: il capitalismo della sorveglianza

C’è un fenomeno che viaggia in parallelo a quello delle restrizioni previste dal patto sociale dell’epidemia, relativo al processo di digitalizzazione accelerata che le società stanno vivendo a causa dell’emergenza e pare vivranno sempre più nel contesto di sempre maggiore incertezza che sembra dominare un futuro caratterizzato dalla prevista convivenza del genere umano con questa e possibili nuove, devastanti epidemie. Sul tema della percezione dell’incertezza torneremo in chiusura.

Questa è infatti la prima pandemia dell’età dell’informazione e del digitale. Il distanziamento sociale, come necessaria misura di profilassi, ha rivelato la centralità della relazione umana e del corpo anche nel finanzcapitalismo e nell’era dell’automazione produttiva. Perché l’economia non crolli serve che le persone continuino a consumare, lavorare, spostarsi, produrre, vendere, divertirsi. Ma, per l’economia politica dell’epidemia, non è necessario che si incontrino. Fin dalle prime settimane, quando in sequenza sono state chiuse scuole, uffici, luoghi di ritrovo e aggregazione, per passare poi alle limitazioni di spostamento e divieti di assembramento, tutti hanno cercato di avviare una riorganizzazione a distanza delle proprie attività.[15] Interi settori del mondo del lavoro e delle relazioni sociali sono stati ridisegnati per poter sopravvivere e garantirsi continuità nelle forme del digitale.[16]

Come dimostrato dai dati sull’andamento dei mercati degli ultimi 40 giorni, mentre l’economia internazionale è bloccata e sull’orlo di una recessione senza precedenti, le cosiddette big tech aumentano il loro volume di affari[17]: Amazon (vendita online cresciuta di 9 volte), Apple (media internazionale di scaricamento giochi +40%), Google, Facebook, Microsoft, ma anche Netflix, Disney+, Zoom e tutti i loro servizi correlati sui piani chat, videochiamate, social network, piattaforme didattiche, cloud e archivi digitali. Al tempo stesso, il Milan Internet Exchange (MIX), che registra il traffico web complessivo, riporta che questo è passato 0,73 a 1,1 terabyte/secondo da febbraio a oggi.[18]

Statistica annuale del Milan Internet Exchange su traffico internet

Che conseguenze ha tutto questo? Riportiamo di seguito alcuni esempi, relativi a diverse aziende protagoniste dell’attuale digitalizzazione accelerata.

Google ha offerto al MIUR, come in altri paesi, mail per i docenti con spazio illimitato e piattaforme per l’istruzione telematica (G Suite for Education, Hangouts Meet e/o Google Classroom). Lo stesso è accaduto con Microsoft. La privatizzazione avviene su un doppio canale: l’infrastrutturazione digitale gestita da operatori privati, imponendo l’utilizzo delle loro piattaforme proprietarie, verso cui la scuola pubblica si pone in termini di subalternità e dipendenza; il rapporto docente-studente, mediato da canali che anzitutto sono mezzi di estrazione dati. Non sono accuse aleatorie, ma che hanno anche una recente storia processuale e di conflitto nella dimensione dei diritti civili negli Stati Uniti e in Germania[19], che hanno portato alla luce un vero e proprio sistema di profilazione di minori e loro famiglie, il più grande della storia finora noto. Il piano della didattica offre un buon campo per studiare come il gigante di Mountain View e il suo concorrente Microsoft (MTeams ha registrato +775% nell’utilizzo) operano in tutti i loro servizi, compresi i motori di ricerca e quelli di cloud computing o videoconferenze che si stanno diffondendo in modo esponenziale nelle aziende.

Oppure, ancora più eclatante il caso di Zoom (che ha registrato +101% del valore in borsa dal 31 gennaio al 23 marzo), di cui è emerso che condivide i dati con Facebook, senza dichiararli nell’informativa sulla privacy e indipendentemente dal fatto che si abbia o meno un account Facebook. I dati condivisi con la piattaforma di Zuckerberg includono il modello di iPhone o iPad, il fuso orario, la città, l’operatore telefonico e un identificatore univoco che può essere utilizzato per il targeting degli annunci.

Amazon, il cui ex responsabile dei servizi ha definito <<la nuova Croce Rossa>> per l’aumento di 9 volte nella vendita di medicinali, ha una conoscenza approfondita[20] non soltanto della tua cronologia di acquisti e dei tuoi gusti, ma anche eventuali malattie, passioni, tendenze; ha accesso alla “firma digitale” del tuo browser; lo storico dei tuoi indirizzi, numeri di telefono e delle fasi della tua vita; la tua rete di relazioni sociali; applica perfino un programma di affective computing[21]per riconoscere le modalità con cui scrolli la pagina, il tempo di scelta di un prodotto o di una categoria, i ripensamenti, il cambiamento di ciò che ti piace.

Infine, Netflix[22], che in Italia ha registrato +66% download dall’inizio della quarantena, dentro cui batte il più grande cuore di big data mai realizzato nell’ambito dell’industria cinematografica. Come evidenziato da chi ha studiato i meccanismi di rating e il sistema algoritmico della piattaforma di streaming, l’obiettivo nel brevissimo termine è consigliare il cliente, ma nel medio-lungo periodo decidere cosa produrre e distribuire. E’ un vasto sistema di monitoraggio e, vedremo tra poco come, modifica dei comportamenti e delle preferenze.

L’epidemia poi rappresenta un’ulteriore forma di intervento e data mining attraverso questi operatori, come dimostrano le analisi della società Almawave (del gruppo AlmaViva, specializzata in tecnologie di speech e text recognition) su stati d’animo e sentimenti degli utenti Facebook rispetto all’emergenza che stiamo vivendo o l’avvio da parte della Food and Drug Admnistration di terapie digitali per curare, tramite app, disturbi del sonno e altre patologie legate alla condizione psicologica della quarantena.[23] Così come le attività di The Fool[24], gruppo specializzato nello studio dei dati testuali raccolti dai principali social network per comprendere l’impatto emotivo e la percezione pubblica di informazioni e notizie, al servizio di aziende e mondo economico – e, notizia di questi giorni, anche tra le consulenze richieste dal governo rispetto alle misure di contenimento.

Qual è la cornice in cui avviene tutto questo?

Di fatto, oggi come non mai l’ordine e la logica economica definiti del capitalismo della sorveglianza[25] hanno la possibilità di impossessarsi di tutto ciò che era rimasto finora escluso o soltanto parzialmente toccato dalle dinamiche del data tracking e conseguente estrazione della materia grezza che, successivamente lavorata e venduta in migliaia di pezzi e per centinaia di migliaia di volte al secondo, fornisce la base dell’accumulazione per le big corporation del web e non solo. Anche quei paesi con un bassa densità di digitalizzazione si trovano costretti, a causa dell’epidemia, a colmare il ritardo. Come però ormai sappiamo, la logica economica della sorveglianza non ha solo l’obbiettivo di accumulare e vendere quel genere di informazioni che rientrano nella categoria della privacy, né lo fa per alimentare le dinamiche della pubblicità e della vendita tradizionali.

Da un lato, infatti, si punta a raccogliere non soltanto informazioni riguardo le ricerche che vengono svolte su internet, ma l’intera gamma di reazioni e modalità con cui le persone interagiscono sul web, per ricostruire attraverso algoritmi la complessità dell’esperienza individuale e gruppale che ha proprio negli spazi della rete un perfetto contesto di osservazione, apprendimento e modifica:

Beni e servizi sono semplicemente al servizio della sorveglianza. Non è l’automobile che conta, ma i dati comportamentali che procura; non è la mappa che conta, ma i dati che derivano dalle interazioni con la mappa. L’ideale di base è la continua espansione dei confini della descrizione del mondo e di quel che contiene, incessantemente.[26]

In secondo luogo, questa vastità di dati – che i teorici del capitalismo della sorveglianza chiamano surplus comportamentale – non serve solo a vendere ciò che già esiste o che è stato prodotto. Hal Varian, da molti considerato l’architetto della googlenomics, ha espresso il grande ostacolo che le corporation dell’hi-tech stanno cercando di superare: tutti i dati del mondo possono solo misurare la correlazione, e non la causalità. I dati dicono cosa è successo ma non perché[27]. La sfida dunque è trovare la correlazione causale – o una sua categoria interpretativa –, costruire dei nessi, prevederli, riprodurli e modificarli. E’ la realizzazione dell’antico sogno/profezia del giornalista informatico Mark Weiser che nel 1991 scrisse il testo The computer for the 21st Century in cui teorizzava appunto il concetto di computazione ubiqua come futuro digitale.

E qui ritorna quanto abbiamo già osservato sopra a proposito del carattere sociale del dato: perché la computazione – inteso come processo di registrazione, monitoraggio, analisi, apprendimento e riproduzione intelligente – possa funzionare, è necessario che il mondo e la vita siano appunto computabili; quindi non soltanto strumenti e mezzi di raccolta e comprensione (dai nostri smartphone, devices e comportamenti online fino al ristretto “clero” di scienziati di A.I.), ma anche categorie interpretative che spieghino i dati e le correlazioni che si stanno osservando. Nel caso degli studiosi di intelligenza artificiale che si concentrano sui processi di mining reality, queste sono date da quelle elaborate in decenni dalla psicometria, dai teorici del comportamentismo, dall’antropologia economica neoliberale, dalla linguistica e dalle neuroscienze. Questa nota ci sarà utile più avanti.

Il risultato, attualmente, è quello che Derrick De Kerchove, considerato un guru della cultura digitale, ha descritto pochi giorni fa come la creazione di un doppio digitale per ogni essere umano connesso:

Tutti i dati che si lasciano in rete sono ordinati, elaborati e analizzati per fornire informazioni, consigli e obblighi. Il doppio digitale è una rappresentazione della persona fisica che agisce nei diversi contesti, ricordando tutto. Questo “machine learning personale” può diventare un liberatore o un grande inquisitore.[28]

Ora, in tempi di distanziamento sociale come obbligo di sopravvivenza, piuttosto che affermare che il nostro modo di vivere cambierà sarebbe forse più corretto dire che subiremo uno sbilanciamento verso le abitudini già esistenti che passano da questo doppio digitale – le cui infrastrutture operazionali e architetture della scelta sono di proprietà dei colossi privati della sorveglianza. Una pubblicità su Spotify diceva: <<E’ bello poter scegliere, ma perché farlo quando puoi avere tutto?>>. Obiettivo dichiarato di Google è <<organizzare tutta la conoscenza del mondo>>; quello di Facebook<<connettere tutti, capire il mondo, costruire l’economia della conoscenza>>[29]. Se la nostra persona in carne e ossa è costretta alla separazione dagli altri e il nostro io digitale è costantemente tracciato, monitorato, entro uno scenario chiuso (per quanto vasto), il disassembramento appare davvero totale.

Forme del controllo: l’epidemia e il rischio di un nuovo complesso militar-industriale

Torniamo adesso all’intreccio tra gli elementi cardine del capitalismo della sorveglianza e la politica del dato di cui abbiamo parlato nel secondo paragrafo.

Lo 0% nelle violazioni delle ordinanze o nelle sanzioni è matematicamente impossibile. La cultura che sembra fare da sfondo, come anticipato in apertura, è molto simile a un comportamentismo radicale applicato alla sfera politica: la società non esiste, ci sono solo pattern di comportamentali che possono essere indotti e corretti[30], secondo il principio della mente-alveare tanto cara agli analisti della rete e delle dinamiche sociali, secondo cui la natura umana è principalmente quella di essere homo imitans. Un brevetto Microsoft depositato nel 2013, aggiornato e registrato nel 2016, era significativamente intitolato Monitoraggio del comportamento dell’utente su un dispositivo computerizzato: finalizzato alla costruzione di un modello predittivo dei comportamenti, prevede la produzione di una applicazione utilizzabile in diversi tipi di dispositivi, per monitorare costantemente i dati comportamentali di un individuo – conservati in server privati senza scadenza. Al suo interno si ritrovano concetti sovrapponibili a quanto sottinteso nell’attuale comunicazione sulla pandemia:

Il comportamento può essere valutato in relazione alla distribuzione statistica dei comportamenti normali e/o accettabili di un membro medio di una popolazione. […] Una deviazione statistica significativa dalla norma indica una serie di possibili eventi psicologici.[31]

Fin dall’inizio dell’emergenza sanitaria, molti paesi nel mondo hanno avviato progetti di monitoraggio e mappatura del contagio, sia ufficialmente che clandestinamente, utilizzando app specifiche o sorvegliando gli spostamenti grazie all’utilizzo dei big data. Le modalità del famoso contact tracing variano da paese a paese, in base a una serie di variabili: chi opera la sorveglianza e attraverso quali strumenti (gli apparati di sicurezza dello Stato in modo diretto oppure appoggiandosi alle informazioni in possesso delle big tech); chi viene monitorato e come (sorveglianza di massa oppure sorveglianza specifica sui contagiati ufficiali e la loro rete relazionale a 6 gradi di separazione). Alla base vi è comunque sempre l’input e la regia centrale del governo.

Non mettiamo qui in forse l’indubbio valore aggiunto che la rete può portare alla lotta contro il Covid-19 e in difesa della salute pubblica. Bisogna tuttavia precisare che in maggioranza le forme finora sperimentate non sono state focalizzate sull’obiettivo specifico del monitoraggio sanitario. Fatto salvo il famoso “modello Corea del Sud” – contrapposto al negativo, perché autoritario, modello cinese –, di cui si è tanto parlato in Italia ed Europa come applicazione democratica e liberale della sospensione per motivi straordinari delle norme fondamentali della privacy così come prevista dal GDPR UE.[32] Anche qui da noi, dopo un primo monitoraggio generico degli spostamenti operato in primis dalla Regione Lombardia tramite dati delle celle telefoniche, il primo decreto Cura Italia ha previsto l’istituzione di una task force di 74 esperti[33], in capo al Ministero dell’Innovazione per individuare una app al monitoraggio del contagio. Al bando lanciato hanno partecipato in 317.

Nel frattempo sempre la Regione Lombardia, nella competizione politica in corso con Roma, che tende molto a coprire o far dimenticare le responsabilità della maggioranza verde-azzurra che ha distrutto il sistema sanitario lombardo negli ultimi 30 anni, ha lanciato la sua app personale a supporto della Protezione Civile: si chiama allertaLOM e in pochi giorni ha superato i 300mila download su Apple Store e Google Play. Funziona in forma di questionario da compilarsi volontariamente una volta al giorno, per condividere e tenere monitorata il proprio stato di salute. Al momento non appare chiaro chi la starebbe utilizzando, se le fasce d’età e quelle sociali più a rischio, né le modalità di conservazione e utilizzo dei dati.

Sul progetto governativo la ministra per l’Innovazione, Paola Pisano, durante un’audizione alla Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera del 7 aprile ha dato le prime, generiche indicazioni circa il funzionamento dell’applicazione: sarà volontaria; utilizzabile solo per scopi medici legati al Covid-19, gestita con codice open source; verrà affidata a uno o più gestori pubblici non precisati; i dati trattati verranno resi “sufficientemente anonimi” e distrutti, nella loro forma individuale, dopo un periodo indefinito (“terminata la pandemia”), per essere poi rielaborati in forma aggregata a fini statistici. Non c’è ancora dunque una risposta alle variabili dirimenti – chi, cosa, come, per quanto tempo –, ma possiamo già individuare alcuni punti su cui è opportuno mantenere alta l’attenzione. Tra le app potenzialmente utili al bando del ministero, analizzate da Wired[34], sostanzialmente tutte si appoggiano a server Amazon e Google. Non solo. Già all’indomani dell’annuncio circa l’interesse a investire su questo piano, Facebook si era proposta di mettere a disposizione i suoi dataset organizzati tramite il progetto Data for Good[35]; così come Asstel (Associazione di categoria che, nel sistema di Confindustria, rappresenta la filiera delle telecomunicazioni) si è offerta di fornire dati aggregati sugli spostamenti degli utenti.

Opera tratta da “Her – She loves Data” – https://www.he-r.it/her-and-covid19/

Due settimane fa, Google ha inaugurato, a disposizione delle autorità sanitarie nazionali e internazionali, COVID-19 Public Dataset Program[36]: un archivio di dataset pubblici, liberamente accessibili e consultabili, che è già diventato fonte principale per chi cercasse un cloud omnicomprensivo dei dati della Johns Hopkins University, del Global Health Data della Banca Mondiale, di OpenStreetMap e di altre piattaforme. Il programma offre la possibilità di preparare modelli avanzati di machine learning.

C’è dunque una seconda accelerazione che l’epidemia sta causando sempre all’interno del piano digitale: quello del possibile consolidamento di un nuovo tipo di complesso militar-industriale. Già ampiamente avviato, a livello internazionale, con la stagione della “guerra globale al terrore” inaugurata l’11 settembre 2001[37], ha i suoi paesi d’avanguardia nella Cina e negli Stati Uniti. Prendiamo questo caso particolare. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’intelligence statunitense ha guardato con sempre maggior interesse al mondo della Silicon Valley e alle inedite possibilità di controllo sociale che le sue aziende, facendo la fortuna di entrambi[38]. La cosa ovviamente ebbe una serie di conseguenze rispetto al tema della tutela delle informazioni e delle libertà personali, facendo cadere nel vuoto le precedenti direttive della Federal Trade Commission sulla tutela della privacy da parte di Google degli altri big tech. Con gli attentati dell’11 settembre le questioni relative alla privacy vennero messe in secondo piano rispetto alla priorità della sicurezza. E’ esattamente su questo punto che è importante focalizzarsi. L’ex direttore dell’NSA Mike McConnell descrisse con queste parole la nuova partnership fondata sullo stato d’eccezione reso legge con il Patriot Act:

una collaborazione efficace con il settore privato è necessaria perché l’informazione si muova rapidamente dal pubblico al privato, dall’accessibile al segreto, e viceversa […] per proteggere l’infrastruttura fondamentale della nazione. […] I ruoli di governo e privati si faranno sempre più sfumati, […] il cyberspazio non conosce confini, e i nostri sforzi difensivi devono essere altrettanto ininterrotti.

Concetti perfettamente sovrapponibili alla retorica di guerra che accompagna l’attuale pandemia. Negli 8 anni della presidenza Obama il sodalizio si rafforzò, in particolare tra il Partito democratico e Mountain View, e in generale tra i big tech e il mondo politico USA. Ed è proprio la cronaca di questi giorni a dirci che una nuova emergenza offre altre opportunità di espansione al capitalismo della sorveglianza. Il Wall Street Journal ha infatti rivelato[39] che la Casa Bianca ha creato una task force non ufficiale composta da Alphabet (Google), Facebook e Amazon, mentre la società privata di sicurezza Palantir (definita da Business Week <<polizia predittiva>>[40]) è diventata il partner tecnologico del Centre for Disease Control, l’agenzia federale per salute pubblica.

Anche qui da noi, sebbene anche il contesto di partenza sia profondamente diverso dagli Stati Uniti, il rischio è di vedere la formazione e il consolidamento ben oltre l’epidemia di una nuova partnership tra Stato, imprese delle tele-comunicazioni e big tech in nome della sicurezza e della tutela della salute pubblica. Le garanzie circa l’anonimizzazione del dato, l’utilizzo di dataset aggregati, il coinvolgimento del Garante della Privacy evidentemente non sono sufficienti. Da un lato, infatti, il singolo dato non è mai realmente impersonale – così come dimostrato anche dal caso sud coreano[41]; dall’altro lato anche la tardiva applicazione del contact tracing nel nostro contesto pare assumere più la valenza punitiva del trasgressore piuttosto che quella di monitoraggio dei contagiati. Sempre ammesso che uno di questi sia l’obiettivo: secondo quanto possiamo dedurre dalle dichiarazioni di alcuni analisti della task force del Ministero dell’Innovazione[42], i dataset al momento presi in considerazione non sembrano relativi al contact tracing, quanto piuttosto allo studio emozionale della popolazione e al monitoraggio di massa.

Il 10 aprile c’è stato un passo in più, altamente significativo dal punto di vista politico: Google e Apple hanno annunciato il rilascio di una piattaforma unificata per il contact tracing installabile sugli smartphone dei due colossi, con lo scopo di fornire gratuitamente servizi e funzionalità ai governi e alle autorità della salute che ne facciano richiesta.[43] La questione non appare secondaria: la mole di dati intercettata dai due big tech e soprattutto la loro capacità di elaborarli rappresenta un potere sconosciuto alla maggior parte dei soggetti statali e degli organismi internazionali. In particolare, se teniamo conto delle modalità di esproprio di dati e informazioni con cui i giganti del capitalismo della sorveglianza operano, a nulla valgono le rassicurazioni circa anonimizzazione, volontarietà e rispetto delle normative sulla privacy. Se la partnership pubblico-privato dovesse diventare centrale, non solo de facto ma anche de iure, nella gestione della fase 2 e della futura convivenza annunciata con il virus, ciò significherebbe ridefinire una nuova forma di accesso ai diritti: non soltanto sulla base della patente di immunità di cui stanno discutendo le autorità politiche – e che molti evidenziano essere inutile per la natura stessa del Covid-19, che registra numerosi casi di recidiva tra i guariti, i cui anticorpi avrebbero vita davvero breve –, ma anche perché la propria condizione di salute passerebbe dai canali di operatori privati, i quali certificherebbero la possibilità di muoversi, lavorare, avere relazioni sociali e, in ultimo, la propria posizione in una rinnovata gerarchia sociale e interna al sistema sanitario. Che farsene del principio di volontarietà nello scaricare o meno un’applicazione, nel farsi tracciare e monitorare, se per essere pienamente cittadino devo sottopormi a questo life pattern tracking?

Di fronte a tale complessità, l’utilizzo del solo concetto giuridico di privacy così come codificato dalla normativa europea, sebbene sia necessario, non appare però un parametro sufficiente a valutare il pericolo nella sua complessità. Non stiamo qui parlando di una semplice erosione della privacy, ma di un rischio più ampio e di lungo periodo nella privazione delle libertà personali e collettive, dentro e fuori l’emergenza, in un regime consolidato di privatizzazione e sfruttamento di big data.

Pane e libertà: per un nuovo contratto sociale, oltre la pandemia

In cosa consisterà la famosa “fase 2” di cui si sta iniziando a parlare in questi giorni? Con grande apprensione di Confindustria, che prima ha impedito l’istituzione delle zone rosse nelle aree più colpite e adesso invece preme per riprendere la produzione nella sua totalità, dall’asse governo-tecnici ci arriva di uno scenario di necessaria convivenza ab limitum con il virus. Questa significa anzitutto immaginare un sistema sociale fondato sul distanziamento, sul monitoraggio costante di movimenti fisici e reazioni psicologiche, dove ad essere garantita dovrà essere unicamente la stabilità economico-finanziaria. Dalla Cina arrivano già alcune avvisaglie, dove la fase 2 si basa da un lato su una nuova generazione di telecamere per il riconoscimento facciale e di rilevamento temperatura[44] e, dall’altro, sul controllo della percezione pubblica, onde evitare disordini e tensioni sociali (come avvenuto poche settimane fa proprio nell’Hubei, quando la popolazione, esasperata dopo il lockdown militare imposto da Pechino, si è scagliata contro la polizia). Anche da noi, stando ad esempio a quanto dichiarato dall’epidemiologo e docente di igiene all’università di Pisa Pier Luigi Lo Palco sul Sole 24 Ore[45], il dopo-picco richiederà una governance a più fattori fondata sul metodo a <<tre T: Test-Track-Treat>>: la sola app infatti non sarà sufficiente, bisognerà immaginare comunque la ridefinizione di abitudini[46] e infrastrutture sociali.

Le telecamere termografiche Hikvision possono rilevare la temperatura di trenta persone contemporaneamente

Se la convivenza di lungo periodo con Covid-19 pare inevitabile, è legittimo accettare che la fase 2 debba unicamente basarsi su capillare e definitiva medicalizzazione della società, declinata sul contrasto necessario ai focolai che potrebbero rinascere, e controllo?

Nel suo romanzo La penultima verità, Philip K. Dick immagina un futuro in cui l’umanità è divisa su due livelli: la gran massa degli uomini che vive sottoterra, nei rifugi anti-atomici in cui si è era rifugiata 15 anni prima, quando scoppiò la guerra nucleare tra le due super potenze che, dietro i nomi fittizi, sono identificabili con USA e URSS; una minoranza di propagandisti, militari e neo-aristocratici che invece vivono in superficie, su una terra radioattiva ma in realtà abitabile.

L’inganno è dato dal fatto che per la popolazione del sottosuolo la guerra non è mai terminata, ma ogni giorno ricevono notizie circa le città distrutte da nuove e sempre più distruttive bombe e sulle fasi alterne del conflitto, che sembra essere destinato a non finire mai. In realtà la guerra è terminata 14 anni prima, ma il mondo di sopra decide di proseguirne la finzione per non scatenare il caos e al tempo stesso mantenere controllabili le masse e con esse il rischio che una nuova, devastante guerra scoppi per davvero. Attraverso il bollettino quotidiano del presidente-simulacro del Wes-Dem (gli Stati Uniti), i milioni vengono uniti nel senso del sacrificio, nella volontà di continuare a combattere nonostante le privazioni, nella produzione senza sosta per garantire androidi da combattimento e beni essenziali per il proprio paese. Le vicende che si susseguono portano al progressivo disvelamento della grande bugia, fino a giungere alla penultima verità, per l’appunto: per non causare un rovesciamento violento dal sottosuolo, incontrollato, pieno di rabbia e odio, si decide di comunicare la fine del conflitto coerentemente con la menzogna sin lì mantenuta e iniziare a immaginare il progressivo ritorno in superficie dei milioni di sotto, nel prossimo futuro.

Perché abbiamo citato questa opera paranoica tipica della fantascienza di Dick? Perché, come nella sua migliore tradizione, il prolifico scrittore ci avvisa dei rischi da cui ci dobbiamo guardare anche nel presente e nella realtà. Nella comunicazione gerarchica dell’epidemia e nella riservatezza, se non addirittura estrazione privata, dell’utilizzo dei big data che ci riguardano e che precede il Covid-19, come sapere quando le misure della quarantena potranno essere realmente ridotte – e non per gli interessi di lobby di Confindustria e del capitale finanziario, ma nel rispetto della salute pubblica? Che interpretazione dare dell’orizzonte temporale comunicato dalla ministra Pisano sul prossimo contact tracing – “per tutta la durata della pandemia”? Come accorgerci se davvero la nostra vita non potrà più tornare come prima o se saremo costretti a vivere secondo i nuovi costumi e le nuove forme delle relazioni sociali rese necessarie dal distanziamento e dalla separazione? Soprattutto, perché accettare che a dettare tempi e forme della nuova cittadinanza differenziata siano Google e Apple, di cui dovremo essere costretti a diventare utenti? Come poterci rendere conto di cosa stiamo realmente vivendo, nella psicosi pandemica, nell’ansia da FOMO chimica[47] dell’iper-connettività, nell’accelerazione di processi che stiamo vivendo e subendo in isolamento da tutti? Quanto dobbiamo per forza abituarci e accettare l’idea di vivere in una nuova era delle pandemie, invece che cambiare i presupposti economico-produttivo e culturali che hanno creato le condizioni ideali perché i virus d’origine animale facessero il salto di specie e proliferassero in un’aria sempre più appestata?

A scanso di equivoci, non crediamo di trovarci in nessun grande complotto: la malattia esiste, a pagarla sono le fasce più deboli della popolazione, sia tra chi muore che nelle diverse possibilità in cui si vive l’epidemia. Non pensiamo nemmeno di essere ingannati dal governo e dalle classi dirigenti: i modi in cui viene gestita un’emergenza sanitaria derivano necessariamente dalla cultura politica e dagli orientamenti economici della società, lo abbiamo già detto in apertura. Per dirla semplicemente: un sistema ingiusto, non potrà mai avere una gestione giusta dell’epidemia. Ma giusto e sbagliato sono categorie morali, si dirà: ciò che conta è la competenza. Eppure, l’assenza di data literacy evidenziata nel secondo paragrafo e la corsa al grottesco cui ci stanno abituando gli amministratori locali con le loro ordinanze, ci fanno sorgere il legittimo dubbio che nemmeno quella appartenga alla nostra classe politica.

E qui ci viene in mente un altro scrittore e il suo libro, reso nuovamente celebre in questi tempi di pandemia globale: Albert Camus ne La peste a un certo punto descrive l’esasperazione della popolazione di Orano, colpita dal morbo, stretta tra la minaccia di fame e il coprifuoco delle autorità, sempre più disperata a causa del prolungarsi della malattia.

E’ pur vero che il malcontento cresceva e che le nostre autorità, temendo il peggio, avevano valutato seriamente le misure da prendere nel caso in cui la popolazione, oppressa dal flagello, si fosse lasciata andare alla rivolta. I giornali pubblicarono decreti che rinnovavano il divieto di uscire e minacciavano i contravventori di pene detentive. Pattuglie percorsero la città. Nelle vie deserte e roventi si vedevano spesso sopraggiungere, annunciate dal rumore degli zoccoli sul selciato, guardie a cavallo che passavano tra infilate di finestre chiuse. Sparita la pattuglia, sulla città minacciata calava di nuovo un silenzio pesante e circospetto.

Racconto della solidarietà umana e della lotta degli uomini, che possono contare solo su loro stessi e sulla reciproca vicinanza, contro i flagelli interiori e della Storia, non si arriva mai nel libro alla rivolta sociale. Tuttavia il narratore riporta appunto che l’esasperazione aveva spinto gli abitanti di Orano, in crisi per gli approvvigionamenti a rischio e disperati dal senso di esilio e separazione che vivono nell’epidemia, a chiedere <<pane o libertà>>: se non fosse stato possibile sfamarli, che almeno li liberassero dal coprifuoco. Insomma, delle due l’una.

Ma è questo il ricatto a cui anche noi sembriamo sempre più vicini? Mentre a mezzo stampa si lanciano gli allarmi di polizie e apparati di sicurezza contro i professionisti della protesta e sui rischi di rivolte per fame non solo nelle zone più povere del paese[48], ma anche nelle periferie del ricco Nord, quello che appare sempre più necessario è un nuovo patto sociale, per questa e le possibili future epidemie così come per qualunque crisi che giungerà: dove il disciplinamento e il senso di responsabilità sociale siano accompagnati e rafforzati da una condivisione del sapere e da una comunicazione razionale e orizzontale; dove il distanziamento sociale misura di profilassi non significhi isolamento, solitudine, frammentazione e abbandono, ma solidarietà sociale; dove la lotta contro il virus è anzitutto lotta per far emergere il sommerso, contro il fenomeno dell’invisibilità di malati, decessi, fragilità e precarietà.

Il problema principale dell’attuale governance dell’emergenza è che, esattamente come quella dei tempi normali, è basata sul paradigma dell’esubero e dell’esproprio: che riformisti e keynesiani non si facciano illusioni, le loro migliori intenzioni non realizzeranno quello sviluppo che molti vedono necessario, di una maggiore solidarietà e di un nuovo, inevitabile compromesso socialdemocratico per un rinnovato welfare state. Chi è cresciuto in una cultura economica e di governo fondata su individualismo e principio di “abbondanza nella scarsità” (ovvero: non ce ne sarà mai per tutti), chi è stato educato alla delazione e alla diffidenza degli uni verso gli altri – e a maggior ragione se percepiti come diversi – non concepirà altra necessità che non sia la continuità dei meccanismi di esclusione e riproduzione sociale diseguale. Ma l’alternativa non può e non deve essere “pane o libertà”, come nel romanzo di Camus, ma pane e libertà: esistono diversi modi di sacrificarsi per la salute pubblica e non una sola forma di quarantena – con tutto il suo portato di ridefinizione delle relazioni sociali e dei riti della collettività, gestiti attraverso la sorveglianza dei big tech privati e la punizione di militari e forze dell’ordine.

A proposito della cosiddetta “liquefazione del mondo fisico”, ovvero la digitalizzazione/mercificazione immediata di ogni bene fisico e di ogni attività umana, Harriet Green (che si è occupata dei 3 miliardi di dollari che IBM ha investito nell’internet delle cose, con l’obiettivo di spingere l’azienda a diventare “la Google della computazione ubiqua”), sostiene che l’onniscienza digitale sognata dalle digital corporation  è ostacolata dal fatto che gran parte dei dati raccolti sono “non strutturati”. Ciò li rende difficili da codificare, rendere computabili, organizzabili e utilizzabili. Secondo la Green, questi che lei definisce <<dark data>>, sono il vero nodo da sciogliere per completare il progetto di business della realtà o mining reality (estrazione di informazione dalla realtà). A questo proposito, nota Shoshana Zuboff:

Il messaggio perfezionato nel mondo online – “se non sei nel sistema, non esisti” – viene ridefinito per questa nuova fase dell’esproprio. Visto che l’apparato delle cose interconnesse è pensato per essere tutto, ogni comportamento di un essere umano o di una cosa assente da questi tentativi di inclusione universale è dark: minaccioso, selvaggio, ribelle, criminale, fuori controllo. L’ossessiva espansione dei dark data è inquadrata come un nemico.[49]

Manteniamo l’intelligenza politicamente vigile. Riconosciamo ciò che è necessario per la sicurezza sociale e ciò che ci viene presentato come tale, secondo il punto di vista egemone che interpreta un solo possibile esito per il futuro. Impariamo a riconoscere le contraddizioni giuridiche dello stato d’emergenza e il populismo penale e comportamentista che vuole punire gli atteggiamenti della popolazione invece che colpire le cause sociali del contagio. Rendiamoci dark data, reclamiamo il nostro diritto a essere non strutturati. Un’epidemia ha due picchi da attendere: quello dei contagi e dei decessi, che speriamo aver passato e superato; e quello degli sconvolgimenti che in un modo o nell’altro si porterà dietro. Il primo va atteso garantendo immunità a tutti, il secondo va causato e accelerato: il picco del conflitto sociale è ancora tutto davanti a noi.

Laboratorio Off Topic, 14 aprile 2020


[1] M. Foucault, Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Einaudi 1998

[2] G. Macaccaro, Sociologia della medicina, Feltrinelli 1977

[3] G. Giraud, Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19, Civiltà Cattolica, 4 aprile 2020

[4] M. Gaggi, E la Silicon Valley traccia i movimenti dei cittadini, Corriere della Sera, 30 marzo 2020,

[5] D. Mancino, Covid-19, come interpretare i dati che ogni giorno comunica la Protezione civile, InfoData, 27 marzo 2020,https://www.infodata.ilsole24ore.com/2020/03/27/43630/

[6] AAVV, Using a delay-adjusted case fatality ratio to estimate under-reporting, https://cmmid.github.io/topics/covid19/severity/global_cfr_estimates.html

[7] I. Invernizzi, A Bergamo decessi 4 volte oltre la media. L’Eco lancia un’indagine nei Comuni, L’Eco di Bergamo, 26 marzo 2020

[8] R. Saporiti, I grafici che mostrano il reale impatto dell’epidemia di nuovo coronavirus, Wired, 10 aprile 2020: https://www.wired.it/scienza/medicina/2020/04/10/coronavirus-covid-19-grafici-mortalita/ e L. Tonon, Quante persone in più sono morte in Italia a causa dell’epidemia?, Internazionale, 12 aprile 2020: https://www.internazionale.it/notizie/laura-tonon/2020/04/12/persone-morte-in-piu-italia-epidemia

[9] Gli ultimi dati mostrano complessivamente per le città del nord un aumento del 65% dall’inizio dell’epidemia (con picchi del +195% a Brescia, +126% Aosta e +87% Milano), a confronto del 10% per il centro-sud.

[10] C. Vercelli, Oltre il paradigma dell’emergenza, il Manifesto 3 aprile 2020

[11] https://www.facebook.com/covid19mobility/

[12] L. Casarotti, Dalle denunce penali alle supermulte: le nuove sanzioni per chi cammina «senza motivo» analizzate da un giurista (spoiler: di dubbia costituzionalità): https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/multe-coronavirus/

[13] S. Cassese, Coronavirus, il dovere di essere chiari, Corriere della Sera, 20 marzo 2020,

[14] Emblematico il caso della procura di Milano che, per trovare un reato da contestare in virtù delle nuove ordinanze, ha rispolverato il Testo Unico sulle Leggi Sanitarie del 1934.

[15] L. De Biase, Innovazione digitale di lunga durata, Sole 24 Ore, 15 marzo 2020

[16] D. Manca, Infrastrutture digitali e hi-tech: la corsa che non possiamo perdere, Corriere della Sera, 3 aprile 2020

[17] G. Colarusso, Così i giganti della Rete fanno affari con il virus, la Repubblica, 1 aprile 2020

[18] https://www.mix-it.net/en/statistiche/

[19] https://www.offtopiclab.org/non-lasciamoci-disassembrare-2-educazione-e-didattica-digitale/

[20] https://www.vice.com/it/article/a3a5xa/amazon-prime-day-privacy-data-tracking

[21] Analisi delle emozioni o analisi dei sentimenti: trattasi della sfera della tecnologia digitale che studia le emozioni e le reazioni delle persone di fronte a un contenuto, per stabilire correlazione tra apprezzamento e contenuto visualizzato.

[22] https://www.wired.it/play/televisione/2015/10/16/come-netflix-vedere/ e https://www.mycyberlaw.com/la-profilazione-su-netflix/

[23] F. Mereta, L’FDA approva la prima app per l’insonnia, Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2020

[24] https://thefool.it/

[25] Per una descrizione approfondita e dettagliata, rimandiamo a S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luis University Press 2019

[26] Ivi, p. 143

[27] Ivi, p. 314

[28] L. De Biase, Siamo immersi nei nuovi paradigmi dell’intelligenza connettiva, Sole 24 Ore, 29 marzo 2020

[29] S. Zuboff, op. cit., pp. 417-18

[30] B. F. Skinner, Beyond freedom and dignity, Hackett Publishing Co, Inc 2002 e A. Pentland, Social Physics: how good ideas spread – the lessons from a new science, Scribe Publications 2014

[31] Cit. in S. Zuboff, op. cit., pp. 428-29

[32] https://www.valigiablu.it/coronavirus-dati-tecnologia/

[33] https://innovazione.gov.it/DM-task-force/

[34] https://www.wired.it/internet/web/2020/03/24/coronavirus-app-contact-tracing/

[35] https://dataforgood.fb.com/

[36] https://cloud.google.com/blog/products/data-analytics/free-public-datasets-for-covid19

[37] D. Lyon, Massima sicurezza. Sorveglianza e “guerra al terrorismo”

[38] Cfr. S. Zuboff, op. cit., pp. 124-130

[39] https://www.wsj.com/articles/silicon-valley-ramps-up-efforts-to-tackle-virus-11584313224

[40] https://medium.com/bloomberg-businessweek/the-complicated-politics-of-palantirs-ceo-684e0a1c47d

[41] https://www.wired.it/scienza/medicina/2020/03/19/coronavirus-corea-del-sud/

[42] https://www.wired.it/internet/social-network/2020/04/07/coronavirus-facebook-google-governo/

[43] https://www.reuters.com/article/ul-health-coronavirus-apple-alphabet-idUSKCN21S1UF

[44] S. Francioni, Le nuove telecamere termografiche cinesi pronte per la «fase 2» del virus, Corriere della Sera, 7 aprile 2020

[45] F. Mereta, Le parole chiave sono Test-Track-Treat, Il Sole 24 Ore 7 aprile 2020

[46] S. Iaconesi, Dati usati per ricostruire le relazioni sociali, Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2020

[47] Fear Of Missing Out: letteralmente, “paura di perdersi qualcosa”. E’ una forma d’ansia sociale definita dalla “sensazione sgradevole, o perfino straziante, che i nostri simili stiano facendo qualcosa di migliore di noi, e possiedano più cose o conoscenze”.

[48] G. Bianconi, Il timore di disordini “per il pane”, Corriere della Sera, 29 marzo 2020 e A. Ziniti, Lamorgese avverte “Frange estremiste possono cavalcare il disagio sociale”, la Repubblica, 12 aprile 2020

[49] S. Zuboff, op. cit., p. 224

 

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fonte: https://www.offtopiclab.org/politica-del-dato-discorso-pubblico-e-forme-della-sorveglianza/


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