Un articolo di Maria Teresa Messidoro, vicepresidente di Lisangà, sul sito (www.lisanga.org) o sulla pagina di tgvallesusa.
“… il triangolo che si apre e si chiude
la coscienza cerca il modo passare
attraverso l’espressione, che è la luce del fondale…”
Cristiano De Sanctis, L’istinto del temp
A scuola, dalle elementari all’Università, mi hanno insegnato che cambiando l’ordine degli addendi il risultato dell’addizione non cambia; adesso allora sommo America Latina, COVID-19 e la prospettiva di genere – non importa con quale ordine – e vediamo cosa otteniamo.
CONTESTO
L’epidemia si sta abbattendo anche sull’America Latina: secondo i dati pubblicati il 26 marzo, il Brasile con i suoi 2554 contagiati e 59 morti, si pone al 17° posto nella classifica mondiale dei Paesi contagiati; il Cile è poco più sotto, con 1142 positivi e 3 morti. Haiti, il 19 marzo, è stato l’ultimo Paese latino-americano a presentare casi di CV19.
Il Paese che ha adottato le misure più restrittive è il Cile, con 90 giorni di estado de expeción por catastrofe; Bolivia ha rimandato le elezioni presidenziali previste per inizio maggio; il presidente di El Salvador, Bukele, ha decretato lo stato di emergenza con un discorso divenuto virale (ne parleremo in un prossimo articolo). Il presidente del Brasile, Bolsonaro, invece continua a ignorare il problema, dicendo che l’unico rimedio è… il coronafé, le preghiere nei culti delle sette religiose che ne hanno consentito le elezioni, culti che finora non sono stati sospesi.
Mentre il mondo si addolora e si preoccupa per la pandemia del coronavirus, ignora – o fa finta di ignorare – che dall’inizio di quest’anno si è assistito ad una diffusione in America Latina del dengue, la malattia tropicale provocata da una zanzara, di trenta volte superiore alla grave epidemia del 2015; il dengue nel 2019 ha prodotto 3 milioni di contagi, con più di 1500 morti.
A livello mondiale, la situazione non è migliore: secondo la ACNUR ogni giorno muoiono nel mondo 8.500 bambini al di sotto dei cinque anni per denutrizione; inoltre 6,3 milioni di ragazzi con meno di quindici anni sono morti – solo nel 2017 – per denutrizione o altre cause.
Vorrei dunque cambiare il punto di vista: meno occidentale, meno bianco, meno razzista, meno adulto, meno maschile, in fondo meno aporofobo (la aporofobia è la paura e il disprezzo dei poveri)
PRIMO ANGOLO DI UN TRIANGOLO IMMAGINARIO
Parto dall’articolo che ha scritto Maria Galindo, boliviana, portavoce di Mujeres Creando, il 17 marzo: “il marciapiede di fronte, disubbidienza, per colpa tua sopravviverò”.
http://radiodeseo.com/desobediencia-por-tu-culpa-voy-a-sobrevivir-la-acera-de-enfrente/
Provocatoria come sempre, Maria ci costringe a riflettere a partire da un altro angolo, non ottuso però, continuando a utilizzare il linguaggio matematico.
«Ho il coronavirus, perché anche se la malattia non sia ancora entrata nel mio corpo, alcune persone che io amo sono state contagiate; perché il coronavirus sta attraversando città che ho visitato nelle ultime settimane; perché il coronavirus, con uno schioccare di dita, ha cambiato assolutamente tutto, come succede quando avviene un miracolo, o una catastrofe, o una tragedia senza rimedio. Dove calpesti il suolo, “lui” c’è, dove arrivi “lui” è già arrivato prima, ed oggi niente si può pensare, o fare, senza il coronavirus tra i piedi. E’ come se che non solo io abbia il coronavirus, ma tutte e tutti, tutte le istituzioni, tutti i paesi del mondo, tutti i quartieri e tutte le attività.
Ciò che deve essere chiaro è che il coronavirus, più che una malattia, sembra essere una forma di dittatura mondiale, che supera i singoli governi, una dittatura poliziesca e militare.
Il coronavirus è la paura del contagio.
Il corona virus è un ordine di confinamento, per assurdo che sia.
Il coronavirus è un ordine di distanza, per impossibile che sia.
Il coronavirus è un permesso di sospensione di tutte le libertà, permesso che si impone senza possibilità di replica, con la scusa di proteggerci.
Il coronavirus è un codice di identificazione delle attività cosiddette imprescindibili, in una situazione in cui l’unica cosa permessa è andare a lavorare o lavorare da casa con i mezzi telematici, come segnale che siamo viv@.
Il coronavirus è uno strumento che sembra efficace per cancellare, minimizzare o occultare o mettere tra parentesi qualsiasi altro problema sociale o politica che possiamo concettualizzare. Immediatamente, come per magia, questi problemi scompaiono sotto il tappeto o sono nascosti dal gigante.
Il coronavirus è l’eliminazione dello spazio più vitale, più democratico e più importante delle nostre vite che è la strada, questo “fuori” che virtualmente non dobbiamo attraversare, mentre era in molti casi l’unico spazio che rimaneva a nostra disposizione.
Il coronavirus è il predominio della vita virtuale, devi restare attaccato a una rete per comunicare e sentirti in società.
Il coronavirus è la militarizzazione della vita sociale.
E’ la cosa più simile a una dittatura, dove non esiste informazione, se non in porzioni calcolate per generare la paura.
Il coronavirus è un’arma di distruzione e proibizione, apparentemente legittima, della protesta sociale, quando ci dicono che la cosa più pericolosa è incontrarci e riunirci.
Il coronavirus è la restituzione del concetto di frontiera alla forma più assurda; ci dicono che chiudere la frontiera è una misura di sicurezza, quando il coronavirus è già dentro; quindi questa chiusura non impedisce l’entrata di un virus microscopico e invisibile, è qualcosa invece che classifica i corpi che potranno entrare e uscire dalle frontiere.
Lo spazio Schengen, che è da dove si è propagato il virus in questa parte del mondo, dove io vivo (Bolivia), chiude le frontiere impedendo la circolazione di corpi, compiendo alla fine dei conti il sogno fascista che le altre e gli altri sono il pericolo. ………..
……. La nostra unica alternativa reale è ripensare il contagio.
Coltivare il contagio, esporci al contagio e disubbidire per sopravvivere.
Non si tratta di un gesto suicida, si tratta di buon senso comune.
Però chissà che questo buon senso comune sia il senso più potente che possiamo sviluppare.
Cosa succederà se decidessimo di preparare i nostri corpi al contagio?
Che succederà se comprendessimo che certamente ci contageremo e partiamo da questa certezza per mettere sotto processo le nostre paure?
Che succederà se di fronte all’assurda, autoritaria e idiota risposta statale al coronavirus, noi scegliessimo l’organizzazione sociale della malattia, della debolezza, del dolore, del pensiero e della speranza?
Che succederà se noi ci burlassimo delle frontiere?
Che succederà se ci organizzassimo socialmente?
Che succederà se noi ci preparassimo a baciare i morti e a occuparci delle persone vive, al di là di qualsiasi proibizione, visto che l’unica cosa che stanno producendo è il controllo del nostro spazio e delle nostre vite?
Che succederà se passassimo dall’approvvigionamento individuale alla pentola comune, contagiosa e festaiola, come abbiamo fatto tante volte?
Diranno ancora una volta che sono matta e che è meglio obbedire all’isolamento, la reclusione, il non contatto e la non contestazione delle misure quando la cosa più probabile è che tu, il o la tua amante, la tua amica, la tua vicina, o tua madre, si contagino.
Diranno ancora una volta che sono matta, quando sappiamo bene che in questa società mai ci sono state i letti di ospedale sufficienti e che se bussiamo alle porte delle strutture sanitarie, proprio lì moriremo supplicando.
Sappiamo che la gestione della malattia sarà soprattutto domiciliare, prepariamoci allora socialmente per questo fatto.
Che succederà se decidessimo di disubbidire per sopravvivere?
Abbiamo bisogno di cibo per attendere la malattia e dobbiamo cambiare dieta per resistere.
Dobbiamo cercare i nostri colliri, produrli in casa se necessario, e con loro produrre rimedi non farmaceutici, provarli con i nostri corpi e indagare quali ci apportino dei vantaggi e ci facciano sentire meglio.
Abbiamo bisogno di tutti quei prodotti semplici che ci hanno insegnato a disprezzare, come la zuppa di quinoa, o farina di amaranto e cañahua.
Che la morte non ci sorprenda accartocciat@ per la paura, obbedendo a ordini idioti, ci sorprenda invece mentre ci baciamo, facendo l’amore e non la guerra.
Che la morte ci sorprenda cantando e mentre ci abbracciamo, perché il contagio è molto vicino.
Perché il contagio è come respirare.
Non poter respirare è a ciò che ci condanna il coronavirus, più che per la malattia, per la reclusione, la proibizione e l’obbedienza.
Mi viene in mente Nosferatu, che in una scena indimenticabile, quando la morte è imminente e la peste portata dai topi ha invaso tutto il paese, si siedono tutt@ ad una grande tavola, nella piazza, per condividere un banchetto collettivo di resistenza.
Che ci trovi così il coronavirus, pronti per il contagio».
SECONDO ANGOLO.
Ecco un secondo punto di vista, anche questa volta fortunatamente non ottuso. E’ quello di Olka Oliva Corado, guatemalteca, con cui spesso ultimamente mi ritrovo in compagnia e in sintonia; l’articolo è “Pandemia di cinismo”, postato sul suo blog il 18 marzo.
https://rebelion.org/pandemia-de-cinismo/
Lei afferma: «Certo che sì, viviamo una pandemia e la viviamo da sempre, però di cinismo, insensibilità e doppia morale. Non vogliamo vedere nessuna ingiustizia di nessun tipo non perché ci faccia soffrire, ma perché non ci importa niente il dolore degli altri. E se una ingiustizia ci attraversa la strada, ci spostiamo dall’altra parte, o retrocediamo, o semplicemente la scavalchiamo come se fosse una pozzanghera, visto che siamo bravi a schivare gli ostacoli. Storicamente, abbiamo imparato a schivare la memoria e la ricostruzione del tessuto sociale. Nessun virus è fulminante come quello del cinismo. I virus vanno e vengono, come manipolano le informazioni i mezzi di comunicazione ed i governi è ciò che fa la grande differenza.
Per esempio il dengue, nei paesi in via di sviluppo è molto diffuso, milioni di persone per causa sua sono morti e continuano a morire, però non si vede nessun governo o mezzo di comunicazione che ci avvertano con la luce rossa di emergenza.
O possiamo parlare dell’aborto clandestino, muoiono per questa ragione milioni di donne e non è una emergenza mondiale la necessità, in tutti i paesi, di una legge per l’aborto legale, sicuro e gratuito. E che dire della povertà estrema, la calamità della doppia morale mondiale. Dicendo questo, non voglio sminuire l’importanza del virus che stiamo vivendo come popolazione mondiale, nemmeno che dobbiamo ignorare le indicazioni sanitarie. Però la numerosa massa operaia, in tutto il mondo, non può rimanere a casa, in quarantena, quando appena sopravvive giorno dopo giorno lavorando, quando i suoi padroni oligarchi non sono certo propensi a concedere loro i giorni di assenza o di riposo forzato.
I raccolti stagionali esistono grazie ai lavoratori giornalieri, mal pagati, senza diritti: non sono visti come persone, e non lo saranno nemmeno in questa crisi, se muoiono non importa, è sufficiente trovarne altri disposti a lavorare, senza documenti, a basso costo. E’ bello vedere sui balconi dei palazzi italiani molte persone cantare e suonare, mostrando unità di cuori e di sentimenti, quasi ci commuovono; però, però perché mai non si sono uniti in questo abbraccio virtuale per esigere dal proprio governo un comportamento dignitoso nei confronti di migranti che arrivano in Italia, rischiando di affogare in mare? Che succederebbe se tutte le famiglie in Italia uscissero sui balconi e cantassero, dando prova di un grande sentimento umanista, richiedendo con forza un trattamento umano dei migranti, la legalizzazione della loro presenza e diritti lavorativi? Una quarantena chiedendo di prendersi cura dei migranti illegali, che lusso. Ma i migranti non interessano, non hanno interessato e non interesseranno mai.
Chi ha potuto, perché possiede tempo ed economia, nei giorni scorsi ha svuotato i supermercati, alla fine sono rimasti gli operai, che comprano poco alla volta ogni giorno: molti di loro non hanno potuto comprare niente prima perché non avevano i soldi, e quando li hanno avuti hanno trovato i negozi desolatamente sprovvisti, perché ci sono quelli che si accaparrano di tutto senza pensare agli altri. Una dimostrazione chiara di egoismo. E’ stato un gesto mondiale di accaparramento, perché è successo dappertutto.
E così abbiamo potuto farci una idea, minima, però sempre una idea, di come hanno dovuto vivere i paesi oltraggiati in tempi di dittature e invasioni…..
….. Possiamo allora almeno tentare di immaginare cosa significhi il blocco economico a Cuba o in Venezuela. Cuba che ha vissuto decenni così, e nonostante ciò continua ad essere un esempio di umanità per il mondo, adesso per esempio inviando medicine e medici in tutto il mondo per cercare di affrontare le necessità urgenti delle popolazioni colpite dalla pandemia del coronavirus. (vedere il video, in italiano, relativo all’arrivo in Italia, più precisamente a Crema, dei medici cubani, https://video.corriere.it/cronaca/coronavirus-carlos-medici-cubani-crema-resteremo-finche-avrete-bisogno/a469b4f8-6d59-11ea-ba71-0c6303b9bf2d).
No, non l’ha insegnato Fidel, è tutto un popolo che ha saputo resistere con dignità e coscienza all’enorme ingiustizia che ha commesso il mondo con il suo cinismo e il suo silenzio.
Oppure possiamo immaginare ciò che vive oggi la Palestina (o, se preferite, ciò che ha vissuto l’Iraq, il Pakistan e vive oggi la Siria), dove gli ospedali sono bombardati, come le case e le scuole. Dove vengono rasi al suolo i pochi alberi di ulivo rimasti, dove si bruciano le sementi perché non cresca più niente. Dove vengono bombardati i negozi, dove si spara a vista a chi si avvicina al muro, quel muro che giorno dopo giorno ruba ai palestinesi un pezzo della loro terra.
Certo, forse possiamo immaginarlo, però preferiamo spostarci dall’altra parte della strada, perché il dolore di queste popolazioni, le loro grida di aiuto, la dignità che questo popolo dimostra lottando al di là di tutto, ci è sputata in faccia, confrontandosi con il nostro cinismo.
Allora è vero, sì, viviamo una pandemia, e la viviamo da sempre, però di cinismo, insensibilità e doppia morale…..».
TERZO ANGOLO.
Abbiate pazienza, sono all’ultimo angolo, ancora per niente ottuso (d’altra parte, se mi ricordo bene, in un triangolo possono esserci tre angoli acuti).
Questa volta è la presa di posizione della Iniciativa Mesoamericanas de Defensoras (in italiano difenditrici, ma chissà perché mi piace di più lo spagnolo defensoras), apparso sul loro sito il 23 marzo:
«Da alcuni giorni, i nostri abbracci si sono trasformati in parole di conforto, che si diluiscono nella distanza. L’incertezza e l’inquietudine segnano le vite tanto delle persone in situazione di confinamento quanto di quelle che non possono permettersi il lusso di riguardarsi, perché la povertà e l’ingiustizia sono epidemie radicate da molto tempo nelle nostre società.
La crisi provocata dall’irruzione a scala mondiale del COVID-19 porta ad un mondo che deve già affrontare crisi molto serie ( l’occuparsi dei più deboli, il cambiamento climatico, la violenza, la disuguaglianza, la carenza dei diritti umani, e altre ancora, in una lista fin troppo lunga) ed esprime chiaramente l’insostenibilità del modello politico, sociale ed economico imperante nel nostro Pianeta, riprodotto dai singoli Stati, ogni giorno sempre di più controllati da interessi privati. Perciò questa situazione ha e avrà un impatto sproporzionato su noi donne, sulle nostre comunità e sulle nostre lotte.
Questo modello, basato sulla depredazione “capitalista, razzista e patriarcale”, usando parole della nostra compagna Berta Cáseres, per decenni si è focalizzato in mercati e logiche neo liberiste, distruggendo le strutture comunitarie e culturali di autoprotezione collettiva, lasciando la maggioranza di persone senza la possibilità di accesso ad una vita dignitosa. A causa della distruzione di ciò che è pubblico e del disprezzo di tutto ciò che è comune, oggi siamo costretti ad affrontare con difficoltà situazioni come questa, dal punto di vista dei diritti umani e della giustizia sociale…..
… In Honduras, El Salvador e Guatemala si sono messi in atto piani di emergenza basati sulla militarizzazione, la sospensione dei diritti fondamentali e il coprifuoco, rafforzando l’autoritarismo e deteriorando le forme di sopravvivenza di gran parte della popolazione.
In Messico le condizioni strutturali di vulnerabilità sociale per affrontare questa crisi sono evidenti. In Nicaragua ci preoccupa il fatto che il Governo ometta la propria responsabilità nella risposta all’emergenza sanitaria e neghi l’accesso alle informazioni di salute.
Le applicazioni di questi piani di emergenza colpiscono il lavoro delle defensoras. Limita il loro diritto di manifestazione, espressione e il libero sviluppo delle attività, aumentando il rischio di essere attaccate e criminalizzate da soggetti statali (da quando è iniziata questa crisi, registriamo diversi casi di aggressione contro alcune defensoras in Honduras, El Salvador e Guatemala) e di soffrire la violenza maschilista dentro le mura delle proprie case.
Osserviamo il panorama aperto dalla crisi del COVID-19 con molta preoccupazione, nello stesso tempo però vediamo all’orizzonte la possibilità di cambiare collettivamente le strutture su cui si fondano le nostre società, a partire dalla nostra visione femminista.
Le donne, i popoli originari e afro discendenti della nostra regione, come molte volte ha dichiarato la dirigente afro indigena garifuna Miriam Miranda, sono sì i soggetti oggi maggiormente vulnerabili, ma contemporaneamente sono proprio coloro che possiedono la forza vitale necessaria per affrontare e superare questa crisi, grazie al bagaglio di conoscenze nel campo dell’aiuto reciproco e della riproduzione della vita, alla propria capacità di costruire autonomie, al rispetto della terra e dell’acqua che ci alimenta, alla progettazione e realizzazione di sistemi di salute alternativi e infine all’utilizzo continuo di spiritualità emancipatrici.
Come Iniciativa Mesoamericanas de Defensoras chiediamo agli Stati:
- che affrontino la congiuntura attuale con una prospettiva integrale di attenzione collettiva, nel rispetto dei diritti umani…
- che si astengano dall’utilizzare l’esercito e le forze di sicurezza in funzioni che non spettano loro e garantiscano il totale rispetto dei diritti umani.
- che non approfittino di questa situazione di eccezionalità dovuta all’emergenza sanitaria per aggredire o criminalizzare attivist@, giornalist@, organizzazioni e persone che difendono i diritti umani.
- che riconoscano le donne, in particolare le defensoras, come soggetto prioritario con cui trovare soluzioni che mettano al centro delle nostre società nuovi valori.
- Che mettano in atto politiche concrete per combattere la disuguaglianza, anteponendo i diritti individuali e collettivi agli interessi delle imprese e delle élites economiche.
- Che garantiscano meccanismi effettivi di prevenzione, protezione e attenzione, di fronte alle violenze maschiliste intra- familiari, che possono aumentare proprio come effetto delle situazioni di confinamento forzato.
- Che garantiscano un flusso trasparente di informazione, ….
- Che non cerchino di creare o fomentare discorsi volti alla discriminazione e alla stigmatizzazione di persone con COVID/19 e che contemporaneamente si occupino dei pazienti in modo responsabile, scientifico e laico.
Trasformiamo allora la paura in semi di libertà e di diritti per il presente e per il nostro futuro! Rendiamo virale la solidarietà!».
APRIAMO IL TRIANGOLO.
I triangoli, in particolare i triangoli isosceli, nel mondo magico, piatto, di Flatlandia (un bellissimo libro di fine ottocento di Abbott) appartenevano alle Classi inferiori, perché non avevano tutti i lati uguali. Ed io preferisco ridare dignità al triangolo, aprendolo ed allargando gli orizzonti: così tendo i suoi lati ed arrivo in Spagna, dove Irantzsu Varela, giornalista e femminista spagnola, ha scoperto che possedere un balcone è un privilegio, perché sul balcone si può bere un caffè, leggere, mangiare, altro caffè, utilizzare fb o w app, fare semplicemente niente, gridare alle persone in strada, sperando di conoscerne qualcuna, come novella Rapunzel. Andiamo dunque sul balcone a parlare con i nostri vicini e a vigilare sul comportamento della polizia, perché secondo Irantsu si sopravvive soltanto grazie alla collaborazione con i primi e al controllo popolare della seconda; andiamo sul balcone a gridare solidarietà e salute pubblica, ed esprimere ad alta voce che sì, abbiamo bisogno di femminismo, perché mette al centro di tutto il prendersi cura di sé e degli altri, i diritti delle persone sfruttate e marginate, oggi ancora più sfruttate e marginate al tempo del coronavirus.
Flatlandia è di Edwin Abbott, Adelphi (in varie edizioni)
L’istinto del tempo è di Cristiano De Sanctis, Book Sprint Edizioni 2012
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FONTE: http://www.labottegadelbarbieri.org/america-latina-covid-19-e-le-donne/