17 ottobre 2020
Proviamo a delineare alcuni spunti sulla “nuova” fase covid19 che stiamo attraversando, seppur “nuova” sia un aggettivo poco calzante. Di nuovo, si rimpallano responsabilità, si accendono allarmismi, si corrono rischi.
È necessario fare alcune premesse. Una certezza che i mesi di pandemia ci hanno insegnato è che le informazioni a riguardo non sono affidabili, in particolare l’accesso al sapere scientifico resta un privilegio per pochi. Nondimeno, all’interno della stessa comunità scientifica la produzione di articoli e contributi validi si è dimostrata difficile, avvalorando il fatto che la neutralità della scienza sia qualcosa di illusorio, rendendo palese come essa sia sottomessa a interessi di classe e ai profitti. Durante la confusione pandemica generalizzata, la sete di informazioni e la fame di pubblicare notizie ha fatto sì che il dibattito scientifico, senza che venisse precedentemente sottoposto a sintesi, venisse ribaltato nella sfera pubblica. Dando in pasto all’inesperienza il dogma scienza = verità assoluta.
Parallelamente, anche l’ambito della salute è qualcosa di cui si è abituati a delegare alle autorità specializzate preposte, tendenza che ha avuto come risultato un generale senso di totale affidamento nei confronti delle indicazioni del governo, che fossero più o meno condivisibili per l’effettiva tutela della salute di ognuno. Governo palesemente sottomesso alle richieste di Confindustria, che si è accaparrata il titolo di regina indiscussa delle decisioni in materia di gestione della crisi. A pensarci bene chi metterebbe la propria vita nelle mani di chi sicuramente metterà avanti ad essa il profitto per il capitale? In questo senso l’urgenza di costruire un sapere autonomo in ambito della salute e della cura è assolutamente stringente, proprio per non sentirsi obbligati a mettersi nelle mani di qualcun’altro, i cui interessi non vanno nella direzione della salvaguardia di tutti e tutte.
Molto si è detto sull’origine del virus e sul fenomeno delle zoonosi, processi che permettono ai virus di effettuare un salto di specie, così come è accaduto nel caso del covid19 dal pipistrello all’umano. Ciò che in questi mesi è rimasto sottotraccia è il punto di partenza di tale fenomeno, ossia il sistema produttivo così come lo conosciamo oggi. La produzione industriale, agroindustriale, l’inquinamento conseguente ad essa, la devastazione ambientale che permette l’impiantamento di industrie in ogni luogo del mondo e la loro continua espansione, sono alla radice dello stravolgimento degli equilibri ecologici, le cui conseguenze abbiamo conosciuto sulla nostra pelle. L’assioma della produzione non fa i conti con la condizione per la sua stessa esistenza: l’attività umana, non intesa puramente come il lavoro salariato, ma come possibilità di riproduzione di se stessi e della società in cui si vive. Perchè essa continui ad esistere è inevitabile che un ruolo cruciale lo abbiano tutte quelle attività umane che provvedono alla cura, al sostegno, all’educazione, all’assistenza. Il sistema neoliberista affida quest’enorme peso alle reti informali della società, alle donne in primis, che si occupano di colmare i vuoti del sistema welfaristico e dei servizi alla persone. Scaricandone i costi indiscriminatamente.
L’ultimo elemento si riferisce allo specifico funzionamento del sistema sanitario nazionale. Tanto è stato scritto a tal proposito in questi mesi, ed è chiaro come i tagli, la privatizzazione, l’imbuto formativo, l’abbandono dei presidi territoriali, le difficoltà della medicina di base di sostenere l’impatto dell’epidemia, siano tutti anelli di questa catena. Nei mesi estivi, in cui il virus ha permesso di riprendere un poco il fiato, la medicina territoriale sarebbe dovuta essere rafforzata. Il dottor Ernesto Burgio sostiene infatti che occorreva rinnovare il sistema di tracciamento e riorganizzare i corridoi alternativi per evitare che il virus ritornasse a dilagare negli ospedali e nelle sedi di cura, com’era già successo durante i primi mesi di pandemia. Queste due opere si inseriscono perfettamente nel solco della necessità di un cambiamento del paradigma sanitario. I problemi strutturali del sistema sanitario nazionale sono emersi con forza durante la pandemia, regola che è valsa per tutti i pezzi dell’organizzazione sociale. Un sistema che si basa quasi completamente sulla centralità dei grandi poli ospedalieri, contestualmente abbandonando la medicina sul territorio, è il cardine del fallimento della gestione di questa crisi e sta alla base dei suoi presupposti. È necessaria una medicina preventiva e di sostegno alle fragilità, unita alla consapevolezza che per prendere in carico una persona non basta occuparsi degli elementi esclusivamente patologici, ma anche dei determinanti sociali della salute. Anche qui non si tratta di una novità. Sono anni che alcune parti del comparto sanitario affermano l’importanza di un ritorno a una cura primaria sul territorio, non di delega ma di fiducia, non di cura meccanica di un corpo avulso dalle condizioni sociali e materiali in cui vive. È fondamentale una tutela della salute basata sulla prevenzione e sull’assistenza alla persona e alla comunità e non di intervento emergenziale sulla malattia. Il problema è molto pratico, occorrono finanziamenti e occorre che essi confluiscano nei posti giusti.
Infine, veniamo all’oggi. Siamo in un momento in cui gli ospedali, in particolare al centrosud, devono già fare fronte a un carico impegnativo. Il punto non è che il virus dovesse cambiare o ci si potesse aspettare che l’andamento dei contagi migliorasse con il passare di qualche mese. Il punto è che per controllare la diffusione del virus da un lato, e dall’altro avere sotto controllo la sua gravità e dunque la sua letalità, sono fondamentali due infrastrutture: un sistema di somministrazione di tamponi adeguato e conseguente tracciamento e isolamento e un numero di posti proporzionati nelle terapie intensive. Sempre Ernesto Burgio in un’intervista a radio onda d’urto, sottolinea come non siamo di fronte a una nuova ondata o a un nuovo virus, siamo sempre all’interno di un ciclo pandemico che ancora non è esaurito, così come lo eravamo prima e durante l’estate. L’andamento della malattia da marzo in poi non è cambiato, così come la sua carica virale. In queste condizioni la sua virulenza è stazionaria, certo potrebbe migliorare o peggiorare. Ciò che fa la differenza è la percezione di una narrazione. Ora si fanno più tamponi, dunque siamo a conoscenza di più casi. Ciò che non fa la differenza è non essersi attrezzati abbastanza di fronte ai limiti strutturali che la pandemia ha messo in luce.
Siamo di fronte a una sfida tutta da giocare, pretendere che vengano effettuati tamponi in tempo e per tutti e tutte, pretendere che negli ospedali non si rischi di entrare in contatto con la malattia perchè non ci sono piani di gestione dell’emergenza tempestivi, pretendere che chi va a scuola non sia abbandonato nel limbo delle gestioni discrezionali di presidi più o meno sensibili alla situazione, pretendere trasporti sicuri, pretendere che se questo sistema economico per contenere i numeri dei morti debba fermarsi lo faccia, al momento giusto e in tempo.
FONTE: https://www.infoaut.org/editoriale/covid-19-di-nuovo-non-c-e-nulla-di-nuovo