26 maggio 2020, di Luca Attanasio
Si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra. I nostri padri utilizzavano questa nota frase dello scrittore latino Vegezio per giustificare campagne di guerra devastanti mettendole sotto l’insegna della ricerca della pace. Nei secoli, sembra che questo slogan abbia mantenuto tutta la sua attualità e continui a sfoggiare una vitalità invidiabile. Le spese militari nel mondo sono in spaventosa quanto inesorabile ascesa negli ultimi anni e, guarda caso, con esse i conflitti. Pur rischiando di smentire Vegezio, quindi, sarebbe stato più saggio e rispondente alla realtà scrivere “si vis bellum para bellum”, o, ancora più veritiero, “si vis pecunia, para bellum”, se vuoi essere sicuro di aumentare esponenzialmente i tuoi guadagni, produci, vendi, specializzati in armamenti.
Secondo il recentissimo rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) nel 2019 le military expenditures, hanno stracciato ogni precedente record superando la cifra di 1.900 miliardi di dollari; 1.917 per la precisione.
L’industria delle armi fiorisce tra crisi epocali e non smette di perdere appeal neanche in tempi di pandemie. In questi mesi in cui tutto il pianeta è stato segnato da un lockdown pressoché universale che ha costretto Paesi, comunità di Stati, continenti a rivedere bilanci e a riformulare piani economici decennali, il commercio bellico e le attività ad esso correlate non hanno conosciuto pause. Come denunciano 19 organizzazioni internazionali (tra cui Peace Pledge Union, Pax Christi o Campaign against Arms Trade) in una lettera aperta, in pieno periodo di lockdown globale, diversi eserciti nazionali hanno animato esercitazioni NATO, appena ridotte ma mai cancellate, e truppe inglesi continuano ad addestrare forze saudite coinvolte nell’atroce conflitto yemenita che non ha sperimentato neanche un accenno di cessate il fuoco. Secondo l’organo Global Times, poi, il budget destinato alla difesa nel 2020 dalla Cina, seconda nella classifica di spese militari dopo gli USA, potrebbe registrare un aumento stabile, incurante della crisi sanitaria, umanitaria ed economica innescata da Covid-19.
La ratio vendite di armi/guerre, ovviamente, è direttamente proporzionale. Secondo il sito Wars in the world, sono 69 i Paesi in cui sono in atto conflitti (a volte più di uno) e 837 le milizie, gli eserciti irregolari o i gruppi terroristici in azione nel mondo. Le guerre, in sostanza, non sembrano essere sfiorate dal Coronavirus e l’appello di papa Francesco e del segretario della Nazioni Unite António Guterres alla tregua universale è penosamente caduto nel vuoto. Come spiega Oxfam nel rapporto Il Coronavirus nelle aree di conflitto, 2 miliardi di persone sono intrappolate tra bombe e pandemia, una situazione che sta di fatto compromettendo definitivamente la possibilità di contenere la diffusione del Covid-19 in aree segnate da conflitti.
2000 miliardi circa di dollari è tantissimo, una cifra mai raggiunta prima. L’aumento, rispetto al 2018, è del 3,6 e del 7,2, rispetto al 2010. Tra i primi 7 Paesi a spendere per gli armamenti figurano i 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, notoriamente istituito per promuovere la pace all’indomani della Seconda guerra mondiale: primi gli Stati Uniti, 739 miliardi (l’America da sola contribuisce al 38% delle spese); seconda la Cina con 261, quarta la Russia con 65, sesta la Francia con 50 miliardi e settima l’Inghilterra con 49.
Negli ultimi anni gli USA hanno aumentato a dismisura gli affari per armamenti. Il successo che fino allo scoppio del Coronavirus registrava nei sondaggi il presidente Donald Trump, era in larga parte dovuto al buon andamento dell’economia che, come dimostrano ampiamente i dati, è basato per una consistente fetta sul giro di affari attorno alle armi.
Ma anche l’Italia gioca un ruolo preminente in questo macabro commercio. Nel 2019 ha speso 27,1 miliardi in armamenti, piazzandosi 12a nella triste classifica. Da gennaio ad oggi, l’industria delle armi nel nostro Paese (così come nel resto del mondo) ha continuato a proliferare come fosse una priorità nazionale. È di qualche settimana fa, tanto per citare un esempio, la notizia celebrata in pompa magna nel Paese della commessa ottenuta da Fincantieri che realizzerà le fregate di nuova generazione per la Marina militare statunitense. Un contratto da 800 milioni di dollari solo per la prima delle dieci navi in programma che ammonterà a 5,5 miliardi quando tutta la flotta sarà consegnata.
Se paragoniamo l’esborso economico richiesto dall’ONU per sostenere i Paesi più fragili nella loro lotta al Coronavirus ‒ 6,7 miliardi di dollari ‒ a quello che i Paesi affrontano per le armi, scopriamo che il secondo è 280 volte superiore.
Il buon Vegezio, quindi, andrebbe rivisitato e corretto. O quanto meno la sua infelice frase dovrebbe essere riformulata e adattata alla realtà: “si vis pacem, para pacem”. Il modo migliore per fare la pace è predisporla, un mezzo efficace sarebbe chiudere, almeno ridurre, il gettito di quel rubinetto che rifornisce di ogni sorta di armi, dalle mine antiuomo ai droni, dalle pistole alle fregate, il mondo intero.
FONTE: https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/pandemia_non_ferma_commercio_armi.html
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Il virus non ferma il commercio di armi
Nonostante l’emergenza pandemia, il commercio globale delle armi militari, che viaggia su camion, treni, navi e aerei resiste, così come proseguono i conflitti di varia intensità, sordi all’appello del cessate il fuoco lanciato dall’Onu. Come registra l’Acled, ci sono conflitti in almeno 150 paesi, e nel 2019 quelli convenzionali in Afghanistan, Yemen, Siria e Ucraina hanno dominato la scena, con il 61% degli eventi violenti mondiali.
Così, le produzioni di armamento destinate agli eserciti continuano, traendo dalla crisi Covid 19 nuove motivazioni, come il caso del Canada, chegiustificandola con lo sviluppo di nuovi posti di lavoro, sta revocando la sospensione, in vigore dall’assassinio di Jamal Khastoggi, di esportare armi militari in Arabia Saudita, 1° importatore mondiale con crescita 130% negli ultimi 5 anni, per rinegoziare un contratto di veicoli corazzati leggeri del valore di circa $10 miliardi.
Il governo delle Filippine, invece, lacerato da rivolte interne e in controversia territoriale marittima con la Cina, acquisterà sistemi di intercettazione aerea (valore $90 milioni) dalla nipponica Mitsubishi Electric, grazie al ridimensionamento del divieto di esportazione di armi deciso dal Giappone nel 2014.
Il 2° importatore mondiale di armamenti militari, l’India, nonostante stia affrontando il Covid-19 con pochi mezzi e blocco parziale di Internet nello Jammu e Kashimir (dove da tempo è in corso un conflitto interno), ha deciso di procedere all’acquisto 16.479 mitragliatrici leggere israeliane del valore di $116 milioni. Da quando Narendra Modi e Benjamin Netanyhu hanno legami stretti, l’India ha fagocitato il 46% dell’export israeliano di armi e dispositivi militari, che ha un traffico in crescita del 77%. Tale avanzata ha ristretto il campo commerciale della Russia, 2° esportatore mondiale, sceso in India di 16 punti, a quota 56%, che comunque la attesta primo fornitore del governo indiano. Nel 2019, la Russia ha incassato dalla vendita di armamenti militari oltre $15 miliardi, ed ha un portafoglio ordini che supera $53 miliardi.
Ma anche l’industria militare USA, 1° esportatore mondiale con traffici in 96 Paesi, sta guardando al mercato indiano, del valore stimato di oltre $6 miliardi per il biennio 2019-20. Trump, che appoggia l’espansionismo del settore, ha annunciato al Congresso un accordo di fornitura armi all’India del valore di $3 miliardi, mentre circa un anno fa, dopo l’Arms Export Control Act che gli ha consentito di scavalcare il Congresso, ha autorizzato la vendita di bombe di precisione e componentistica alla Arabia Saudita, che acquista dagli Usa oltre il 70% dei suoi ordini, e agli Emirati Arabi Uniti, 8° importatore mondiale, del valore complessivo $8 miliardi.
L’India di Modi, avendo ormai abbandonato la sua tradizionale politica pacifista, è in conflitto con il Pakistan – principale cliente della Cina, 5° esportatore mondiale con traffici in 51 paesi – che nel 2019 ha sfiorato una vera e propria guerra, destando timori internazionali per le armi nucleari di entrambi i paesi. Il governo indiano, a sua volta, sta lavorando per posizionarsi tra i principali esportatori di armamenti militari, ed è balzato al 19° posto nella classifica Sipri grazie all’aumento del 700% delle vendite; per il prossimo quinquennio l’India ha pianificato $5 miliardi di vendite, attraverso l’istituzione di un ente di promozione verso i paesi target e di un comitato per le aperture di credito agli importatori.
Nel Mediterraneo, Aselsan, principale appaltatore per la difesa della Turchia, che ha venduto 3.000 sistemi militari telecomandati da remoto a 20 paesi diversi, ha recentemente siglato un ulteriore accordo di vendita con un paese Nato, mentre l’Egitto, 3° importatore mondiale, ha caricato 40 container di armi e munizioni diretti al porto di Tobruk per le forze libiche di Khalifa Haftar. Egitto ed Emirati Arabi,entrambi coinvolti nei conflitti di Libia e Yemen, si riforniscono soprattutto dagli USA, ma hanno accordi anche con Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Spagna, Sudafrica, Svezia e Turchia. Insieme alla Giordania, in trattativa con l’Italia per un contratto di acquisto di oltre €8 miliardi, figurano in cima alla lista dei paesi fornitori di armi di Haftar.
Dai dati Sipri negli ultimi 5 anni anche le vendite europee di armi militari sono in forte ascesa. In Francia, 3° esportatore mondiale, segnano + 72%, con clienti principali Egitto, Qatar e India; mentre la Germania, 4° esportatore mondiale, in crescita del 17%, ha registrato circa €8 miliardi di vendite record nel 2019, di cui oltre 1 miliardo all’alleanza contro lo Yemen, e nel I trimestre 2020 ulteriori autorizzazioni all’esportazione per circa €1,2 miliardi. Nel Regno Unito, il cui export è cresciuto circa 4%, nel 2019 nonostante la corte di appello congelava le vendite potenzialmente utilizzabili contro lo Yemen, il principale produttore britannico di armi, BAE Systems, ricavava oltre $3 miliardi dalle vendite ai sauditi di armi e servizi collegati. Negli ultimi 5 anni la Gran Bretagna ha coperto il 13% degli acquisti sauditi di armi, del valore di circa $19 miliardi. Anche le vendite di Spagna e Italia sono cresciute, rispettivamente del 3 e del 2%.
Intanto, la Corea del Sud, grazie a un +143% di vendite all’estero, ha fatto il suo ingresso tra i primi 10 esportatori della classifica Sipri, che mostra la corsa del chi vende di più, alimentata dal mantenimento dei conflitti, in particolare nel Medioriente, che ha aumentato gli acquisti di armi da altri paesi di oltre 60%.
FONTE: http://www.shipmag.it/il-virus-non-ferma-il-commercio-di-armi/
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14 giugno 2020
Nemmeno la pandemia ferma la produzione di armi e le spese militari
Se durante l’emergenza Coronavirus il sistema sanitario nelle zone più colpite ha mostrato gravi difficoltà, c’è un settore che non sente la crisi e che non ha chiuso i battenti durante il lockdown. La produzione e l’export di armi non vanno mai in vacanza, le spese militari non si toccano.
Nel contesto della pandemia sono più indispensabili degli F-35 o dei respiratori, la produzione di armi da mandare all’estero o l’incremento del personale medico per fronteggiare l’emergenza? La risposta sembrerebbe scontata, ma non lo è.
Le spese militari italiane negli anni aumentano, cosa che non si può dire per la sanità o per l’istruzione. Reindirizzare le risorse destinate alla produzione militare verso altri settori importanti sarebbe possibile, ma è tutto nelle mani della politica e del business delle armi. Sputnik Italia ha raggiunto per una riflessione Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della rete Disarmo.
Se durante l’emergenza Coronavirus il sistema sanitario nelle zone più colpite ha mostrato gravi difficoltà, c’è un settore che non sente la crisi e che non ha chiuso i battenti durante il lockdown. La produzione e l’export di armi non vanno mai in vacanza, le spese militari non si toccano.
Nel contesto della pandemia sono più indispensabili degli F-35 o dei respiratori, la produzione di armi da mandare all’estero o l’incremento del personale medico per fronteggiare l’emergenza? La risposta sembrerebbe scontata, ma non lo è.
Le spese militari italiane negli anni aumentano, cosa che non si può dire per la sanità o per l’istruzione. Reindirizzare le risorse destinate alla produzione militare verso altri settori importanti sarebbe possibile, ma è tutto nelle mani della politica e del business delle armi. Sputnik Italia ha raggiunto per una riflessione Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della rete Disarmo.
— Negli anni si sono registrati continui tagli alla sanità pubblica, ma non alle spese militari. Francesco Vignarca, con l’emergenza Coronavirus si è visto il risultato di queste scelte politiche, no?
— Certamente, noi abbiamo sempre sottolineato che le spese militari durante le crisi di qualche anno fa non subivano tagli, ma solo dei rallentamenti. Quello che vediamo oggi è una ripresa di spesa militare, che già secondo noi era alta, si tratta di risorse per settori che ci sembrano poco necessari alla sicurezza e alla vita di tutti. Purtroppo la pandemia da Coronavirus l’ha dimostrato.
— Durante il lockdown non si è bloccata la produzione degli F-35, fra l’altro recentemente c’è stata la firma di un importante accordo di Leonardo con la Danimarca per dei sistemi di difesa navali. Possiamo dire che il settore delle armi non va mai in vacanza, nemmeno nei periodi di epidemia e di crisi?
— Esatto, non stiamo solo parlando della produzione di F-35, ma di moltissimi altri impianti di altre aziende di produzione militare. È stata una scelta del governo: nel momento in cui si andavano a decidere i codici delle tipologie di produzione economiche che dovevano rimanere chiuse non è stata toccata la produzione di armi.
È stata mandata una lettera dal ministro della Difesa e dal ministro dello Sviluppo economico ai vertici delle aziende delle armi. La questione era ancora più grave, perché si è lasciata libertà alle aziende. Il governo ha considerato “apicale” questo tipo di produzione e ha lasciato decidere alle aziende se chiudere o no. Per tutti gli altri comparti è stato giustamente il governo a decidere. Tutto ciò per produrre armi, non mascherine o respiratori…
— Fanno discutere inoltre le esportazioni italiane di armi verso Paesi come l’Arabia Saudita. Qual è la vostra posizione in merito?
— Ogni anno vengono prodotti i dati dell’export militare italiano, perché la legge 185 del ’90 obbliga il governo a produrre un report da mandare al parlamento per poi discuterlo. In questo caso abbiamo la possibilità di sapere quello che succede e di fare un’analisi di chi sono i destinatari. Dobbiamo rilevare che ancora una volta, anche per il 2019, il valore delle licenze rimane alto, oltre 5 miliardi. Inoltre per oltre il 60% i destinatari sono Paesi non UE e non NATO.
La legge prevede che l’export militare sia allineato alla politica estera dell’Italia. Noi continuiamo a vendere armi al di fuori del nostro perimetro di politica estera. In questi giorni abbiamo la campagna in corso per fermare ulteriori commerci verso l’Egitto per quanto riguarda la situazione dei diritti umani. Nonostante lo stop per alcuni tipi di armamento, c’è ancora un flusso delle armi italiane verso Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen. Il problema è che le armi italiane per la maggioranza vanno ad essere utilizzate nelle zone calde del mondo, in cui ci sono violazioni dei diritti umani. Secondo noi questo è contrario ai criteri della legge.
— Le spese militari per la NATO sono un capitolo a parte. Secondo lei rispecchiano veramente l’interesse nazionale?
— All’interno del bilancio italiano ci sono alcune centinaia di milioni che sono da un lato destinati ai costi della permanenza di basi militari statunitensi, altra cosa sono i costi relativi alla compartecipazione dell’Italia alla NATO.
Pensiamo che continuare ad investire su una risposta di sicurezza che è solo militare per mostrare i muscoli sia un errore. Riteniamo che tutto il mondo debba ridurre le spese militari. Se si reindirizzasse una fetta di queste spese ad altri settori avremmo dei vantaggi concreti per le persone e maggiore sicurezza. C’è chi dice che solo con più armi ed eserciti ci sia sicurezza e poi si lascia in povertà la gente. Bisogna rispondere ai bisogni della gente relativamente a povertà, sanità e istruzione. Queste sono le risposte concrete, non si fanno con le armi.
— La Difesa per un Paese vuol dire però anche posti occupazionali, ricerca e potere. Un’altra difesa è possibile?
— I ritorni economici sono solo per pochi. Ovviamente alcune persone dal commercio d’armi, dal mantenimento delle spese militari alte ci traggono profitto. La domanda è se vogliamo solo aiutare questo tipo di ambito oppure fare qualcosa che serva a tutti.
Noi crediamo che anche da un punto di vista economico puro le necessità sarebbero altre. Abbiamo lanciato una campagna nel 2014 che si chiama “Un’altra difesa è possibile” per chiedere l’istituzione in Italia di un dipartimento della Difesa civile non armata e non violenta. Chiediamo che i fondi vengano trasferiti su ambiti che davvero garantiscono la sicurezza. La sicurezza dà l’idea di qualcosa di muscolare e di forza. Questa è vera sicurezza? Noi parliamo di salvaguardia dell’ambiente, delle società, delle comunità e della vita di tutti. Questo secondo noi è possibile. La sicurezza non si costruisce su dei rapporti di forza in cui sei più armato, ma in rapporti di costruzione di società. Oggi rispetto al periodo dei nostri genitori viviamo in una situazione più sicura. Perché siamo più armati noi? No, si è costruito un determinato modello di società e di benessere. Investire per migliorare la vita di tutti è un vero investimento di sicurezza.