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Fuori Fase – 01 – epidemia e rendita
Fuori Fase – 02 – epidemia e lavoro
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RACCOLTA DI SCRITTI E ARTICOLI AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
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28 aprile 2020
L’emergenza generata dalla pandemia e l’inevitabile crisi economica che nei prossimi mesi colpirà il Paese, hanno posto al centro del dibattito pubblico la questione del reddito.
L’emergenza generata dalla pandemia e l’inevitabile crisi economica che nei prossimi mesi colpirà il Paese, hanno posto al centro del dibattito pubblico la questione del reddito. Il lockdown ha lasciato a casa milioni di lavoratori fra cui molti precari, P.iva, finti lavoratori autonomi; per molti è scattata una riduzione dei redditi, ora garantiti da cassa integrazione o altre forme di contratti di solidarietà; migliaia di microimprese artigianali e commerciali sono ferme da settimane, alcuni hanno ricevuto il sostegno di quarantena mentre altri non hanno ricevuto alcunché. Tra Decreto Cura Italia e altri provvedimenti adottati o in discussione per la prevista “fase2”, nell’attesa di capire su scala europea quali risorse verranno messe a disposizione e a che costo, Governo ed Enti Locali hanno posto massima attenzione al problema della liquidità in direzione delle imprese e, solo in seconda battuta, la questione reddito dei lavoratori, sgravati dai bilanci aziendali grazie al ricorso della cassa integrazione oppure abbandonati ai loro amari destini. A pagare saranno e sono in primis i lavoratori meno tutelati, un’ampia fascia di soggetti deboli che hanno già iniziato a pagare i costi di questa emergenza. Anche per i “più tutelati”, l’epidemia rischia di riservare sorprese se, come gli indicatori sembrano prevedere, la crisi economica dei prossimi mesi “picchierà duro”, con forti ricadute su Pil, salari e tasso di occupazione. Questa situazione, in un Paese come l’Italia, con un sistema di ammortizzatori sociali insufficienti e non universali, è inevitabile fonte di ulteriore divaricazione economica e crescita delle disuguaglianze sociali. La crisi colpirà di più coloro che lavorano in quei settori dove più prolungate saranno le misure preventive e di distanziamento sociale (per esempio chi lavora nei settori dello spettacolo, della cultura, degli eventi, soprattutto a Milano), ma anche chi ha forme di contratto e rapporti di lavoro più deboli. Il reddito da lavoro, allo stato attuale delle misure di welfare esistenti, diventa in sostanza sacrificabile nell’emergenza e con esso i diritti di migliaia di persone.
Da più parti è arrivata la proposta, sorretta anche da una petizione popolare, per trasformare ed estendere il Reddito di Cittadinanza (sostegno universale, per occupati e non occupati); altra proposta è quella del Reddito di Quarantena (sostegno ai lavoratori colpiti dalla crisi). Anche organismi internazionali e personaggi insospettabili come Draghi hanno fatto dichiarazioni, innovative dal loro punto di vista, che richiamano una sorta di basic income universale, con la proposta del Reddito di Emergenza, anche se visto più come sostegno ai consumi che come Reddito di Base Incondizionato, che nel decennio scorso era stata, invece, la richiesta prioritaria di ampie fette del mondo del precariato e delle lotte sociali del periodo. Sul versante della pratica l’esempio di Hong Kong pare deponga a favore del sostegno al reddito universale. Proprio queste ipotesi più ampie di intervento, svincolate anche dal concetto di reddito da lavoro, trovano ulteriore fonte di legittimità dalla particolare evoluzione del sistema economico, che vede eccellere il nostro Paese (soprattutto alcune zone come la Lombardia e Milano in primis): il reddito da lavoro è solo una parte del reddito totale prodotto dal territorio. E’ sempre più rilevante la porzione di reddito ricavata dalle rendite derivate dal patrimonio immobiliare. A fronte dell’emergenza Covid19 le caratteristiche e la concentrazione del patrimonio edilizio privato, l’offerta abitativa e lo stato delle politiche abitative pubbliche diventano ulteriori elementi di disuguaglianza e precarizzazione delle vite.
L’affitto è una rapina?
I provvedimenti economici delle scorse settimane, da questo punto di vista, hanno avuto un impatto minimo, intervenendo solo sul fronte dei mutui (su cui è stata prevista la sospensione delle rate da contrattare comunque con la banca creditrice), mentre poco o nulla è stato fatto sul fronte affitti, lasciando migliaia di persone delle classi sociali più deboli, spesso precarie o con lavori a tempo determinato, di fronte all’alternativa di pagare l’affitto o fare la spesa ovvero di sperare nella magnanimità del proprietario compassionevole o illuminato. A fronte delle quattro milioni di famiglie circa, che vivono in appartamenti affittati a privati, di cui Unione Inquilini stima siano almeno 200.000 quelle già nell’impossibilità di pagare l’affitto a causa della crisi, il Decreto Cura Italia ha semplicemente previsto la possibilità di ricontrattare l’affitto. Visto i rapporti di forza che normalmente esistono tra proprietari e affittuari è difficile immaginare che siano in molti a beneficiare di eventuali sconti sui canoni. Anche sul fronte sfratti, il Decreto prevede il loro blocco fino a settembre, ma solo per le procedure di sfratto per morosità già pendenti. Analogamente, come da tradizione parlamentare consolidata, a fronte dell’enorme fabbisogno economico dei prossimi mesi resta tabù la questione di un’imposta patrimoniale che colpisca le grosse rendite immobiliari e mobiliari. Immune agli sconvolgimenti che l’epidemia sta creando, la rendita immobiliare sembra assoluta e intoccabile, non è mai messa in dubbio, sia come flusso degli introiti da affitto che genera che come valore in sé. Intanto quanti sono costretti a pagare un affitto tutti i mesi a fronte di un reddito che non percepiscono o che è decurtato di una parte? Quanti piccoli esercizi commerciali o botteghe artigiane o lavoratori autonomi vivono queste settimane con l’ansia terribile perché hanno le attività chiuse ma la rata d’affitto “aperta”? E’ il trionfo del debito privato, un debito che assume sempre più le forme di debito detestabile.
Non è comunque solo il mercato immobiliare a non essersi dimostrato all’altezza dell’emergenza Covid19: le politiche pubbliche relative all’abitare e gli effetti nefasti, che una voluta assenza di controllo e regolamentazione sul mercato degli affitti a breve hanno avuto in una situazione come quella che stiamo vivendo, hanno consentito il proliferare di danni collaterali che diverranno sempre più evidenti. Basti pensare, nell’emergenza, al problema degli spazi dove far trascorrere le quarantene ai guariti dal virus o ai contagiati asintomatici, ovvero dove poter alloggiare le persone in tutti quei casi di sovraffollamento abitativo che rendono impossibile delle quarantene sicure. Oppure alla necessità di provvedere a sistemare le migliaia di senzatetto o di migranti senza un domicilio stabile. Fece scalpore la fuga di migliaia di precari e studenti fuori sede da Milano nei primi giorni del lockdown, ma come avrebbero potuto continuare a viverci senza lavoro, e con le Università chiuse, dovendo far fronte ad affitti da capogiro?
La dicotomia Diritto All’Abitare – Rendita diventa quindi centrale nella fase attuale se non vogliamo che le macerie sociali che il Covid19 lascerà siano gravi quanto la tragedia umana e sanitaria che stiamo vivendo. Come accade per il rapporto fra capitale e lavoro, dove la contrapposizione tra salute e profitti richiama il bisogno di uno sbilanciamento a favore della salute, così riaffermare la priorità del Diritto all’Abitare sulle rendite immobiliari significa recuperare risorse economiche fondamentali in una situazione di crisi e anche, di conseguenza, rimettere in moto un ciclo virtuoso di politiche pubbliche sulla città che smontino i processi di gentrificazione, turistificazione e privatizzazione dello spazio pubblico che le nostre città, Milano su tutte, stanno vivendo. Come fare per attaccare la sacralità della rendita immobiliare? Quali azioni concrete si possono mettere in campo da parte delle lotte sociali? Come possiamo uscire dalla crisi Covid19 avendo spostato gli equilibri sociali verso una nuova primavera del Diritto alla Città?
Il punto di partenza non può che essere quello di smontare la “sacralità” e l’intoccabilità delle rendite immobiliari, che devono diventare toccabili, decurtabili, sacrificabili esattamente come lo è, purtroppo, il reddito da lavoro, essendo flussi di ricchezza costanti e per lo più riconducibili a soggetti (privati o società) che sicuramente pagheranno meno di altri le conseguenze economiche della crisi epidemica, smascherando al contempo chi sono questi soggetti figli di potentati dai tratti oscuri (anche fiscalmente). Un meccanismo fiscale di tipo patrimoniale potrebbe essere utile, ma come dicevamo non sembra nelle corde del Governo. La riflessione potrebbe partire da lontano, ad esempio dal censimento degli immobili (catasto) e dalla valutazione del patrimonio immobiliare, distinguendo poi tra tre macro-categorie (che evidentemente non sono da considerarsi fisse ma continuamente permeabili): immobili di proprietà, immobili resi disponibili per l’affitto (breve, lungo o brevissimo), immobili lasciati vuoti.
Possono le lotte sociali sopperire, in parte, su questo fronte? E, se si, come?
“Rent Strike” e patrimoniale
La dinamica della relazione tra proprietario e affittuario è complessa, e si muove in uno scenario normativo molto articolato e fortemente sbilanciato a tutela dell’interesse dei proprietari e non degli affittuari. Dalla fine dell’equo canone (introdotto da una legge del 1978 e abolito definitivamente nel 1998) la nostra normativa non è riuscita a trovare strumenti sufficientemente adeguati per tutelare il soggetto “debole” e nemmeno il cosiddetto “normale” che per pagare l’affitto (casa o luogo di lavoro) impegna a volte anche la metà del proprio reddito. in questo quadro le risposte che gli inquilini hanno di fronte a situazioni di difficoltà come quella attuale possono essere di tipo resistente (non pago) o rivendicativo a tutela dei soggetti deboli.
La prima risposta uscita nella crisi, soprattutto negli USA e in altri paesi europei è stato il Rent Strike, lo sciopero degli affitti, che ha visto lo scorso 5 aprile la prima giornata di mobilitazione globale, ripresa anche da alcuni collettivi a Bologna e Roma. Il diritto all’insolvenza, parola d’ordine delle mobilitazioni globali in occasione della crisi economica-finanziaria di fine anni zero, viene visto come la risposta più immediata ed efficace, ma non può essere la sola, così come la scelta di occupare lo sfitto, che è la soluzione estrema ma non percorribile o praticabile sempre. Le risposte messe in atto sono in continua evoluzione e la situazione, da questo punto di vista è fluida; al momento si segnala il tentativo di diversi soggetti territoriali (Rent Strike Bologna, la campagna ASIA-USB solo per citarne un paio) di formare una rete nazionale (https://scioperodegliaffitti.noblogs.org/) che porti avanti in modo collegiale alcune rivendicazioni. In primis l’annullamento dei canoni d’affitto per i mesi della crisi, non come si parlava in un primo momento la sospensione, così da non generare ulteriore indebitamento gli inquilini; e poi il blocco dei costi delle utenze, che al pari dell’affitto, gravano sul bilancio famigliare di chi ha perso il lavoro. Lo sciopero dell’affitto è una risposta rapida, catalizzatrice di forze sociali unite da un bisogno molto concreto, eppure rischia di avere una portata limitata se parallelamente non si incide sulle politiche abitative pubbliche, sulla pianificazione urbanistica, sullo sfitto. Anche perché, come prefigurano gli esperti del settore, inevitabilmente la crisi economica che attraverseremo nei prossimi mesi avrà riflessi anche sul mercato immobiliare e sui tanti interventi edilizi che, specie a Milano, sono in corso o in previsione.
Potrebbe essere interessante in questa fase, parallelamente a forme di lotta, prevedere e rivendicare la possibilità “legale” di non pagare l’affitto; regolamenti e procedure che permettano al locatario di non pagare alcuni mesi di pigione al locatore senza che l’affittuario venga immediatamente denunciato, sgomberato, multato, pignorato o messo in cella. Per esempio un’azione legislativa che depenalizzi e renda legale il “balzo” dell’affitto in casi di necessità economica, andando ad intaccare così il diritto, apparentemente inalienabile, del proprietario in una sorta di mini patrimoniale, magari bilanciato da misure che rendano accettabile anche per quest’ultimo la mancata riscossione dei canoni (defiscalizzazione del mancato affitto percepito). Altre misure, come il sostegno agli affitti, distribuito come finanziamento una tantum da regioni o comuni, o gli accordi su base volontaria tra proprietari e inquilini, sono state attuate, a partire dalla metà del mese di marzo, ma si tratta comunque sempre di palliativi che transitano rapidissimo e senza lasciare tracce davanti agli occhi dei soggetti in difficoltà e finiscono comunque per alimentare sempre le tasche di coloro che detengono la rendita e che in questo modo non subiscono nessun danno economico. Diverso il discorso nel caso di ricorso all’esproprio per pubblica utilità, provvedimento estremo, ma che potrebbe essere una soluzione per le grandi aree metropolitane come Milano, con migliaia di alloggi sfitti o destinati ad affitti temporanei e di cui parliamo nel paragrafo successivo.
Se pensiamo, invece, a interventi strutturali, questi non possono che essere sul lato dell’offerta abitativa. Veniamo da anni di situazione “ingessata” dentro alcuni paletti apparentementi inviolabili e diventati un postulato che ha fatto breccia nella società e nella politica, ossia che la soluzione ai fabbisogni abitativi, in assenza o nel fallimento delle politiche di edilizia residenziale pubblica e popolare, possa e debba venire solo dagli operatori privati (grandi o piccoli che siano) o da cooperative sempre più simili per dimensioni e costi alle immobiliari. A questi soggetti è lasciato il compito di rispondere ai bisogni delle fasce sociali popolari con l’housing sociale, che lascia fuori, comunque, ampi strati di povertà, precarietà e marginalità abitativa. Perchè non pensare, allora, anche a soluzioni innovative, a nuove forme di cooperazione sociale e indivisa, all’autorecupero dello sfitto abbandonato, a soluzioni che rompano gli attuali assetti del mercato immobiliare e aprano nuove strade per soddisfare il Diritto all’Abitare.
Un altro ragionamento andrebbe sviluppato per le micro attività economiche, artigianali, del lavoro autonomo e, soprattutto, sui piccoli esercizi commerciali che rischiano di non riaprire, strangolati dall’affitto e da un bilancio che già prima della crisi era complicato. Questi sono l’ossatura del tessuto urbano e la loro pubblica utilità in questo caso è ancora più evidente. Il rischio di una città del dopo crisi in cui scompare il commercio al dettaglio e rimane tutto in mano alla Grande Distribuzione Organizzata è elevato, e prefigura una “forma urbis” devastata e arida.
Infine la fase di crisi induce a pensare, come già detto, in modo serio ad un provvedimento di tipo patrimoniale, nonostante il sindaco Sala abbia detto con delicatezza che: “Il Pd, il partito di cui non ho la tessera ma in cui mi riconosco, propone una tassa destinata a chi ha redditi più alti. Non penso sia una buon idea, e chiedo di rifletterci. Le tasse devono funzionare con un principio equità sociale ma questo è il momento di non creare differenze, di non dividerci. Piuttosto chiamiamo alla generosità gli italiani che in questa fase stanno dimostrando di essere molto generosi“. La patrimoniale, attuata in modo progressivo, severa ma giusta. dovrebbe andare a toccare anche le rendite derivanti dagli immobili, e quindi, utilizzando queste risorse, avrebbe senso la politica del sostegno dell’affitto di cui sopra. Una patrimoniale seria, tuttavia, dovrebbe riguardare anche i capitali e le rendite di natura finanziaria.
Il modello Milano
Le contraddizioni di decenni di assenza di politiche abitative pubbliche e di pianificazione urbana attenta solo agli interessi degli operatori privati, sono emerse subito nei primi giorni della crisi epidemica a Milano. Il dato nazionale, da cui Milano non diverge, parla di un patrimonio di edilizia pubblica sul totale delle abitazioni del 4.5%. Per dare un senso a questo rapporto, facciamo la comparazione con altri paesi: è il 34,6% nei Paesi Bassi, il 21% in Svezia, il 20% in Danimarca, il 17% in Francia, il 14,3% in Austria, l’8% in Irlanda, il 7% nel Belgio, il 6,5% nella Germania. A Milano è il 5%, per intenderci. Sugli alloggi sfitti si continua a parlare di cifre attorno ai 70 mila e la crescente destinazione ad affitti a breve di una buona fetta della città rende sempre di più sfuggente la consistenza di tali dati. La città non è mai riuscita ad affrontare e risolvere il problema di individuare alloggi da destinare alle quarantene ovvero a separare malati e sani in quei nuclei familiari numerosi o nei casi di elevata densità abitativa negli appartamenti. Non solo, ma nel frattempo ci sono stati sgomberi nonostante l’annunciata moratoria e nessuna soluzione è stata trovata per i tanti senzatetto, migranti o meno che fossero. Per affrontare il problema quarantene, ma anche per ospitare il personale sanitario accorso a supporto di quello locale per l’emergenza, il sindaco Sala è arrivato a proporre accordi con alberghi e ha sollecitato gli host di Airbnb a mettere a disposizione alloggi idonei (e le società immobiliari non hanno perso occasione per un pò di social washing a fronte di una piccola rinuncia sui guadagni), quando avrebbe potuto adeguare qualche appartamento del patrimonio immobiliare del Comune per offrire quel minimo di ospitalità dovuta. Oppure, più suggestivo, la giunta della touristification avrebbe potuto a fronte di pubblica utilità appellarsi al codice civile (art. 834) ed agire direttamente attraverso un provvedimento ablativo, ovvero un esproprio temporaneo (peraltro indennizzato) per pubblico interesse. Un provvedimento forte, certo, ma a fronte di emergenze come quella che stiamo vivendo, anche “il mattone”, il patrimonio immobiliare (inteso ovviamente esclusa la casa dove si vive e risiede), può e deve essere soggetto a discussione e visto come risorsa cui attingere fisicamente o tramite imposizione fiscale. Nel caso invece dell’offerta Airbnb, parlare oggi di sharing economy o di opportunità per aumentare gli introiti di chi ha mq in esubero è assolutamente fuori luogo nel momento in cui a Milano il 40% delle inserzioni (7.016 su un totale di 17.000) è fatta da soggetti (privati o società) che offrono almeno da due appartamenti in su.
In un quadro come quello milanese la questione abitativa potrebbe essere uno dei problemi maggiori dei prossimi mesi per le questioni sin qui sollevate. In un mondo in cui all’assenza di lavoro si sopperisce con un assegno da 600 euro, mediamente forse si arriva a pagare l’affitto di una stanza (superiore a 600 euro) Questo è il prezzo da pagare ad un mix di fattori: aumento della domanda di affitti a fronte di una diminuita offerta, processi di turistificazione e gentrificazione di ampie parti della città con conseguente spinta al rialzo dei prezzi e, soprattutto, crescita smisurata dell’offerta per affitti a breve. Offerta di case per turisti e “Airbnb” hanno portato anche alla trasformazione del tessuto economico e sociale dei quartieri, con sviluppo di un’offerta di attività commerciali di vicinato più attenta a rispondere alle esigenze di shopping o di alimentazione del turista di passaggio piuttosto che ai bisogni quotidiani di chi vive Milano.
Il cocktail tra caratteristica dell’offerta abitativa e condizioni di precarietà economica e lavorativa che interessa ampie fasce di popolazione potrebbe diventare esplosivo a fronte di una città che difficilmente potrà tornare (e noi lo speriamo) a quel modello Milano tanto decantato e venduto al mondo. Un modello che proprio su queste migliaia di precari basa quotidianamente la sua economia e che ai flussi turistici, oggi e chissà per quanto impensabili, ha dedicato ogni attenzione e facilitazione. Covid19 e crisi economica porteranno a rivedere il modello Milano a danno presumibilmente dei servizi alberghieri, meno flessibili e più costosi, con problemi (quanti alberghi saranno in grado di adottare soluzioni di minor capienza per poter aprire? O gli interventi di parziale ristrutturazione necessaria?) che invece potranno essere gestiti dall’offerta Airbnb, con il rischio di incrementare la spinta alla “airbnbizzazione” della città e che diminuisca ulteriormente l’offerta di alloggi per affitti di lungo periodo, salvo scelte coraggiose della politica (in primis di natura fiscale sugli host) ad oggi lungi dall’essere una priorità.
Note:
[1] Immagine di copertina su gentile concessione di Pezzi Impazziti: https://www.facebook.com/pezzimpazziti/
[2] http://www.unioneinquilini.it/public/doc/Fabbisogno_di_abitazione_a_Milano_e_nella_provincia_84821.pdf
[3] https://www.arcipelagomilano.org/archives/54380
[4] https://www.investireoggi.it/economia/prezzi-affitti-milano-tra-le-citta-piu-care-deuropa-ecco-quanto-costa-una-stanza/ per un monolocale la media è di 772 euro e https://www.corriere.it/economia/consumi/cards/case-affitto-milano-trilocale-costa-1370-euro-mese-napoli-meta/situazione-affitti-italia_principale.shtml
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FONTE: https://www.offtopiclab.org/diritto-allabitare-e-rendite-immobiliari-nella-crisi-covid-19/