23 ottobre 2020
Sfuggire al lockdown della nostra iniziativa politica. Questo è il compito che abbiamo davanti. Dobbiamo impedire che le giuste critiche alla gestione della pandemia, le doverose risposte ai deliri di chi nega la minaccia alla salute collettiva, lo sconcerto e lo sconforto di fronte all’andamento del contagio esauriscano nelle parole ciò che invece dobbiamo fare. Mentre ci dicono che gli affari correnti devono andare avanti come se nulla fosse, l’occasione della pandemia viene usata per ristrutturare e modificare radicalmente non solo questo o quel settore industriale o amministrativo, ma il quadro complessivo dei rapporti sociali.
Una violenza sorda si aggiunge ogni giorno alla povertà strutturale, alla ferrea coazione al lavoro, a un patriarcato mai morto, allo sfruttamento intensivo del lavoro migrante. Queste sono le costanti sulle quali ogni discorso deve inevitabilmente ritornare, pena la sua inconsistenza. Nonostante il presente pandemico possa sembrare un’eccezione assoluta, al suo interno sono presenti processi che da tempo stanno costruendo la loro normalità e che ora stanno solo accelerando o prendendo nuove e inaspettate direzioni. La nostra iniziativa politica può solo collocarsi all’interno di questi processi. E sovvertirli.
L’Unione Europea sta cogliendo l’occasione della pandemia per consolidarsi come centro di direzione politica transnazionale capace di dare forma ai processi economici e sociali di lungo periodo. Persino elementi di pianificazione ‒ rifiutati per decenni come antitesi della libertà di mercato ‒ oggi entrano in scena per soccorrere un neoliberalismo in crisi che si ritrova obbligato a ricorrere a politiche redistributive e a originali ristrutturazioni del debito pubblico per adattarsi al presente e salvaguardare le proprie consolidate attitudini. Sotto l’etichetta dei «piani di ripresa» si annunciano nuove modalità di organizzazione della produzione e della riproduzione sociale. Se solo potessero, padroni ed economisti dichiarerebbero per decreto la fine della pandemia, azzerando così ogni sostegno al lavoro vivo che non passi per la produzione dei profitti. In Europa e non solo la parola d’ordine è resilienza, che significa soltanto accettare le batoste senza lamentarsi troppo, perché è giusto e normale che sia così. La pandemia ha investito con forza i movimenti; ha creato l’occasione per lotte e scioperi imprevedibili di donne, operai e migranti nei settori essenziali, ma ha anche modificato gli spazi, i mezzi e le condizioni dell’iniziativa e dell’organizzazione al punto da richiedere una profonda trasformazione dei modi abituali di azione politica. L’urgenza di introdurre innovazioni nelle pratiche politiche e organizzative ha però smesso da tempo di essere una novità. Eppure, non possiamo smettere di provarci, di riconsiderare quello che sappiamo per introdurre elementi di rottura effettiva. Senza alcuna indulgenza verso noi stessi e senza nessuna concessione alla resilienza.
L’Europa che c’è
L’Unione Europea dunque c’è. La retorica orgogliosa e bugiarda del discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen ha esplicitato la pretesa di approfittare della pandemia per superare quella che fino a pochi mesi fa appariva come l’evidente impotenza del comando politico europeo. D’altra parte, la stagione del sovranismo è al tramonto. Non solo per i risultati elettorali vecchi e nuovi, ma anche perché gli Stati riluttanti devono adeguarsi alle condizioni dell’Unione se vogliono beneficiare dei suoi fondi. Così, l’UE può trasformare il contagio nell’occasione per rivedere gli accordi di Dublino impedendo, o almeno rendendo più complicato per gli Stati membri di sfruttare le migrazioni come terreno di negoziazione politica con l’Unione. Non deve più ripetersi ciò che è accaduto nel 2015, quando il movimento impetuoso e di massa delle e dei migranti sulla rotta balcanica ha messo a nudo i limiti sovrani che gli stessi accordi di Dublino legittimano. Non è detto che questa ristrutturazione abbia successo, e certamente l’Europa dovrà scontrarsi ancora coi suoi Stati riottosi. Di certo non soddisferà la domanda di libertà sollevata quotidianamente dalle e dai migranti. Sgombriamo il campo da ogni dubbio: non siamo alla vigilia di una nuova Europa dei diritti. Quell’equilibrio fra «responsabilità e solidarietà» tra gli Stati, di cui parla von der Leyen, indica piuttosto l’intenzione di imporre un nuovo ordine a quella libertà, così da gestire su scala più ampia i respingimenti, i rimpatri e i ricollocamenti, in funzione della domanda interna di lavori «essenziali» e non, senza rinunciare a spingersi fuori dai confini dell’Unione tramite accordi come quelli con la Turchia, la Libia o i paesi dell’Est. I migranti classificati come economici saranno sempre e comunque riaccompagnati oltre le frontiere, sebbene nel rispetto di quell’impostazione umanitaria che Frau von der Leyen ha rivendicato di fronte alle critiche da destra. Il nuovo accordo di Dublino non stabilirà solo chi può entrare in Europa e a quali condizioni, ma anche quale posto donne e uomini occupano nella gerarchia del lavoro migrante. Il paese europeo di destinazione significherà differenze di salario e di prestazioni sociali e determinerà il livello di svalutazione sociale che migranti e richiedenti asilo dovranno subire attraversando le frontiere interne dell’EU. Il permesso di soggiorno continuerà a essere una tassa sulla riproduzione della propria esistenza che ovunque in Europa i migranti e le migranti dovranno pagare.
Il nuovo accordo di Dublino detterà le condizioni di utilizzo della forza lavoro migrante nei campi, nei magazzini della logistica, in piattaforme come Uber, nel lavoro di cura all’interno delle case e delle strutture sanitarie. Lo sanno benissimo i collettivi di migranti che dalla Francia e alla Slovenia, dalla Spagna e all’Italia, ma anche dalla Turchia al Marocco e al Libano hanno costituito un Transnational Migrants Coordination per contrastare le politiche europee sulla loro stessa scala transnazionale, andando oltre le specifiche condizioni e legislazioni nazionali, ma soprattutto andando oltre la divisione tra gli immigrati di oggi e quelli di domani. Solo l’iniziativa politica delle e dei migranti può violare realmente i confini dell’Unione Europea e degli Stati confinanti: è chiaro che nessuna richiesta di trattamento umanitario alle frontiere d’Europa è veramente credibile se non considera lo sfruttamento del lavoro migrante, che avviene tanto all’interno dell’Unione Europea quanto attraverso le sue frontiere orientali e meridionali.
Transizioni e riproduzioni
Anche grazie alla revisione di Dublino, la «Next Generation Europe» prevista dal nuovo piano di finanziamenti dell’UE dovrà agire come uno Stato transnazionale che, almeno negli intenti, sia in grado di amministrare risorse e forza lavoro con dimensioni e modalità senza precedenti. Quella del Recovery Plan è un’Unione che non limita più la spesa pubblica, ma al contrario la finanzia e la struttura, imprimendole una direzione e degli obiettivi molto chiari: transizione ecologica, transizione digitale, innovazione e competitività dell’industria 4.0, resilienza e sostenibilità sociale di fronte a crisi e catastrofi come quella pandemica. Questi obiettivi di medio e lungo termine stabiliscono i contenuti di un modello di riproduzione della società in cui la povertà minima garantita deve coniugarsi con la coazione al lavoro. La crisi pandemica ha intensificato una tendenza che era già chiara ed evidente: la povertà senza condizioni prodotta dalle politiche neoliberali stava ormai minacciando la tenuta sociale di molti Stati e quindi della stessa Unione. Decenni di compressione dei salari, della spesa sanitaria, dell’istruzione e dei trasporti pubblici stavano diventando una minaccia diretta alla riproduzione della vita di milioni di uomini e di donne in Europa, che sono sempre meno disposti ad accettare questo destino. L’occasione pandemica è stata immediatamente colta per fare i conti in tasca al neoliberalismo europeo. E i conti non tornano. Di fronte alla pandemia si è dunque dimostrato che i cordoni della spesa pubblica potevano e dovevano essere riaperti: non per tornare ai vecchi e cari diritti sociali, ma per ridefinire le linee di un welfare di sopravvivenza, differenziale e premiale, che sostituisce il salario con sussidi temporanei e riproduce e rafforza le gerarchie esistenti.
Il welfare che verrà non consisterà in un catalogo di diritti sociali e di sussidi contrattabili, ma sarà definito dal suo rapporto stringente con quel salario minimo europeo del quale più volte von der Leyen ha affermato la necessità. Esso è prima di tutto un minimo da adeguare al costo della vita nei singoli Stati ‒ che non intacca i differenziali salariali che strutturano le catene transnazionali del valore ‒ per consentire a lavoratrici e lavoratori di riprodursi in una povertà minima garantita, condizionata e tollerabile. Dissolta dalla realtà dei rapporti di forza, l’idea incongruente di poter semplicemente contrapporre un reddito più o meno garantito al salario, puntando di conseguenza su politiche meramente redistributive, è oggi inevitabile registrare la loro connessione stringente. Non è mai troppo tardi. Come è ormai evidente da tempo, il reddito viene sempre più amministrato come salario supplementare, ovvero come strumento per contenere i salari, e funziona in questo modo anche dove è previsto a regime un qualche reddito di cittadinanza. Ciò è ancora più vero in Italia dove l’attuale reddito di cittadinanza, nonostante venga bollato insieme alla quota cento come l’unico ostacolo alle sorti magnifiche e progressive della ripresa economica, altro non è che un reddito di povertà che ha consentito a migliaia di persone di sopravvivere negli ultimi mesi in cui le occupazioni precarie si sono trasformate in disoccupazioni continuative.
La rapace volgarità di Confindustria certo non è così significativa nel contesto europeo e transnazionale. Tocca però parlarne perché le sue posizioni saranno decisive per il modo in cui il rapporto tra reddito e salario peserà sulla vita di milioni di donne e di uomini in Italia. Le pretese di Bonomi mostrano però come sia destinata all’inefficacia qualsiasi ipotesi politica che contrapponga la riproduzione del lavoro vivo a quelle che vengono presentate come indiscutibili necessità produttive. Si tratta invece di ricostruire e forzare continuamente il nesso tra salario e reddito non considerandoli mai e in nessun luogo separatamente. Se uno è il presupposto dell’altro e viceversa, ogni iniziativa politica deve prendere le mosse dalla loro connessione, per non finire per confermare la tendenza che fa di un welfare misero il supplemento di un salario povero. Deve essere chiaro che i presupposti del reddito sono nei luoghi di lavoro precari e frammentati, così come i presupposti del salario sono nelle condizioni sociali che stabiliscono come e quanto ci si può riprodurre con quel salario. Il reddito 4.0 sarà parte integrante dell’industria 4.0 e il Recovery Fund è il piano finanziario che stabilisce i criteri organizzativi e politici della società post-pandemica.
L’università 4.0 come piattaforma
Da questo punto di vista è centrale la connessione tra l’industria 4.0 e le trasformazioni che nella pandemia stanno investendo la scuola e l’università, non solo in Italia. All’internet delle cose ‒ alla realtà della produzione di merci comandata dalla logica dell’algoritmo ‒ deve necessariamente corrispondere un internet dei cervelli, ovvero una produzione e trasmissione del sapere che ne aumenti ulteriormente la forza produttiva sociale. La didattica a distanza e la sua costante valutazione, la precarizzazione di ampi strati di docenti, ricercatori e ricercatrici, il fatto che l’Unione Europea sia la principale e spesso l’unica fonte di finanziamento della ricerca non sono solo effetti temporanei di un momento eccezionale. Sono annunciati finanziamenti senza precedenti, ma essi serviranno a riorganizzare l’intero ciclo della formazione: l’università dovrà collegarsi definitivamente con le richieste del mercato, fornendo non solo sapere più o meno qualificato, ma anche forza lavoro semi-qualificata per infiniti tirocini; la formazione professionalizzante sarà gestita da imprese private, che in questo modo potranno continuare a fare profitti sugli stessi lavoratori e lavoratrici licenziati poco prima. La pretesa nemmeno tanto nascosta è di sottrarre le università al loro rapporto con il territorio, per trasformarle in piattaforme della conoscenza non differenti dalle altre piattaforme attorno alle quali si sta riorganizzando il capitalismo contemporaneo. Sono processi già in atto, ma che con l’occasione della pandemia stanno cercando e spesso raggiungendo la loro forma e legittimazione definitiva. Lo squilibrio dei finanziamenti della ricerca a favore dei progetti europei corrisponde al fatto che essa è ormai concepita quasi esclusivamente come sostegno alle linee di policy decise dalla Commissione. A questo corrispondono sia un aumento dell’intensità del lavoro accademico, sia un imbrigliamento della ricerca all’interno di strutture di governance organizzate per obiettivi e risultati attesi, nelle quali è tendenzialmente lo spazio per percorsi alternativi. In questo contesto la nostra iniziativa politica deve costruire progressivamente le condizioni per opporsi all’internet dei cervelli coinvolgendo tutte le figure che partecipano e subiscono questo cambiamento verso l’università 4.0. Bisogna costruire momenti di riflessione collettiva sulla comprensione stessa della scienza e del sapere sociale, in vista di iniziative che mostrino l’esistenza di forme di cooperazione in grado di sottrarre la produzione e la riproduzione del sapere all’università come piattaforma.
Riproduzione e insubordinazione
In questi mesi la scuola nel suo complesso ha mostrato lo stretto e costitutivo legame tra produzione e riproduzione sociale e le sue fondamenta patriarcali: non solo moltissime madri sono state obbligate a lasciare il lavoro, ma moltissime insegnanti hanno dovuto lavorare occupandosi contemporaneamente di seguire i figli propri e altrui nella didattica a distanza, mentre operaie, domestiche, infermiere, donne delle pulizie non hanno potuto farlo perché i loro lavori «essenziali» richiedono mani, fatica, presenza e cura che non possono essere digitalizzati. I dati disponibili sull’abbandono «volontario» del lavoro ‒ cioè obbligato dalla necessità di occuparsi dei figli durante il lockdown, e sugli «infortuni Covid-19» sul lavoro, che colpiscono soprattutto coloro che svolgono lavori «essenziali» come la cura alla persona nelle residenze per anziani o la sanificazione, e che sono obbligate a farlo da un permesso di soggiorno ‒ parlano chiaro: sono le donne che stanno pagando il prezzo più alto della pandemia, sul terreno della produzione e su quello della riproduzione. Di fronte a tutto questo, si torna a ripetere il mantra della necessaria conciliazione tra lavoro e maternità, e a proporre sussidi monetari come l’assegno unico per i figli per incoraggiare la genitorialità e colmare lo strutturale deficit demografico del paese. Peccato che parlare di genitorialità per sostenere politiche di governo – oppure di lotta – cancella la condizione materiale che travolge madri, lavoratrici e migranti in quanto donne, la subalternità nella quale vengono ricacciate dalla divisione sessuale del lavoro e dalla conseguente svalutazione sociale della loro posizione. Soprattutto in un momento in cui il movimento dello sciopero femminista, nella sua dimensione di massa e transnazionale, sta subendo anch’esso gli effetti della pandemia, dare priorità alle donne significa dare visibilità a tutte queste condizioni e metterle in comunicazione. Significa rendere manifesta, contestandola, la trama taciuta della grande riorganizzazione della società che fa leva sulla crisi materialmente vissuta dalle donne per rinsaldare le condizioni patriarcali e razziste della sua riproduzione, rigettando nel privato dell’economia, non importa se informale o monetaria, ciò che proprio le donne negli ultimi anni hanno prepotentemente politicizzato con i loro movimenti e con il loro sciopero.
Riprendere l’iniziativa politica è l’unico modo per evitare che i sogni di Bonomi o di von der Leyen diventino i nostri incubi. C’è bisogno di rischiare su scala reale, per rompere il nesso tra reddito, salario e sfruttamento che sta violentemente prendendo forma, facendo della società pandemica il laboratorio di quella post-pandemica. Anche se parte dall’Italia, la nostra iniziativa politica non può fermarsi ai nostri confini nazionali. Già durante il lockdown in Italia, come in Europa e nel mondo, ci sono stati e ci sono scioperi che mostrano la possibilità politica delle connessioni transnazionali per interrompere i ritmi e l’ordine della riproduzione pandemica. La nostra iniziativa sarà politicamente essenziale come quegli scioperi solo se farà costantemente un passo oltre la pandemia, un passo oltre l’esemplarità delle piccole cose, un passo oltre l’immaginazione nazionale. Un passo oltre i nostri limiti attuali.