28 settembre 2020
In nessun altro periodo della storia recente italiana è emersa con maggiore chiarezza l’importanza del welfare pubblico. I tagli e le privatizzazioni imposti dalle politiche di austerity a sanità, scuola, pubblica amministrazione e politiche della casa si sono tradotti in diseguaglianza e crisi economica diffusa, messi in evidenza dalla pandemia Covid ma già largamente presenti sul territorio. Come è quasi sempre successo, anche ora la crisi non si sta traducendo in un’inversione di rotta: le dinamiche estrattive del capitale stanno già dirottando i finanziamenti pubblici per l’emergenza verso le grandi corporation dei farmaci, delle costruzioni, della gig economy e verso le lobby del turismo e dei trasporti. Tuttavia una nuova consapevolezza della logica suicida del sistema capitalista si è estesa a strati della popolazione che non ne erano mai stati sfiorati, e alcuni dogmi sono inesorabilmente incrinati. Uno di questi riguarda l’abitare: il mercato immobiliare ha perso ogni credibilità come regolatore di un diritto fondamentale dell’uomo.
È fondamentale che un argomento tabù in Italia, l’edilizia popolare, torni a essere considerata una risorsa fondamentale della società. Il grande patrimonio di case pubbliche in dismissione, abbandonate nelle mani di gestori inadempienti con pochissimi fondi, può e deve essere manutenuto, ristrutturato, ampliato e dotato di tutti i servizi di cui negli ultimi decenni è stato privato.
Nanà Brandi, protagonista sul finire degli anni Settanta della lotta per la casa a Secondigliano, periferia nord di Napoli, racconta come è nata, difficoltosamente, in ordine sparso, quella mobilitazione per il diritto all’abitare, e come il primo e unico sindaco comunista di Napoli, Maurizio Valenzi, riuscì, caso più unico che raro, a sfruttare l’emergenza del terremoto del 1980 per attuare un “piano delle periferie” che nel corso di un decennio diede alloggio a più di tredicimila famiglie che abitavano in condizioni di estremo disagio. Un piano partecipato che sottrasse un enorme volume di affari al sistema corrotto della ricostruzione sul resto del territorio, affiancando la progettazione ex novo al recupero del tessuto urbano dei Casali napoletani. Dalle parole di Nanà trasudano ancora orgoglio per quelle case “ariose”, dotate di bei parchi e servizi, considerate una conquista e tuttora abitate fieramente, nonostante l’abbandono totale da parte della politica e dell’amministrazione pubblica, lo stato di decadenza e lo stigma di Gomorra che uniformemente le rappresenta. Dopo un trentennio di semplificazioni postmoderne, è ora di respingere le soluzioni tabula rasa e di progettare il recupero fisico e morale di questi pezzi di città, di considerarli finalmente risorse e non pesi morti da svendere o cancellare.
Sei nata ai Censi?
No, sono nata a Capodichino, perché mia mamma era di Capodichino e mio padre di Secondigliano. Quando avevo quattro o cinque anni, ancora a Capodichino, ebbi una meningite gravissima, stavo per morire, e tutti i vicini venivano a fare le notti a turno a casa, perché mia nonna Rachele non volle portarmi all’ospedale. A un certo punto nonna mi vide tutta infossata nel letto e nel tirarmi su si accorse che gli impacchi erano talmente bollenti che mi ero ustionata: ma fu bene e male allo stesso tempo, perché quel calore mi fece reagire e dopo riuscii a guarire.
E quando sei arrivata a Secondigliano?
Qualche anno più tardi. Andammo da mia nonna che aveva una stanzona in un grande palazzo, e dentro c’erano quattro letti, c’entravano quattro famiglie. Verso la fine della guerra, io sono del ’42, quando avevo già due o tre fratelli, ce ne scappammo da Capodichino perché la moglie di mio zio ci fece una fattura. Poi feci qualche anno di scuola, prima in una specie di scuola privata organizzata da un prete e poi passai alla pubblica.
Perché hai smesso?
Ai miei tempi la scuola non funzionava tanto bene, per tutti. Appena mi feci un poco più grande andai a fare la stiratrice in una lavanderia, verso i tredici anni. Poi andai con una mia sorella a lavorare in una fabbrica di vino, imbottigliavamo e lavavamo le bottiglie. Ho fatto molti lavori diversi, fino a che non sono finita a Villa Russo, con i pazzi. Allora lavoravo in un’altra lavanderia, a Secondigliano, e un parente loro mi mise in contatto con il direttore di Villa Russo.
Lì pagavano meglio?
Mah, era poco. Facevo le nottate, oppure dei turni di mattina. Volevo bene a tutti, lavoravamo bene. Il direttore era famoso per essere una carogna, quando usciva lui bisognava mettersi sull’attenti. Invece avevo rapporti più amichevoli con un suo nipote. Quando iniziammo a fare gli scioperi per il salario, ci fu una riunione con il direttore e questo mi indicò dicendo: «Direttore, non sapevo che questa era un’impicciosa». Allora io risposi: «Direttore, ha ragione. Ma neanche io sapevo che questo qua era un fetente». Dissi proprio così, non so come mi uscì dalla bocca. Ma dopo questo fatto si raddrizzarono molte cose. A un certo punto cominciarono a regalarmi le sigarette, poi il caffè Passalacqua, ma io dissi: «Non ho capito, me lo date solo a me? O fate questi regali a tutti o pensano male, pensano che mi sono stata zitta su qualcosa». Sono sempre stata attenta a non farmi mettere in condizione di essere ricattabile.
Ma quanti eravate a fare gli scioperi?
Parecchi, ma divisi in tre sindacati. Il mio era sempre quello legato ai comunisti.
Eri già comunista?
Sì, sì, assolutamente.
Lo erano anche i tuoi familiari?
No, ma io non mi facevo osteggiare.
E quando sei andata in Belgio a lavorare?
Che potevo avere, ventidue anni più o meno, e ci sono rimasta per circa cinque anni.
Quando hai finito con Villa Russo?
Sì, avevo uno zio in Belgio e mia mamma gli chiese di portarmi là.
Tu eri felice di andare?
Certo, io ero curiosa, volevo vedere tutto. Lì facevamo molte passeggiate, andavamo a Charleroi, in giro per Bruxelles… Iniziai a lavorare in una pasticceria come lavapiatti, poi imparai anche a fare i dolci, le gallette, squagliavamo la cioccolata. Ma non è che pagassero moltissimo, ero in nero comunque. Poi invece andai a Bruxelles e lavoravo regolarmente in uno stabilimento di bakelite. A quel punto prendevo anche gli assegni per i miei fratellini. Tornammo tutti insieme e a quel punto mio padre prese in affitto la casa ai Censi.
E lì hai cominciato a fare politica sul serio. Subito con le lotte per la casa?
Sì, ma non solo, facevo lotte per ogni cosa. Poi c’erano quelli che appena vedevano una lotta che gli interessava dicevano: «Pure a me, pure a me», però quando bisognava andare da qualche parte non ci stavano mai. Avevamo fatto il comitato dei Censi.
Quanti eravate?
All’inizio pochissimi, meno di dieci. Chiedevamo case pubbliche, perché vivevamo in condizioni pessime e con affitti alti per quella che era la situazione. Non c’era neanche un bagno, a casa mia fummo noi a costruire un piccolo bagnetto.
Molti sottolineano l’importanza dell’epidemia di colera nella lotta per case più ariose, condizioni abitative migliori. Fu così anche a Secondigliano?
No, per la verità non fu una cosa importante come al centro di Napoli. Passarono anni dal colera prima che partisse la lotta.
Quando il Pci vinse le elezioni nel ’75 aveva preso molti voti ai Censi?
Non un granché, Secondigliano era democristiana. Però poi quando partì il piano delle periferie le cose cambiarono. Anche perché io li arringavo, dicendo che se non avessero sostenuto Valenzi non sarebbe cambiato mai niente. All’inizio erano diffidenti, però quando si spargeva la voce che stavamo raccogliendo i dati per i censimenti, per capire il bisogno effettivo delle case, accorrevano in massa: «Segnatemi pure a me!». Alla fine uscivano dei quaderni alti così. Poi però quando gli chiedevo di accompagnarmi era tutta una scusa: «Eh, ma a mio padre non lo posso lasciare», «Eh ma devo fare la cena per mio marito», e arrivavamo in sette persone.
Avevate interlocutori politici?
Sì, con il Pci, con gli assessori della giunta Valenzi e con i consiglieri di quartiere, ma l’incontro più importante fu con Elena Camerlingo, una compagna del Pci che lavorava al Comune per il piano delle periferie nel ’79-80, prima del terremoto. Fu lei a darci una grande mano. Aveva poco più di trent’anni e io cinque anni più di lei, ma unite riuscimmo a fare tutto quello che volevamo.
Quindi subito prima del terremoto.
Sì. Poi arrivò il ministro Zamberletti a Napoli e Andrea Geremicca [il capo del Pci a Napoli] volle portarmi con sé alle riunioni.
Voi non pensavate, come altre parti del movimento a Napoli, che le case popolari fossero una deportazione?
No, io dicevo «voi non dovete parlare così».
E anche quelli che non lottavano volevano le case?
Mah, fino a un certo punto. Sai quando veramente cominciarono a desiderarle? Quando iniziarono i cantieri: prima non ci credevano. Solo dopo si buttarono a pesce.
Dopo l’approvazione del piano delle periferie ci fu il terremoto. Qui aveva fatto molti danni?
No. Magari qualcuno aveva attribuito al terremoto danni che non avevano niente a che fare con il terremoto, ma non c’erano terremotati.
E una volta partita l’operazione voi avete dovuto passare un periodo nei container?
No, solo alcuni ci andarono di propria volontà perché così pensavano di arrivare primi in graduatoria, e avere prima la casa. Ma gli espropriati, in realtà, venivano prima in graduatoria rispetto ai terremotati, la priorità era per chi abitava le case comprese nel piano. Se erano inquilini avevano diritto alla casa, come i proprietari residenti. Se invece erano proprietari locatari avevano diritto solo all’indennità di esproprio.
E come veniva valutata questa indennità? Su che prezzi?
Li valutava l’Agenzia delle entrate. Non era iniquo, l’esproprio costò molto: sia dei terreni che dei palazzi, che era del tutto inusuale. Le leggi sull’esproprio riguardavano i terreni, ma un esproprio così massiccio di una proprietà frammentata non diede luogo a cause amministrative, perché non sapevano neppure come affrontarle: così, mentre sui terreni, per lucrare sul prezzo, impiantavano improvvisamente serre, piantagioni (a San Giovanni a Teduccio le famose serre di rose), la campagna degli espropri di appartamenti andò liscia.
I proprietari delle case rappresentavano un fronte nemico?
No, perché in molti casi trovavano una convenienza notevole: una casa nuova e una somma per l’esproprio.
Neanche i democristiani si opposero?
No, e come si permettevano? I democristiani non avevano partecipato attivamente alla redazione del piano e perciò non erano informati, e quindi non li facevo neanche parlare, parlavo solo io: quando c’erano le riunioni tra comunisti, socialisti e democristiani alla fine si faceva più quello che dicevo io che quello che veniva detto dagli altri. Capivano che io parlavo in un altro modo, fuori dalle logiche a cui erano abituati. Mi davano sempre ragione, perché capivano che io ci credevo. Mi offrivano persino dei passaggi in macchina, perché io andavo col pullman.
Quanto tempo passò tra l’approvazione del piano e le prime case assegnate?
Entrammo nell’84. I cantieri erano stati aperti nell’81. Era importante finire prima quelli per potere poi liberare i Censi e cominciare il recupero. Le prime case furono assegnate nell’83 a San Pietro a Patierno. Subito dopo si fecero le elezioni e Valenzi perse: paradossalmente la ricostruzione non ha premiato l’amministrazione. Quando stavano per terminare i cantieri, i sindacati degli edili indissero degli scioperi, non volevano chiudere i cantieri perché gli operai rischiavano di rimanere senza lavoro. Si creò una spaccatura tra operai e assegnatari, nonostante il fatto che spesso gli operai fossero a loro volta assegnatari o parenti di assegnatari. Il diritto al lavoro contro il diritto alla casa. Questo perché le imprese non garantivano agli operai di un cantiere di continuare a lavorare in un altro cantiere, era un contesto lavorativo molto precario. Così i sindacati cercavano di ottenere garanzie tra un cantiere e l’altro. Contemporaneamente gli assegnatari impararono a difendere i propri diritti, e capirono che il momento più delicato era proprio quello della chiusura dei cantieri e del collaudo: prima c’erano gli operai, e poi cominciarono le occupazioni abusive.
Qua però non ce ne furono?
No, ma noi venivamo tutti i giorni a controllare, perché sapevamo che c’era il rischio. Le case che non erano abbinate al piano delle periferie – la 167 di Ponticelli, di Secondigliano, non furono protette, perché erano destinate ai terremotati generici, che non erano vicini, sapevano poco sugli edifici che gli sarebbero stati destinati, non si potevano organizzare. Noi invece le abbiamo viste crescere, avevamo partecipato al piano e lo sostenevamo.
Le ultime case quando furono consegnate?
Dopo il 1990.
Se a Secondigliano non c’erano terremotati, chi fu messo nelle case temporanee, persone che venivano da altre parti della città?
Qua c’erano i bipiani. Ma stavano nella graduatoria generale, quindi saranno poi stati smistati non solo qui ma anche in altre case. La categoria A, gli espropriati, era quella più legata al territorio, e veniva prima. Avevano la precedenza perché altrimenti non si sarebbe mai iniziato il recupero.
Quando si concluse il recupero dei Censi? Quando assegnarono le prime case?
Dopo il ’92. Tutto era più lento e complicato, perché nel frattempo era cominciata la ricostruzione regionale, le imprese cominciarono a preferire largamente quei cantieri, soprattutto infrastrutturali. Un pilastro di cemento di un viadotto veniva pagato quanto cinque corti di recupero: vuoi mettere la fatica e la complessità di un progetto di recupero? Quelli delle infrastrutture erano guadagni stratosferici in confronto, e infatti Tangentopoli ha riguardato quei cantieri. Il Consecor, per esempio, il consorzio di imprese concessionario a Secondigliano, lavorava qua e là.
Conosci molta gente che è voluta tornare nelle case di recupero?
No, pochissima. Mi ricordo un paio di signore, già anziane, che sono andate in una casa col terrazzino nei Censi. Qua però si stava meglio.
Le case sono migliori?
Qua c’è l’aria, la differenza è questa. Le case sono luminose, poi ci mettevamo d’accordo per piantare limoni, gelsomini, ci sono ancora.
A un certo punto le case sono state date in concessione alla Romeo Gestioni Spa. È lì che sono cominciati i guai?
Veramente a noi no. Romeo non si poteva proprio permettere di fare succedere i guai qua.
La faceva la manutenzione?
Assolutamente. Anche perché se mancava qualcosa io mi facevo sentire. Gli ingegneri che lavoravano con lui mi temevano. Appena telefonavo arrivavano subito. Ma non era solo timore, anche per rispetto: perché avevano capito che le nostre richieste non erano opportuniste, che non c’erano secondi fini. Non volevamo avere favori o scambiare privilegi, ma abitare bene le case. Per questo ho faticato moltissimo per convincere le persone a pagare il canone, che è basso, è giusto. Non era nella cultura della gente: nella loro mente la casa pubblica doveva essere gratis. Io pago venti euro al mese perché sono pensionata, mio fratello cinquanta perché lavora, ma ha una casa di quattro stanze. Come si fa a non pagare con queste cifre? Eppure c’è stato chi non ha pagato, chi si è organizzato.
Tu dici che qui le persone hanno curato per anni gli spazi comuni, ma che a un certo punto è diventato impossibile.
Sì, quando ci fu quell’ammuina del blitz anticamorra ci hanno scassato i cancelli, senza nessun motivo reale, e da allora non ce la facciamo a tenere belle le corti. Se tu vai a parlare con il sindaco de Magistris, non sa neanche dove stiamo di casa. Il parco qua fuori è abbandonato, per un periodo era pure chiuso.
E ora chi è il gestore delle case?
La Napoli Servizi, quelli che fanno tutto per l’amministrazione. Ma è come se non avessimo più nessun gestore, non viene nessuno dal Comune. Il sindaco è venuto solo una volta, per la scuola, e lo stavano quasi vattendo.
In che stato si trovano ora tutte le attrezzature, le scuole, gli uffici?
Abbandono totale. Prima la scuola mi piaceva moltissimo, c’era l’ingresso dal parco, e noi ci mettevamo di fronte a chiacchierare mentre i bambini entravano e uscivano. Era un piacere. Poi all’improvviso, per questioni di sicurezza, hanno messo l’ingresso dall’altra parte. Non possiamo neppure andarci per votare, ora si va da un’altra parte. Anche la sede del consiglio circoscrizionale è abbandonata, non ci sono più le funzioni politiche, sono rimaste solo poche funzioni amministrative e anagrafiche.
Ma è impossibile fare richiesta perché l’edificio venga utilizzato in un altro modo?
Bisognerebbe lottare per fare riunire nuovamente qui il consiglio, ma nessuno si muove.
Nemmeno i tuoi nipoti?
No, non gli interessa.
Ci sono negozi?
Furono realizzati circa trenta negozi, ma poi sono stati occupati e trasformati in alloggi. Sono rimasti solo una salumeria e un macellaio. Per la farmacia dobbiamo andare al centro di Secondigliano.
Non ci sono associazioni che si occupano di fare attività sul posto, laboratori per i bambini, altre cose?
No, niente.
E non ci sono politici di qualche partito?
Sì ci sono, ma si fanno i fatti loro. Hanno chiuso anche l’ultima sezione.
Però le case non si sono spopolate. Ho visto giovani coppie, c’è ricambio.
Infatti. Anzi, c’è molta richiesta. Chi ci è nato cerca di continuare a viverci, altri arrivano. Molti negozi diventano case, se le aggiustano.
Migranti non ne sono arrivati invece, mi pare.
No, ma perché non c’è mai stato vuoto. Le case degli anziani vengono “puntate” prima che muoiano, non ritornano quasi mai al Comune. Alcuni subentrano abusivamente e non riescono a ottenere la residenza.
Ce ne sono molti che abitano abusivamente gli appartamenti?
Parecchi, abitano soprattutto nelle case che furono assegnate per ultime, a persone non di qua, e che quindi erano più fragili, meno difese. Di questo si parla poco perché certe storie non le vuole sentire nessuno. Nessuno vuole sentire che questo era stato un piano partecipato, accompagnato dalle persone, che queste case sono state volute, che è stata una battaglia vittoriosa. Le istituzioni e i comitati si incontravano sia nelle sedi di partito che nei consigli di quartiere, e poi nei consigli comunali.
Ma vi coordinavate con altri comitati?
Ci abbiamo provato, ma spesso usciva che le persone di questi comitati si volevano fare i fatti loro, erano spinti da interessi personali.
Il fenomeno Gomorra vi ha danneggiato?
Come no. Quando è successo che si erano sparati qua dentro, c’era quel compagno che stava a Scampia che aveva la commare a Secondigliano, che veniva sempre. «A Secondigliano sono tutti camorristi», diceva. Lo misi a posto: «Come ti permetti? Qua c’è gente meglio di te». Lui disse che non ce l’aveva con me. «Ci mancherebbe», gli risposi. Però la cattiva nomea è rimasta, e ci ha isolati sempre di più. Dalla metropolitana di Scampia c’è solo una navetta ogni tre ore per arrivare qui. (lucia tozzi)