È ripartito il calcio o il business

18 settembre 2020

“Il calcio vivrà, il vostro business è malato!” Frase retorica? Forse.Ma non per questo meno vera. È il 15 maggio quando compare su uno striscione steso nel deserto della WWK Arena di Augsburg: riprende il calcio europeo, a partire dalla Germania, uno dei campionati storicamente più attenti ai bilanci e alla sostenibilità del sistema, nonostante negli ultimi anni abbia visto l’emergere di progetti “dall’alto” come RB Lipsia e Hoffenheim. Il calcio è business, ma sembra che la crisi del coronavirus ne abbia rivelato le croniche fragilità.

Per capirci meglio facciamo un salto – oltre il Reno, oltre la Senna, oltre i Pirenei – e atterriamo a Barcellona. La prima squadra locale è un modello sportivo che sconfina nel mito: vincente, spettacolare, con un forte settore giovanile e simbolo dell’intera Catalogna. A fine 2019, il Barça annunciava una previsione di fatturato per l’anno successivo che sfondava quota 1 miliardo di euro, una cifra astronomica per un club di calcio. Pochi mesi dopo, il presidente Bartomeu faceva un altro annuncio, diametralmente opposto: i calciatori avrebbero tutti dovuto decurtarsi ampiamente lo stipendio, e biglietti e abbonamenti al Camp Nou non sarebbero stati rimborsati in caso di prosecuzione della Liga a porte chiuse, perché queste spese avrebbero messo a rischio le casse del club. A maggio, il vicepresidente Cordoner spiegava che, nonostante un taglio del 72% del monte ingaggi, il Barcellona aveva registrato oltre 120 milioni di euro di perdite, portando il debito societario a 460 milioni. Ora, la domanda è: come giudicare un modello di business che ti porta a un fatturato record ma, al tempo stesso, ti consente di galleggiare appena sopra la soglia della bancarotta?

Il paradosso è che, mentre top club come Barcellona e Atlético Madrid dovevano fare ricorso alla cassa integrazione e al taglio degli stipendi dopo solo poche settimane senza partite, squadre minori come l’Athletic Bilbao e Getafe affermavano di non aver bisogno di nessuna di queste misure, grazie ai loro surplus di bilancio. Eppure, se stiamo alle cronache della stampa sportiva, questi grandi indebitati club non hanno mai smesso di pensare a nuovi acquisti, imbastendo trattative da centinaia di milioni di euro (restando all’esempio del Barça, gli obiettivi noti sono Lautaro Martínez e Neymar) mentre chiedevano sacrifici economici a tesserati, dipendenti e tifosi. Una delle prime cose che hanno interessato la FIFA in questi mesi, infatti, è stata una nuova regolamentazione per consentire lo svolgimento del calciomercato: continuate a fare girare i soldi, please.

Perfino il Liverpool, uno dei club più ricchi al mondo, a un certo punto ha pensato bene di fare richiesta al governo britannico per gli ammortizzatori sociali stanziati appositamente per il coronavirus, così da essere sicuro di rimetterci il meno possibile, anche se questo significava togliere denaro pubblico a chi ne aveva maggiore bisogno. C’è voluta una levata di scudi a cui hanno partecipato ex-Reds come Dietmar Hamann, Jamie Carragher e Stan Collymore per convincere la dirigenza a fare dietrofront. In Brasile, uno degli epicentri più seri della pandemia, il Flamengo ha dovuto licenziare diversi dipendenti e ridurre gli stipendi dei giocatori per tenersi a galla: è significativo che il Mengão – che a dicembre vinceva la Copa Libertadores – era universalmente indicato come un nuovo modello societario che avrebbe finalmente potuto affrancare il calcio brasiliano dalla sua fragilità economica, riportandolo a competere ad armi pari con le grandi squadre europee.

Torniamo a quella domanda: è sostenibile un sistema del genere, in cui non appena le cose vanno male la scure si abbatte sempre sui dipendenti? Certo, è facile dire che i calciatori devono ridursi gli stipendi, che sono pagati troppo e che qualche decina di migliaia di euro in meno non gli rovina la vita. È facile e non è nemmeno del tutto sbagliato. Ma perché parliamo sempre e solo dei calciatori? I loro ingaggi sono costantemente sotto i riflettori, la stampa ci fa titoli e approfondimenti ed esistono addirittura siti dedicati; ma quanto guadagna un dirigente, e perché nessuno ha chiesto sacrifici ai manager dei club, invece che solo ai giocatori? Fabio Paratici, nel 2019, ha guadagnato almeno 2,8 milioni di euro, più di Rodrigo Bentancur, Merih Demiral e Gianluigi Buffon. Si stima che, nel 2018, Giuseppe Marotta abbia guadagnato 5,5 milioni, che in un confronto con la rosa dell’Inter risulterebbe il settimo più pagato. Al Milan, Ivan Gazidis prende più di 4 milioni di euro all’anno: solo Gianluigi Donnarumma gli sta davanti.

Praticamente ovunque, le associazioni dei calciatori si sono opposte ai piani di riduzione degli stipendi proposte dai club: ne abbiamo avuto un assaggio anche qua in Italia, con l’AIC guidata da Damiano Tommasi. “Penso che si debba continuare a pagare il salario completo e che poi ognuno di noi faccia qualcosa di sensato col denaro che riceve. La riduzione del salario per me è come una donazione inutile, una donazione fatta al club.” Lontani echi di lotta di classe, in queste parole di Toni Kroos (che, per i nostalgici, è nato a Greifsward, nella ex-Germania Est). Mentre diceva questo, il suo Real Madrid era sulle prime pagine dei giornali per trattative multimilionarie che andavano dal giovane del Rennes Camavinga al fuoriclasse del PSG Mbappé.

Credete che stiamo parlando solo di calcio? Questa crisi sanitaria ha mostrato, a più livelli, il fianco del sistema economico su cui è fondata la nostra società. Diverse aziende hanno dovuto fare tagli al personale, ma non ai privilegi dei propri dirigenti (che anzi pressavano per riaprire tutto subito, chiedendo soldi a fondo perduto allo Stato e negando la possibilità di ispezioni sul rispetto delle norme di sicurezza). Senza andare troppo lontano dall’ambito calcistico, ad aprile i giornalisti della Gazzetta dello Sport accusavano l’editore RCS – MediaGroup di lamentare debiti e voler licenziare alcuni dipendenti, il tutto dopo che gli azionisti si erano spartiti 15 milioni di euro di utili.

Rispetto ai dirigenti, al capo opposto della piramide sociale del calcio ci sono i circa 7.000 steward che si occupano della sicurezza negli stadi italiani, già normalmente sottopagati (meno di 40 euro per sei o sette ore di servizio a San Siro, secondo quanto spiegato da Jacopo Musciolà, presidente dell’associazione di categoria) e che con il coronavirus si sono ritrovati letteralmente abbandonati senza lavoro né ammortizzatori sociali, non essendo ufficialmente dipendenti dei club. Eppure qualche anno fa se ne parlava come di figure fondamentali per arginare i problemi di violenza all’interno degli stadi e trasformare il calcio italiano in un vero spettacolo per famiglie.

Valerio Moggia

da Linea mediana

Linea Mediana è il gruppo che prende il nome dall’omonima rivista appena nata e che mira a dare un punto di ritrovo a tutti coloro hanno una visione di classe e conflittuale dello sport.

FONTE: https://www.infoaut.org/calcio-e-sport/e-ripartito-il-calcio-o-il-business


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