23 agosto 2020
Dallo scorso maggio è in libreria, oltre che in vendita sul nostro sito, il numero 4 de Lo stato delle città.Si tratta di un numero ideato, scritto e impaginato durante la pandemia e che racconta, da differenti punti di osservazione, i primi mesi di emergenza dovuti alla diffusione del virus. Proponiamo a seguire Imparare a camminare proprio adesso. Lezione di urbanistica a distanza, uno degli undici pezzi pubblicati nella rivista, scritto da Gloria Pessina.
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Il 27 febbraio sarei dovuta entrare nella classe di una grande università italiana, a Milano, dove insegno “Analisi della città e del territorio”. Un piccolo modulo nel Laboratorio di urbanistica coordinato da una collega più esperta di me e animato da due insostituibili assistenti. I destinatari sono aspiranti architetti entrati all’università da sei mesi. Hanno vent’anni, arrivano da tutta Italia e sognano di costruire edifici.
All’interno del loro percorso il nostro laboratorio è una tappa obbligata che affrontano con un misto di spirito di sacrificio, curiosità e scetticismo. In questa tappa dovrebbero imparare il necessario per rendersi conto delle relazioni tra edifici e ciò che li circonda, per diventare, in teoria, più consapevoli della vita e delle forme delle città. Il laboratorio è fatto di lezioni e lavoro pratico in piccoli gruppi: insegniamo a leggere mappe, a disegnarne di nuove, a riconoscere tipologie di edifici, tessuti urbani, spazi aperti, strade e poi a guardare la città da dentro, prima di passare al progetto di spazi pubblici. La parte che seguo più da vicino è quella in cui gli studenti provano a comprendere la città dal suo interno, attraverso il sopralluogo, l’osservazione di ciò che accade negli spazi urbani e delle tracce che vengono lasciate da chi li usa, le interviste, la cronaca. Queste attività richiederebbero molti mesi di pratica e invece occupano il tempo di due lezioni e di un paio di settimane di lavoro autonomo dei gruppi, con qualche incursione da parte mia e delle assistenti. È il programma, bellezza!
Il 27 febbraio però non siamo entrati in aula: era passata meno di una settimana dal giorno in cui è stato individuato il primo caso di infezione da Covid-19 a Codogno, a sessanta chilometri da Milano. In quei giorni la nostra università ha deciso che le lezioni si sarebbero svolte “a distanza”, attraverso una piattaforma che permette di insegnare dentro aule virtuali. Sono partiti prima i corsi in cui l’interazione tra professori e studenti si limita all’esposizione della lezione e alle domande. Per i laboratori non si sapeva cosa sarebbe successo: c’era chi premeva per iniziare con le lezioni teoriche e rimandare a un dopo non meglio precisato le attività di gruppo in classe e in giro per la città, chi era certo che in due settimane saremmo tornati all’università, chi temeva che l’intero semestre si sarebbe svolto online, sopralluoghi inclusi.
A casa dal 24 febbraio, facevo parte di quelli che non credevano che saremmo riusciti tanto presto a camminare di nuovo con gli studenti. Provavo a familiarizzare con la piattaforma, mi confrontavo con le colleghe sul senso del laboratorio, rispondevo alle domande incredule di amici urbanisti dall’altra parte del mondo che chiedevano come potessimo pensare di fare un lavoro del genere online, certi che a loro non sarebbe mai capitato. Intanto, per mail, cercavo di capire da dove venissero gli oltre cinquanta studenti iscritti al nostro corso. Val Seriana, Val Brembana, Bergamo, Brianza, Valtellina, provincia di Crema, provincia di Pavia, Como, Lecco, Novara, provincia di Trento, Roma, Napoli, Val d’Aosta, Messina, Palermo, Catanzaro, Salerno, provincia di Foggia, Venezia, Milano. Chi era solito pendolare aveva già smesso di farlo, chi abitava a Milano ma veniva da lontano è tornato dalle proprie famiglie, forse lasciando in fretta la città la sera del 7 marzo, quando i quotidiani nazionali hanno diffuso la bozza del decreto che prevedeva la chiusura della Lombardia e di quattordici province del centro-nord. Quella sera la stazione centrale si è riempita di gente in fuga da Milano, destando l’indignazione di improvvisati tutori della salute pubblica, che invece non sembra si siano espressi a proposito dei milanesi migrati in montagna o sulle spiagge della Liguria per il fine settimana, né in merito ai prezzi insostenibili degli affitti per studenti, spesso anche lavoratori precari, nella presunta capitale morale d’Italia.
Alla fine, in qualche modo, il 19 marzo abbiamo iniziato il laboratorio online. Ormai tutta Italia era diventata “zona rossa”, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva dichiarato che era in corso una pandemia e duecentocinquanta milioni di persone in Europa stavano sperimentando il confinamento. La mia collega ha aperto il corso con alcune lezioni introduttive sulla città e sull’urbanistica. Dopo aver condiviso con gli studenti alcuni strumenti per leggere la città dall’alto, il 27 marzo ho fatto la lezione che preferisco – “Fare esperienza: sopralluogo, tracce, schizzi, fotografie, percezioni” –, quella in cui provo a concentrare tutto ciò che prima o poi vorrei insegnare e sperimentare con calma.
I ragazzi seguivano dalle loro stanze sparse per l’Italia, a microfoni e telecamere spente. Alcuni di loro sono intervenuti quando ho chiesto se avessero voglia di commentare una sequenza di immagini in cui mostravo sei città riprese dall’alto e gli stessi luoghi visti da dentro, dalla prospettiva di chi ci cammina attraverso. Los Angeles, San Paolo, Dubai, Hong Kong, la campagna olandese e infine Milano, l’unica città che tutti loro hanno attraversato e abitato in qualche modo per almeno sei mesi. Gli studenti intervenivano, mentre sullo sfondo si sentivano cinguettii, pentole, campane, onde, palme agitate dal vento, ambulanze, programmi televisivi, padri urlanti zittiti con stizza dai figli, grida di fratelli più piccoli e irrequieti oppure il silenzio irreale di chi ha una stanza tutta per sé. L’esperienza dello spazio maturata nei luoghi di provenienza si affacciava timida nelle loro risposte.
Sono andata avanti raccontando di quel tizio scozzese nato a metà dell’Ottocento, biologo e botanico che scambiava idee sullo studio della città con Pëtr Kropotkin e Élisée Reclus, geografi, tra le altre cose. Alla fine dell’Ottocento Patrick Geddes, questo era il suo nome, aveva creato a Edimburgo la Outlook Tower, un “complesso edificio pedagogico” dove sarebbe stato possibile imparare per fasi “l’arte di osservare la città”, come hanno scritto Giancarlo Paba e Giovanni Ferraro, due urbanisti italiani che ora non ci sono più. La prima fase consisteva nel camminare rapidamente per le scale fino a raggiungere la cima e la piccola terrazza da cui godere di una visione dall’alto della città e del territorio circostante, poi Geddes invitava a scendere attraverso i cinque piani e visitare le mostre allestite su Edimburgo, la Scozia, l’attuale Regno Unito, l’Europa, il Mondo. Una volta arrivati al piano terra, ai visitatori (abitanti, studenti, curiosi) si consigliava di uscire dalla torre per camminare attraverso il centro storico alla ricerca di spazi di cui riappropriarsi, da progettare collettivamente. Di solito, la mia lezione termina con la spiegazione dei preparativi per il sopralluogo.
Di solito, gli aspiranti architetti a fine lezione fanno domande tipo: «Ah, ma quindi dobbiamo uscire a camminare anche noi?»; «Ma prendiamo nota solo degli edifici monumentali, giusto?»; «Prof, ma quanto dura questo sopralluogo?»; «Posso stare in classe a lavorare sulle mappe intanto che vanno i miei compagni?»; «Ma percezioni in che senso?», e così via.
Quest’anno però è stato diverso. Ci eravamo confrontate sulla possibilità di far saltare il programma e far lavorare ogni studente sullo spazio pubblico nei pressi di casa sua. Poi l’idea è sfumata per tanti motivi. Alla fine abbiamo deciso che sarebbe stato più semplice far lavorare i gruppi sui tre quartieri di Milano che avevamo individuato prima dell’arrivo del virus. Non mi restava che invitarli a partire per un “sopralluogo virtuale” attraverso le aree assegnate. Obiettivo dell’esercizio era definire un percorso condiviso, salvando alcune viste significative durante la camminata virtuale e avanzando considerazioni sugli spazi attraversati. Li ho salutati sconsolata: «Buon sopralluogo, ci rivediamo qui settimana prossima». L’anno scorso, tranne qualche caso isolato, il lavoro sul sopralluogo era stato fallimentare e mi ero chiesta come avessero fatto a perdere lo spirito di osservazione e il desiderio di camminare in un solo semestre di architettura. Ero certa che quest’anno sarebbe stata la fine dell’esplorazione della città con i piedi per terra. Invece no.
Dopo un po’ di prove, gli studenti hanno trovato percorsi che avevano un senso per loro, hanno raccolto osservazioni, hanno lottato con i limiti degli strumenti virtuali a disposizione. Poi ne abbiamo parlato tutti insieme. A., da Milano, ha rotto il ghiaccio raccontando che lei e le sue compagne hanno vissuto questo sopralluogo come un viaggio in una città sconosciuta, «ma quando potremo uscire vogliamo andare vedere quell’orto botanico dietro l’università che non avevamo mai notato». V., valdostano, è stato più critico: «L’esperienza virtuale è un surrogato di una camminata vera». M., da Catanzaro, ha confessato di aver provato una profonda tristezza a muoversi nello spazio in questo modo, mentre un suo compagno di gruppo era orgoglioso di «avere imparato a memoria tutte le buche di viale Brianza». Mi sono commossa quando ho sentito la tristezza e la rabbia di M., ma non si è visto dietro alle grosse le lenti che porto davanti allo schermo. A., la mia collega, ha avuto la prontezza di rispondere: «Ci tornerete a camminare là fuori. Fate in modo che questa tristezza diventi uno slancio».
M., foggiana rimasta a Milano in queste giornate strane, ha sofferto perché non è riuscita a vedere come cambiano i luoghi nell’arco della giornata, però «almeno non ci si stanca come quando si cammina davvero». F., bergamasca, ha detto che così è più facile orientarsi ma non si notano i dettagli e non ci si può perdere. S., pavese, è intervenuta: «Io sono riuscita a perdermi lo stesso! Solo che se ti perdi lì non puoi chiedere aiuto a nessuno». N., smanettone della provincia di Foggia, ha concluso dicendo che a lui è piaciuta l’oscillazione tra vista dall’alto e vista dal basso consentita dal programma, «così puoi tenere tutto sotto controllo».
Avremo bisogno di tempo per capire cosa è successo, per fare tesoro di tutti i pensieri, i percorsi, le foto che gli studenti sono riusciti a fare anche con un sopralluogo virtuale. Mi ritrovo a pensare che forse qualche prova virtuale del sopralluogo può essere utile a questi aspiranti architetti che non riescono a credere che gli si chieda di andare in giro per la città a prendere nota di quello che vedono, di ciò che accade per le strade. Potrebbe servire come preparazione al sopralluogo vero, quello in cui ci si consuma le scarpe. Ma poi ripenso ad altre esperienze, con studenti ben più piccoli. Mi torna in mente quella volta che un’amica danzatrice mi ha invitata a un’iniziativa organizzata da lei in un paesino della Val di Susa dove si è trasferita. Mi aveva chiesto di immaginare insieme a un’educatrice e a un guardia-parco un “laboratorio per guide consapevoli” destinato a bambini delle elementari. I partecipanti erano cinque, tra i sei e i dieci anni. Abbiamo iniziato il laboratorio nella classe di una scuola vuota, seduti per terra intorno a una grande mappa del paese. Poi siamo usciti, alla ricerca dell’acqua in tutte le sue manifestazioni: torrenti, cascate, tombini, fontane, rugiada. P., il più scatenato, correva ovunque dicendo che si annoiava, finché non gli ho ceduto il mio registratore. Ha raccolto una collezione incredibile di suoni d’acqua. Forse dovrei raccontarlo agli studenti del laboratorio di urbanistica. O forse i bambini dovrebbero iniziare da piccoli a fare la scuola fuori dagli edifici.
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FONTE: https://napolimonitor.it/imparare-a-camminare-in-quarantena-lezione-di-urbanistica-a-distanza/