17 agosto 2020
Dallo scorso 18 maggio è in libreria, oltre che in vendita sul nostro sito, il numero 4 de Lo stato delle città. Si tratta di un numero ideato, scritto e impaginato durante la quarantena e che racconta, da differenti punti di osservazione, i primi mesi di emergenza dovuti alla diffusione del Coronavirus. Proponiamo a seguire Da dentro a dentro. Due mesi di emergenza nelle prigioni italiane, uno degli undici pezzi pubblicati nella rivista, scritto da Riccardo Rosa.
* * *
L’ultimo pomeriggio prima della quarantena l’ho passato fuori le mura del carcere di Poggioreale. Era l’8 marzo e i messaggi ricevuti sulle chat, insieme alle immagini delle rivolte che cominciavano a circolare, erano stati decisivi, per me e per altri, per rompere gli indugi dovuti alla paura del virus che cominciava a diffondersi anche nel sud Italia. Dopo quel pomeriggio ho smesso di fare paragoni tra la quarantena e il carcere. Qualche giorno ancora e ho cominciato a provare fastidio ogni volta in cui sentivo qualcuno confrontare la propria condizione di isolamento con quella dei detenuti agli arresti domiciliari.
L’8 marzo, quando sono arrivato a Poggioreale, ho trovato ad accogliermi una rabbiosa grandinata e una folla che si stava radunando in piazza Cenni, per monitorare gli sviluppi della rivolta. Sul tetto del padiglione Livorno, il più vicino alle torri del Centro Direzionale, un gruppetto di detenuti urlava e salutava la folla. Alcuni avevano il petto nudo e la testa coperta dalle magliette, forse per provare a non rendersi riconoscibili, forse per ripararsi dalla pioggia battente. In basso decine di parenti di detenuti, donne per la maggior parte, correvano avanti e indietro tra l’ingresso principale del carcere e lo slargo antistante il tribunale, salutando, incitando i rivoltosi a non mollare, qualcuno pregando.
La rivolta nel carcere napoletano è cominciata alle quattro del pomeriggio. Dopo l’ora d’aria, alcuni detenuti hanno forzato i cancelli e si sono impossessati di quattro padiglioni. Hanno appiccato fuochi con materassi e lenzuola, distrutto i tubi dell’acqua e allagato i corridoi con gli estintori, hanno sfondato con i carrelli della mensa i cancelli fino ad arrivare all’ultimo varco del portone principale, dove sono stati bloccati. La sollevazione si è calmata due ore dopo, quasi spontaneamente, o almeno senza grosse trattative, anche perché a muovere le proteste sembrerebbe essere stata la paura, più che una piattaforma di rivendicazione interna al corpo detenuto. Ancora per qualche ora, colonne di fumo si sono alzate dai cortili e dai tetti del carcere.
Il 26 febbraio, con il diffondersi dell’epidemia nel nord del paese, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva emesso una circolare con cui disponeva una serie di misure da adottare nelle carceri: sospensione dei colloqui con i familiari, sospensione del lavoro esterno, sospensione dei permessi premio e delle semilibertà, sospensione delle attività dei volontari negli istituti. Il provvedimento, finalizzato a limitare i contatti dei detenuti con l’esterno, dimenticava l’esistenza degli agenti della polizia penitenziaria, principale possibile veicolo di diffusione del virus nelle carceri insieme agli altri operatori e al personale medico. Il 7 e l’8 marzo, mentre le disposizioni venivano confermate da un decreto governativo, i detenuti si rivoltavano in tutta Italia.
I primi a farlo erano quelli di Salerno, cogliendo di sorpresa l’amministrazione e rivelandone l’impreparazione da tutti i punti di vista, anche militare, nella gestione dell’emergenza. Nei due giorni successivi si registravano rivolte a Pavia, Napoli, Milano e Roma, Padova, Bologna, Modena, Rieti, Foggia, Santa Maria Capua Vetere e molte altre città. La rabbia per la cancellazione dei colloqui era solo una parte del problema: i detenuti avevano paura, veniva vietato loro il contatto con i parenti e i volontari ma non con le guardie carcerarie; non erano previsti dispositivi di protezione, sanificazioni, né interventi sulla prevenzione, in modo da agevolare una rapida ripresa dei colloqui. In più, la circolare del Dap aveva demandato le scelte sui video-colloqui, sul destino dei semiliberi, sulle misure di protezione alle direzioni dei singoli istituti, creando disparità enormi e lasciando nelle mani dei direttori delicate decisioni anche in tema di salute. Nonostante le richieste da parte dei detenuti, dei parenti e dei legali per interventi più radicali come l’indulto, l’estensione – anche temporanea – delle misure alternative o la possibilità per i semiliberi di restare a dormire nelle loro case, il Dap e il ministero si sono distinti per una linea tanto semplice quanto deleteria: non fare nulla. Nel corso delle rivolte, in circostanze tutte da chiarire, sono morti quattordici detenuti. Per la maggior parte erano migranti, e per la maggior parte di loro la spiegazione fornita dalle direzioni e dalle forze dell’ordine è stata: overdose di farmaci e sostanze, trafugate dalle infermerie durante gli assalti.
Quando intorno alle venti dell’8 marzo, Samuele Ciambriello, garante campano per i diritti dei detenuti esce dal carcere di Poggioreale, ad aspettarlo trova una folla che è assai più che un assembramento. Decine di familiari di detenuti lo accerchiano, sommergendolo di domande. Lui cerca invano un megafono ma alla fine sale su un marciapiede per spiegare la situazione. Dice che la rivolta è rientrata senza l’utilizzo della violenza ma che ora bisognerà monitorare i trasferimenti. Negli occhi delle persone accalcate la paura raddoppia, a quella per il possibile contagio si aggiunge quella per ritorsioni e trasferimenti. Il fiume di rabbia si affievolisce e poi si disperde nelle richieste di ognuno: un difetto di forma in una notifica, la mancata concessione dei giorni per la liberazione anticipata, la frustrazione per l’impossibilità di una concessione straordinaria dei domiciliari. Dopo un’ora il garante riesce a divincolarsi, rilasciando qualche dichiarazione generica alla stampa.
Ho cominciato a raccogliere informazioni su quello che succedeva nelle carceri italiane fin dalla mattina del 9 marzo. Il numero dei morti cresceva di ora in ora. Alcuni erano deceduti addirittura nel blindato, durante il trasferimento da una prigione all’altra.
Da molte carceri, come Modena, Milano, Napoli, arrivavano notizie di violenze nella notte successiva alle rivolte, uomini fatti spogliare nudi e picchiati, anche con manganellate in testa e sui testicoli. Insieme a persone e associazioni che lavorano per tutelare i diritti dei detenuti, come Antigone, Acad, Yairaiha, abbiamo provato a costruire una rete informale di raccolta e diffusione di informazioni, per cercare di mantenere una visione di insieme rispetto a quello che succedeva. Giorno dopo giorno arrivavano denunce. Compagne, mogli, sorelle di detenuti registravano le telefonate (anche a distanza di una settimana, perché i contatti erano stati bloccati dopo le rivolte) facendosi raccontare degli abusi, dell’irruzione degli agenti nei reparti, delle botte e dei pestaggi, della soppressione arbitraria della spesa e dell’ora d’aria, dei trasferimenti improvvisi in giro per l’Italia, persino da e verso la zona rossa, senza che ai detenuti venisse dato nemmeno il tempo di prendere i propri effetti personali. Mettere insieme notizie estremamente frammentate non è stato facile. Il telefono squillava di continuo, tra richieste d’aiuto, rettifiche e sfoghi, lacrime e bestemmie, qualcuno mi chiedeva persino notizie su dove fosse stato trasferito il proprio marito o in che ospedale si trovasse. Impotente, e spesso spaesato, non potevo far altro che prendere appunti e registrare.
«Quando mi fa la videochiamata – racconta Angela, moglie di un detenuto rinchiuso a Milano Opera – la prima cosa che gli chiedo non è più: “Ciao, come va?”, ma: “Come ti senti? Hai qualcosa? Febbre? Come sta la tua sezione?”. Il primo pensiero è là. “Quando arrivano le mascherine? Le guardie le mettono?”». Angela è una delle donne che mi hanno aiutato a ricostruire quello che è successo a Opera nei venti giorni successivi alle rivolte. Fa la cameriera in un ristorante, ma per mantenere i suoi tre figli fa anche servizio catering. Quando i due lavori si susseguono nella stessa giornata, va avanti per diciotto-venti ore di fila. Nelle sue telefonate, il marito continua a ripeterle che il giorno della rivolta, a guidare i reparti che picchiavano all’impazzata c’erano i graduati, «il comandante, e gli ispettori, tutti in prima linea». Lui è dentro per rapina, ci resterà per altri tre anni. Quando finirà la sua pena, e potrà vedere una partita di suo figlio, il bambino ne avrà tredici, e giocherà nella categoria Giovanissimi.
Marika e Alex invece figli non ne hanno. Lei vive a Torino, dove fa l’insegnante in una scuola superiore. Lui è in carcere a Milano, dopo essere passato per La Spezia e Genova. Ha già dieci anni di detenzione alle spalle, gliene restano altri cinque. Marika oggi va a trovare Alex solo una volta al mese, uscendo di casa alle cinque del mattino e rientrando la sera, ma qualche anno fa ha perso un lavoro in un call-center per i ritardi dovuti a questi suoi continui viaggi. Alex è stato picchiato, nella sua cella a Opera, il 21 marzo, dopo una discussione con un agente. «Il 22 sento mio marito. Mi dice di far venire subito l’avvocato, perché l’hanno massacrato. Aveva chiesto spiegazioni a un agente sul fatto che non gli venisse consegnata la spesa che aveva fatto, ed è scoppiata una lite. Sono arrivati altri cinque agenti, dritti in cella da lui e hanno iniziano a picchiarlo con calci e pugni. Lui ha voluto farsi refertare, ma si sono rifiutati di fargli la tac, nonostante i bozzi e nonostante il dolore alla testa». Quando ho parlato con Marika per la prima volta, mi ha chiesto se ero stato io a scrivere della presenza di un detenuto di Torino che nel carcere di Opera “era stato ridotto come Stefano Cucchi”. Ero stato io in effetti, in un articolo sul sito di Monitor, avendo ricevuto l’informazione da una fonte affidabile. Marika mi ha raccontato che quella frase era tutt’altro che sbagliata, anzi; ma che solo per un caso fortuito lei era riuscita a sentire il marito il giorno prima, «altrimenti a leggere quella cosa penso che mi sarebbe venuto un infarto».
Da quel giorno mi sono ripromesso di fare ancora più attenzione, in futuro, alle possibili conseguenze delle parole che uso. Avevo compreso fin dall’inizio che gli articoli in cui si denunciavano violenze e maltrattamenti avevano un’audience maggiore rispetto a quelli in cui si provava a ragionare sul sistema carcerario e sulla sua necessaria messa in discussione. Al carcere di Milano stava succedendo un macello. A distanza di due settimane dalla rivolta, il clima era così pesante che anche una semplice discussione si tramutava in un pestaggio di gruppo. Eppure, era difficile far passare il messaggio che la gestione approssimativa dell’emergenza Covid era conseguenza di un sistema incancrenito, fondato su contenzione e punizione; della mancanza di una riflessione sulla necessità di pene realmente alternative per i tanti autori di piccoli reati che affollano le galere; sulla possibilità di superare l’obbrobrio di istituti vetusti e costruiti secondo la logica dell’accasermamento, dove il detenuto non ha alcuna possibilità di un reinserimento reale nella società.
Per provare a rompere questo muro, mentre parlavo con Marika e Beatrice, Laura e Alfonsina, raccogliendo le storie delle loro vite e della loro quarantena, o con Federica, sorella di un detenuto che prova a tenere faticosamente insieme tutte le voci che provengono dalle donne di Opera, abbiamo provato a elaborare un discorso politico da diffondere tra i media, che mostrasse come il problema non fosse relativo a un singolo istituto ma intrinseco all’istituzione carceraria, alle sue catene di comando e ai suoi esecutori senza scrupoli.
Per provare a far passare il messaggio abbiamo scritto un comunicato, che abbiamo accompagnato a un articolo che denunciava la barbarie di un altro carcere, quello di Santa Maria Capua Vetere, dove nella settimana prima di Pasqua cento poliziotti a volto coperto e in assetto antisommossa erano entrati nei padiglioni, avevano spogliato, umiliato e picchiato i detenuti, probabilmente come ritorsione per qualche testimonianza rilasciata alla magistratura di sorveglianza. Quel comunicato accostava le morti nei giorni delle rivolte alle violenze di Milano e Santa Maria, denunciava l’immobilismo del Dap e del governo, evidenziava il legame tra la gestione scellerata dell’emergenza e quella quotidiana dell’universo carcerario. Come ci aspettavamo, ad avere grossa risonanza è stato l’articolo, e in particolare la telefonata scioccante, registrata, di un detenuto che racconta le violenze a sua sorella. Il comunicato è stato ignorato da giornali e telegiornali, e anzi in alcuni casi, come nell’interlocuzione con una nota trasmissione della Rai, quando abbiamo evidenziato la sua importanza all’interno della narrazione di quegli avvenimenti, la possibilità di raccontare gli episodi di Santa Maria in prima serata sulla Rai è rapidamente evaporata.
La sera del 26 aprile, quando l’inchiesta su Opera era ormai pronta alla pubblicazione, Federica mi ha chiamato per dirmi che tre dei detenuti (compreso suo fratello) i cui familiari mi avevano raccontato le proprie storie, e che avevano alzato un polverone facendosi intervistare dal Tg3 e depositando denunce alla procura, erano stati trasferiti all’improvviso, la sera precedente, senza comunicazione rispetto alla destinazione, dopo giorni di minacce rispetto a un possibile trasferimento in Sardegna. Sono seguiti due giorni di telefonate alla ricerca di informazioni, chiamate a decine di carceri per avere qualche notizia, richieste che sbattevano contro il muro alzato dalle amministrazioni. Una di queste donne mi ha detto che sarebbe stato più facile se avessero potuto mettersi attorno a un tavolo e aspettare insieme, guardarsi negli occhi in silenzio e capirsi, anche senza far nulla. Lì ho deciso di rimodulare l’inchiesta e di pubblicare sul sito di Monitor dei lunghi estratti delle loro interviste, mettendole virtualmente attorno a quel tavolo, a discutere nell’attesa di sapere dove fossero finiti i loro mariti e fratelli. Mentre scrivo questo pezzo, prendo appuntamento con Laura, moglie di un detenuto nel carcere di Pavia, che mi ha inviato alcune sue lettere e messo in contatto con altre compagne di prigionieri. Domani comincerò a lavorare anche su quel carcere, senza sapere bene a cosa porterà questa storia. Nel frattempo ci avviciniamo alla fine della quarantena. Stamattina sono uscito di casa indossando la mascherina e sono andato a fare una passeggiata sul lungomare tra Bagnoli e Pozzuoli, sperando di non essere fermato a un posto di blocco, più per la seccatura di avere a che fare con i militari, che per la consapevolezza di aver fatto qualcosa di male. Sono tornato a casa senza aver parlato con nessuno, e lì sono rimasto per le successive dodici ore, una parte delle quali le ho passate a scrivere questo pezzo. Da un paio di settimane, quando parlo con qualcuno che non ho visto per un po’, ho smesso persino di chiedergli come si sente a stare in quarantena.
***
FONTE: https://napolimonitor.it/da-dentro-a-dentro-la-pandemia-vista-dalle-prigioni-italiane/