di Nico Maccentelli, 14 luglio 2020
Gli USA che non hanno mai fatto bene i conti con l’oppressione razziale…
Non è stato un fulmine a ciel sereno. Le forti tensioni sociali antirazziste di queste ultime settimane negli USA, dovute all’assassinio brutale e gratuito di George Floyd ad opera di cops di Minneapolis, sono lo sbocco politico e organizzato che si è snodato da tempo in una sequenza di riots avvenuti negli ultimi anni. Il movimento Black Lives Matter (BLM) in particolare, cresciuto a dismisura negli ultimi sei anni, è stato la risposta agli innumerevoli atti oppressivi e criminali da parte della polizia contro gli afroamericani.
Del resto, dalla guerra civile statunitense del 1861-65 non c’è mai stata una reale emancipazione degli afroamericani, se non nella misura in cui il capitalismo USA aveva necessità di allargare il mercato e formare una classe lavoratrice, un proletariato in funzione dell’accumulazione capitalistica e del profitto. Detto in termini brutali.
A questa minoranza oppressa, e a quella originaria dei nativi, se ne sono poi aggiunte altre nel corso delle migrazioni, lungo un lasso di tempo lungo 150 anni: italiani (poi assimilati nella categoria di “bianchi”) latinos, asiatici. Il pensiero liberale che ha la sua culla nel mondo anglosassone non ha mai messo in discussione ciò che per le élite bianche statunitensi è un dogma intoccabile: la superiorità dei bianchi, la loro egemonia sul resto della società (1). E le varie giustificazioni liberali dello schiavismo, si trasformate nel tempo insieme al dominio di classe in una rete dispositivi discriminatori. Ovviamente l’oppressione ha varie gradazioni: va dalle discriminazioni negli stati del sud ex-confederati (balzate alla cronaca mondiale dai tempi di Rosa parks e M.L. King) e dal suprematismo bianco a un razzismo più sottile, con la presunzione di essere politically correct, ma non meno funzionale all’intero sistema de capitalismo razziale. Ma se i quartieri ghetto e le carceri piene di afroamericani non bastassero, l’asino casca su quella che è la cartina di tornasole del razzismo USA: la polizia.
La realtà è che gli USA bianchi delle classi dirigenti sono razzisti fino al midollo, politically correct o no. E’ l’intera geografia dei simboli in tutto il paese a parlare. Ed è la ragione per cui oggi è presa di mira dal movimento. Per fare un esempio eloquente: immaginatevi che il dipinto di un artista del quattrocento avesse aperto la strada alla visione pittorica della prospettiva. Solo che questo dipinto raffigura un Cristo crocifisso a testa in giù, tra simboli di caproni demoniaci e stella pentangolari. Sarebbe stato tesoro della civiltà e della comunità di qualsiasi paese? Io dico di no.
Bene, Nascita di una nazione di David Wark Griffith sì: la sua pellicola originale è persino conservata presso il National Film Registry della Biblioteca del Congresso a Washington. Il film è considerato patrimonio e tesoro della nazione per il semplice fatto che rappresenta l’atto conciliatorio tra le “due americhe”: quella unionista e quella confederata. Al di là del fatto di essere uno dei primi lungometraggi con una narrazione più articolata (la pellicola è un muto del 1915).
Notate qualcosa? Le due americhe. Con i cattivi di turno nei neri violenti e assassini e addirittura il Ku Kux Klan che libera i cittadini minacciati. Avete capito bene: i suprematisti razzisti fanno da collante del paese, fanno fottutamente nascere la nazione. Gli USA non hanno mai fatto bene i conti con il loro passato schiavistico che poi è divenuto sfruttamento salariato, oppressione razziale e degrado. Potrete ben comprendere dunque gli attacchi alle statue simbolo di questa vera e propria tirannia violenta mai finita, operata da un’oligarchia che può essere più o meno brutale, che può far dire al “tenero” Biden, candidato democratico alla Casa Bianca, che un nero che delinque non va ammazzato, ma gli si spara alle gambe. (2)
A essere messa in discussione è tutta la narrazione neoliberale che ha accompagnato la “nascita di una nazione” . In questo senso va letta la rimozione delle statue non solo di schiavisti dichiarati e personaggi storici della guerra civile americana come il generale Lee, ma l’origine stessa della colonizzazione selvaggia, dello sterminio dei nativi, della libertà d’impresa nella deportazione di schiavi dall’Africa, arrivando fino a Cristoforo Colombo.
“Le vene aperte” dell’America stanno riversando tutto il sangue di secoli di oppressione proprio nel cuore dell’imperialismo stesso, facendo saltare il tappo della “più grande democrazia del mondo”, che copriva la polarizzazione stridente tra miseria da una parte e lusso dall’altra, tra ghetti sterminati e cittadelle del consumo e del benessere neoliberista.
… ora devono fare i conti con qualcosa di più generalizzato: la lotta di classe.
Ma se volessimo soffermarci al carattere razziale dell’oppressione negli USA, avremmo fatto solo una parte della lettura di quella situazione.
Se ci chiedessimo perché a metà degli anni ’50 gli USA hanno avuto un fenomeno repressivo come quello del maccartismo, nel dare la risposta ci metteremmo già sulla strada giusta.
Certo, avevamo la guerra fredda tra i due blocchi. Ma intanto l’URSS e i paesi del socialismo reale non rappresentavano solo una nomenclatura, ma un’idea diversa di mondo, e già nel secondo dopoguerra si accendevano lotte di liberazione antimperialiste, dalla guerra di Corea in poi. In particolare, ragione non secondaria della caccia alle streghe del senatore alcolizzato, il marxismo, l’anarchismo e la lotta di classe negli USA non sono mai stati momenti episodici ed estemporanei.
Non è questa la sede per approfondire la storia della lotta di classe negli USA, ma la classe dirigente statunitense con la sua punta di lancia McCarthy cercò di fare piazza pulita di un fenomeno che aveva profonde radici sociali (si pensi solo all’IWW, il sindacalismo rivoluzionario degli anni ’20), alimentate anche per oltre un secolo dalle forti migrazioni.
La vulgata ideologica USA hollywoodiana che stiamo subendo ormai da una sessantina d’anni, ci mostra invece un paese dove il comunismo è stato debellato: un mondo patinato fatto di kolossal, attori, cantanti, uomini politici di successo e… grandi possibilità di farsi strada. Una “way of life” del tutto falsa da sempre. La realtà è ben diversa; e c’è chi la combatte, ora come allora.
Il ciclo di lotte sociali poderose, avviatosi con l’emergenza COVID-19 negli USA, ha tutta l’aria di aprire di fatto una nuova fase della lotta di classe a livello mondiale. Infatti, la crisi mondiale del capitalismo, sta accrescendo da tempo le contraddizioni sociali e di classe anche nel cuore del capitalismo stesso: gli USA. E la pandemia con la battuta d’arresto dell’economia statunitense, i milioni di licenziamenti non ha fatto altro che accentuare la miseria sociale e le ricadute sulla salute per la mancanza di copertura sanitari per milioni di cittadini. Il COVID-19 ha acuito ancora di più una situazione di miseria e disoccupazione largamente diffuse. In pratica non è piovuto, ma diluviato sul bagnato.
Ma più in generale, la pandemia sta lasciando in uno stato ancora più profondo di miseria e depressione tutti i paesi del mondo occidentale, e naturalmente non solo loro, come ulteriore effetto sulla crisi generale mondiale di sovraproduzione di capitale nella caduta tendenziale del saggio di profitto, che è crisi strutturale e sistemica. Al di là degli indicatori drogati di borsa, che millantano una ripresa con i loro rialzi azionari, assistiamo a una contrazione dei mercati con la riduzione dei flussi commerciali internazionali. Ne consegue una flessione dei livelli occupazionali e una maggior crisi delle economie nazionali.
Per questo, con tutta probabilità la grande onda statunitense può essere considerata una prima importante avvisaglia di un cambio di fase della lotta di classe mondiale. Questo movimento ci dice che siamo arrivati ai limiti di un neoliberismo sfrenato che non ha fatto altro che mettere a profitto con il super-sfruttamento di risorse umane e ambientali l’intero pianeta o quasi. Questi limiti ormai sono piuttosto evidenti e la pandemia non ha fatto altro che imprimere un’accelerazione alle contraddizioni sociali e alla comprensione di massa sempre più estesa della tara economica che il neoliberismo stesso porta con sé.
Un anno fa c’erano già lotte proletarie e popolari di vasta portata come in Cile, ad Haiti, in Libano, in Francia, in Irak, che mostravano le forti crepe nel fronte neoliberista. Ma ovviamente una lotta e un processo di trasformazione sociale che partano dal cuore dell’impero hanno tutta un’altra influenza sull’andamento generale dei movimenti anticapitalisti di vario segno nel mondo.
E negli USA , già negli anni precedenti si intravvedevano delle avvisaglie di protesta nella crescita di un antagonismo organizzato contro le brutalità della polizia statunitense, che sedimentavano una coscienza conflittuale contro il carattere razzista del capitalismo a stelle e strisce. Ma si intravvedevano anche nelle lotte sociali per i 15 $ di salario minimo, nelle innumerevoli lotte autonome sui posti di lavoro (vedremo alcuni esempi tra breve), ma anche nella presenza organizzata alle primarie dei democratici di una forte tendenza socialista aggregata nella coalizione di Bernie Sanders.
L’assassinio di Floyd ha fatto da detonatore a un antagonismo di classe e di massa nato come risposta popolare a un neoliberismo sfrenato.
Per questo, oggi la critica di massa e la massa critica che si sono sviluppate in tutti gli USA, hanno travalicato la questione razziale, estendendo il conflitto sociale a tutto il sistema di rapporti sociali. In campo ci sono soggettività multirazziali che subiscono la miseria e la sopraffazione delle classi egemoni. Soggettività che mettono al centro temi fondamentali come i servizi, il reddito, il pubblico, la qualità e la dignità della vita, la sicurezza da un punto di vista popolare e non dei ceti che attraverso la polizia impongono la tutela della proprietà privata a scapito della vita umana: molto forte infatti è la rivendicazione attorno alla piattaforma Defund the Police. Dunque, ridurre questo movimento a una mera protesta per soprusi estemporanei di alcuni agenti di polizia razzisti significa non capire la situazione, né il conseguente salto qualitativo delle lotte sociali.
In questi giorni (mentre sto scrivendo) a Richmond, militanti armati di BLM presidiano la statua del generale Lee ormai piuttosto variopinta dalle scritte della comunità in lotta, un intero quartiere di Seattle è in mano ai manifestanti: il CHAZ, Capitol Hill Autonomous Zone, ossia Zona Autonoma di Capitol Hill (o CHOP, Capitol Hill Organized Protest, anche la non definibilità precisa del nome è una modalità di riscrivere il territorio) è una zona liberata e la sindaca della città Jenny Durkan, in contrasto con Trump, anche se sta cercando di mettere fine all’esperienza sociale, definisce questa parte di popolo in rivolta non come terroristi ma come patrioti.
Riaffiorano esperienze che si sono caratterizzate nella fase di Occupy, innestandosi nel radicalismo militante della sinistra rivoluzionaria e creando nuove realtà organizzate e coordinate tra loro. Un esempio è Rising Majority, una coalizione intersettoriale di organizzazioni e movimenti che raggruppa realtà organizzate del sindacalismo di base ed espressioni politiche di opposizione antirazzista degli afroamericani o degli asiatici. (3)
(L’incursione degli attivisti afroamericani a Stoney Mountain, culla del suprematismo del Ku Kux Klan)
Le narrazioni interessate di casa nostra su questo movimento
Nell’ambito sovran-populista qualche anima bella punta ad associare il BLM e gli Antifa USA al deep state e a Soros in chiave anti-trumpiana. Operazione per esempio di PandoraTv, network pseudo-alternativo ormai definitivamente decotto dopo la prematura scomparsa di Giulietto Chiesa. Rivelando così di schierarsi con la destra ultrareazionaria anti-globalista ma altrettanto neoliberista, come se Bannon e Orban siano interlocutori politici “anti-sistema” insieme a Salvini. L’alternativa non è certo il capitalismo egoistico, razzista e di territorio dei ceti medi reazionari. Il nuovo movimento USA sta facendo piazza pulita anche di questi mentecatti, finti ignari del fatto che là negli USA l’ultradestra ha i fucili automatici dei suprematisti filo-Trump, che li usa contro le manifestazioni antifasciste e antirazziste. E che la falsa “cura” Trump al globalismo è peggio della malattia.
Altro che Soros! Lungi dall’essere eterodiretta, l’onda antagonista popolare che si è innescata con l’omicidio di Floyd, covava come brace sotto la cenere. Oltre a essere reazionari, gli orfanelli di Chiesa, amici di Fusaro, non hanno capito nulla, o non vogliono capire. Questo movimento ha il pregio di rimettere al centro, insieme alla liberazione dal razzismo, i bisogni delle classi popolari, i diritti sul lavoro della classe operaia, attraverso una rottura generalizzata con le istituzioni del paese. Al suo interno sono presenti tendenze socialiste, comuniste, libertarie anarchiche, femministe, che rendono il movimento piuttosto eterogeneo. Ma questa eterogeneità è una ricchezza, poiché mette in dialettica tra loro le diverse anime del movimento, rappresentando un salto qualitativo rispetto a Occupy. Infatti, tutte le positività politiche anticapitalistiche hanno una parte preponderante nella vastità della protesta sociale e delle sue anime differenziate.
Penso che questo movimento faccia chiarezza anche su ogni nostrana incursione “nazionalista” che una certa sinistra radicale italiana ammalata di populismo ha portato avanti in questi ultimi anni. Una tendenza che ritengo essere arrivata al capolinea e che si è nutrita di un sacrosanto anti-europeismo anti-neocolonialista, ma con il risultato di fare il verso alle destre, nella velleità di competere con loro sul loro stesso campo. Si pensi solo a certe posizioni discriminatorie sui migranti e alla definizione della migrazione come “invasione”. In realtà, il vero discrimine nei paesi occidentali ed europei sulla questione della sovranità non è la nazione, ma la classe, detto in termini molto schematici, certo, ma per capirci fino in fondo. E dagli USA arriva una bella lezione e non a caso da lì: dove la classe è multirazziale e dove al di là del proprio potere classista, non esiste alcun “padrone esterno”. Il centro dell’imperialismo per eccellenza ce l’hanno in casa.
Dunque, la crisi del neoliberismo riaccende la lotta di classe dal basso verso l’alto. Crea i presupposti per rimettere al centro ipotesi di paradigma socialiste, comunità collettivistiche che non possono certo essere riedizioni delle esperienze passate, ma che sono tutte da realizzare e sperimentare. Nel caso italiano, il centro dello scontro sociale non potrà non essere la rottura con l’Unione Europea e i suoi trattati ordoliberisti, perché da qui discende tutta la devastazione economica e sociale degli ultimi decenni, tra privatizzazioni, impossibilità dell’intervento statale a favore delle aziende in crisi, speculazioni finanziarie contro un paese che non stampa moneta, che non ha una politica economica indipendente.
Ma i temi centrali qui come negli USA sono i medesimi: non si può lasciare ai mercati (leggi: i centri del potere finanziario e multinazionale) le redini dell’economia di un paese. Occorre un forte e profondo cambiamento democratico che dia tutti gli strumenti a un potere popolare per pianificare l’economia, per socializzare i mezzi di produzione e di circolazione del capitale a partire da quelli vitali per la società.
Basta, dunque, fare il verso alle destre, che siano europeiste o sovraniste. Più che di nazioni autoreferenziate in un mondo sempre più interconnesso, ci sono tutti i presupposti per il rilancio di un nuovo internazionalismo popolare e proletario.
Vista in maniera più ampia, si può constatare come il centro dell’imperialismo mondiale, gli USA, sia sottoposto a un attacco fuori e dentro il suo territorio nazionale, come portato di secoli di oppressione schiavistica, coloniale e neocoloniale da parte del capitalismo liberale razziale. Le resistenze bolivariane in America Latina, tra alterni colpi di mano, le lotte popolari in tutto il continente sudamericano esprimono la risposta all’attuale neocolonialismo yankee. E dal cortile di casa, si è passati… direttamente in casa.
Solo la “sinistra” nostrana, euroriformista, non si è accorta di questo fenomeno politico piuttosto dinamico e in progress, che si sta espandendo in tutto il mondo “anglosassone”, ossia in quei paesi come il Regno Unito, che vivono in modo altrettanto stridente il neoliberismo selvaggio sviluppatosi in questi decenni, paesi che sono stati la culla del tatcherismo e del reaganismo. La nostra “sinistra” riduce la rivolta statunitense a proteste umanitarie e antirazziste contro la brutalità poliziesca contro gli afroamericani, senza nulla toccare del sistema che ha generato queste condizioni. Ma perché questa riduzione superficiale fa comodo per non rimettere in discussione nulla qui da noi delle politiche di asservimento europeista e atlantista al capitalismo continentale e del servilismo del nostro ceto politico alle élite d’oltreoceano.
E’ auspicabile che la nuova onda statunitense sia anticipatrice (come gran parte dei i fenomeni sociali partiti da là) di una tendenza che presto inizierà a manifestarsi anche qua. Che chiuda i conti con questi teatrino fatto di Papetee e sardine. Perché se all’ignavia PD e dei suoi cespuglietti che sostengono nei fatti la deriva neoliberista in Italia e in Europa sta facendo da contraltare la peggiore destra ammantata di “sovranismo” populista, l’unica possibilità è sintetizzata della parola d’ordine degli zapatisti: que se vayan todos!.
Ovviamente alla “sinistra” nostrana fa molto comodo ridurre la chiave di lettura della nuova onda americana alla sola questione razziale che sì è fondamentale, ma non ci fa capire nulla di quanto sta accadendo negli USA se ci limitiamo ad essa.
Già abbiamo visto le Sardine cavalcare con la parola d’ordine “I can’t breath” il processo di liberazione irreversibile negli USA, bypassando completamente ciò che è scomodo ai loro mentori italiani, ossia il PD e i partitini vari alla LeU e Coraggiosa che gli fanno da contorno: le questioni del lavoro, lo sfruttamento del capitale sul lavoro e la miseria sociale dilagante in tutti gli stati dell’Unione.
Ma qui in Italia l’impostazione politica è completamente diversa e vede la totale subalternità della post-sinistra (definiamola così, non offenderemo più chi si sta rotolando nella tomba) al neoliberismo: subalternità diretta, da parte del PD, che ne è l’asse politico centrale; o per conseguenza: LeU, Coraggiosa, ecc.. E parlo di quel neoliberismo che là negli USA è ben chiaro a quelle sinistre e che viene quindi combattuto, ma che qua fa l’effetto della latrina per chi ci vive dentro e non sente più il fetore di piscio. Qui vige una sorta di totalitarismo politico che impedisce una presenza realmente critica dentro l’ala sinistra della borghesia imperialista ed euroliberista di qualsiasi realtà organizzata della sinistra radicale, una capacità di incidere nelle sue politiche.
L’esempio di Bernie Sanders, dei DSA e di stelle nascenti del socialismo come la Ocasio Cortez (4), qui sarebbe impensabile e lasciamo al mondo dell’autoillusione, o meglio, alla disonestà intellettuale personaggi come la Schlein o Fratoianni, che vogliono farci credere che in coalizione col PD si possa avere lo stesso scenario del bipolarismo USA, e che quindi con le primarie dem e l’internità sia possibile introdurre elementi progressivi su tanti temi come la salute, il lavoro, l’ambiente. In realtà il ruolino di marcia dei Bonaccini a livello regionale o degli esecutivi governativi in cui partecipa il PD a livello nazionale non si tocca. Il “piccolo dettaglio” che differenzia questi personaggi di piccolo cabotaggio nostrano, che fanno leva su qualche rivendicazione, dalla presenza socialista alle primarie dem, è la forte pressione dal basso che ha consentito anche a personaggi come Sanders di capitalizzare questa forza sui temi sociali. Ma soprattutto è la lotta che attraversa tutta la società civile statunitense.
La pressione dal basso sui dem USA, sviluppatasi in anni di conflitto di classe, l’antagonismo, le lotte
I democratici USA devono fare i conti con una marea montante antagonista che, nella migliore delle ipotesi, si presenta come socialista riformista, appunto Sanders e soci (5), ma che di fatto va ben oltre per conflittualità sociale e coscienza politica. L’intera élite statunitense deve fare i conti con lotte che qui nemmeno ci immaginiamo. Vediamone alcune per sommi capi.
Partiamo da un punto sostanziale: sono anni che la sinistra americana, sin dai tempi di Occupy e del “noi siamo il 99%”, ossia dal 2011, sostiene tre punti fondamentali: salario minimo a 15$, il medicare ossia un sistema sanitario che deve tornare a essere pubblico e garantito a tutti, e la questione più politica di democrazia economica, ossia il fatto che il reddito degli americani più ricchi, ossia l’1%, dal 1979 al 2007 è aumentato del 275%, mentre i salari sono cresciuti nel frattempo meno dell’inflazione (6). (Detto per inciso, quando mai queste questioni sono state agitate da una sinistra imbelle e capitolazionista come la nostra?)
A questi punti si accompagna un chiaro orientamento strategico al socialismo che qui non esiste. O viene timidamente sbandierato da forze decotte ed euroriformiste come Rifondazione Comunista. Giusto Potere al Popolo ne fa qualche accenno, avendolo nel suo dna. Il DSA è forse politicamente più rivoluzionario anche della sinistra radicale italiana? (7) E’ una domanda provocatoria, ma pertinente, visti gli esiti del conflitto sociale USA, la sua crescita e il ruolo che giocano le stesse forze “moderate” come i DSA. Negli USA si parla di socialismo, qua no.
Ma torniamo alle tappe della crescita della lotta di classe al capitalismo razziale in USA.
Il 2011 segna un passaggio importante per la sinistra radicale americana: è l’anno di Occupy, ossia di un vasto ed eterogeneo movimento contro le forti disuguaglianze sociali e il potere della finanza nato per certi aspetti e caratteristiche dalle esperienze no-global dell’ondata precedente, quella di Seattle del 200. Ma in quell’anno c’è anche un altro fenomeno importante: il governatore del Wisconsin Scott Walker con il Budget Repair Bill cercò di rendere illegali le contrattazioni collettive per i lavoratori del pubblico impiego, oltre a tagli alla sanità, alla tutela dell’ambiente e all’istruzione pubblica. Ciò provocò una risposta di massa piuttosto vasta: oltre centomila persone invasero la capitale Madison, gli insegnanti organizzarono un assenteismo di massa, fu occupato il Campidoglio dai manifestanti (8).
Nel 2014 a Ferguson, l’assassinio di Michael Brown, un adolescente afroamericano ad opera di un ufficiale di polizia bianco, scatenò un’ondata di proteste e scontri e la nascita di Black Lives Matter, che chiedeva la fine del razzismo e delle uccisioni dei neri da parte della polizia. Ma è evidente, come già evidenziato, che tutte queste esperienze di lotta hanno avuto un processo di convergenza alimentata dalla miseria sociale dilagante e dallo strapotere nei luoghi di lavoro e sul territorio da parte dei guardiani razzisti e classisti del capitale.
Il fronte sociale e politico è piuttosto eterogeneo: va dall’Antifa all’anarchismo organizzato, dal BLM alle campagne per le primarie di DSA e sostenitori di Sanders, alle lotte di realtà autonome nel mondo del lavoro come Fight for 15$.
In specifico, nell’ambito dell’antagonismo di classe, è significativa l’unificazione di varie entità organizzate sotto il cartello del già prima menzionato Rising Majority, a cui hanno aderito personalità dell’attivismo anticapitalista come Naomi Klein, e comuniste storiche della lotta antirazzista e contro il carcere imperialista e le sue strutture privatizzate come Angela Davis (9).
In particolare è degno di rilievo lo sviluppo e l’unificazione delle proteste in seguito all’assassinio di George Floyd, l’attivismo dei BLM nelle città statunitensi, le mobilitazioni sul territorio come la già citata esperienza di CHAZ a Seattle. Interessanti a tal proposito sono le considerazioni di Noam Chomsky su questa esperienza:
“Creare delle strutture di mutuo soccorso e cooperazione che liberino le persone dalle strutture governative, che si sono dimostrate totalmente inadeguate nell’affrontare problemi specifici, come garantire l’acqua a tutti e tutte – o altri problemi più gravi ancora che spiegano come mai siamo stati così disperatamente impreparati per questa crisi. La zona autonoma è un esempio interessante di questa tendenza. È anche impressionante vedere il supporto che arriva [da persone come] il sindaco di Seattle, e l’enorme sostegno popolare, che sta facendo impazzire Trump e Fox News. È un segnale positivo, una cosa importante. Credo che sia una manifestazione del fatto che iniziamo a pensare di poter prendere il controllo delle nostre vite, di non poterle lasciarle nelle mani delle autorità che si presentano come nostri padroni. Dobbiamo farcene carico noi.” (10)
Un’esperienza di autogestione popolare che va oltre l’accampata di Occupy per arrivare su un terreno di contropotere. A ciò si aggiungono le lotte sui luoghi di lavoro, il costituirsi di comitati popolari, esperienze come il boicottaggio da parte degli autisti di mezzi adibiti al trasporto dei manifestanti nelle carceri, l’appoggio al già citato Defund the Police, all’istanza di definanziare le spese per la polizia nella lotta per estromettere dai sindacati la polizia stessa (11).
In particolare i comitati popolari di base nei luoghi di lavoro e nel territorio delineano l’orientamento che vanno assumendo la ricomposizione di classe, l’organizzazione e la lotta verso la costituzione di consigli operai e popolari. Leggo dal summenzionato articolo di Left Voice:
“Questi comitati popolari di base possono costruire il potere di colpire e fermare la produzione, sia per misure di sicurezza durante la pandemia che a sostegno della rivolta. E possono essere il modo di coordinare nuovi settori della classe lavoratrice per unirsi alle mobilitazioni e ai combattimenti di strada.” (…) “Ma altrettanto importante è l’agitazione ovunque e ogni volta che possiamo per la creazione di assemblee di massa come quelle emergenti a Minneapolis e Seattle. Queste assemblee di massa possono essere cruciali per unificare, collegare e coordinare le lotte di manifestanti, attivisti sindacali e liberi lavoratori non sindacali.”
La rivolta sociale divampata negli USA ha anche e soprattutto le caratteristiche sul piano identitario e delle vertenze di una vera e propria lotta di classe del basso contro l’alto, una lotta proletaria che riunifica una sommatoria di istanze sociali, che tende verso la costruzione di un contropotere consiliare ancora embrionale, ma significativo.
Amazon (Amazonians Unidos) e Instacart sono altri esempi in cui i lavoratori hanno costituito infrastrutture organizzate, ma esperienze di lotta si annoverano anche in altri contesti del lavoro come McDonald e anche tra i lavoratori agricoli.
Afroamericani, latinos, asiatici e tanti bianchi precari e poveri, nonché il soggetto doppiamente sfruttato e vessato, quello femminile, costituiscono la vasta e variegata realtà dell’antagonismo sociale statunitense, espressione dei profondi guasti lasciati dal neoliberismo, che qui ha la sua culla, dell’abissale polarizzazione tra ceti agiati e classi popolari con in mezzo una media borghesia devastata (come qua) dalle veloci dinamiche di esproprio sociale e di rapida caduta dalla scala sociale nella perdita di lavoro e potere d’acquisto, proprie della società USA, quindi dalla fuori uscita dalle coperture previdenziali e dal ritrovarsi dall’oggi al domani in mezzo alla strada.
Per quanto riguarda i “reietti del paese”, il rapido sviluppo di una loro coscienza di classe e di realtà di base antirazziste e anticapitaliste rivoluzionarie, le parole di Angela Davis sono più eloquenti di qualsiasi bella analisi:
“Questo è un momento straordinario. Non ho mai sperimentato nulla di simile alle condizioni che stiamo vivendo attualmente, la congiuntura creata dalla pandemia di Covid-19 e il riconoscimento del razzismo sistemico che è stato reso visibile in queste condizioni a causa delle morti sproporzionate nelle comunità di Blacks e Latinos. E questo è un momento in cui non so se mi sarei mai aspettata di sperimentare (…) ho spesso detto che non si sa mai quando le condizioni possono dar luogo a una congiuntura come quella attuale, che sposta rapidamente la coscienza popolare e ci consente improvvisamente di muoverci nella direzione del cambiamento radicale.” (13)
In conclusione
Se andiamo oltre i singoli alberi e vediamo la foresta nella sua interezza, diviene chiaro ciò che sta accadendo a partire dagli USA, con la caduta dei livelli di gestione capitalistica dello stato di cose vigente. Come le borghesie imperialiste si stiano preparando per contenere le masse d’urto popolari e le possibilità di intervento politico delle forze marxiste rivoluzionarie e antagoniste in una molteplicità di ambiti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche più politici sui rapporti di forza tra classi, ossia di contropotere e autogestione, di rimessa al centro del pubblico in una nuova visione di Stato popolare.
Sinora i punti di frizione maggiori di questa lotta di classe erano all’esterno: tra imperialismo e popoli, con punti focali come il Venezuela, la mai doma Cuba, il Medio Oriente, l’intera America latina. Con capovolgimenti di forze alterni: Macrì in Argentina, Bolsonaro in Brasile, Lenin Moreno in Ecuador, il golpe in Bolivia e poi ancora la vittoria popolare del peronismo kirchneriano in Argentina. In particolare l’attacco al bolivarismo pur con le sue contraddizioni e all’emancipazione sociale di cui è portatore nei confronti dei popoli e paesi dell’America latina che si affrancano dal dominio imperiale yankee viene tutt’ora condotta senza esclusione di colpi.
Certo, il tentativo delle oligarchie imperialiste più in generale è quello di contrastare l’ingresso sulla scena mondiale di nuovi grandi attori capitalisti, di predare o mantenere il controllo su materie prime e risorse energetiche, ma anche quello di stroncare esperienze politico-sociali del tutto alternative al modello neoliberale. E questo è il fronte più caldo. Ora però questo fronte è divenuto mobile, e si è esteso arrivando geograficamente e socialmente fino al cuore delle contraddizioni sociali del sistema imperialista stesso. Questa guerra sociale è arrivata fin dentro le metropoli.
Nella rivolta statunitense, le componenti rivoluzionarie non hanno certo un ruolo secondario. In intere masse giovanili, che si credevano educate da bravi bimboni ad hamburger king size da McDonald e videogame, rivivono le evocazioni anticapitaliste, comuniste, libertarie tipiche degli anni ’60 e ’70. Antichi percorsi che si credevano interrotti definitivamente, si riallacciano con modalità organizzative e in contesti socio-culturali e comunitari diversi, con intelligenza politica e metodo. E le scene delle manifestazioni e del conflitto di strada sono molto simili a quelle nostre degli anni ’70 in Italia: il meglio che il movimento di classe antagonista qui da noi abbia mai potuto esprimere.
La lotta di classe ritrova una sua pratica soggettivazione proprio nell’epicentro del capitalismo mondiale, ormai attraversato dalla devastazione sociale, frutto di decenni di macelleria sulle classi lavoratrici, privatizzazioni, di un liberismo che ha avuto il suo sviluppo con Reagan e Tatcher, e che oggi mostra tutti i suoi limiti più osceni: l’aver portato a dei livelli intollerabili e a un punto di non ritorno le diseguaglianze e tutte le tare mai superate delle “democrazie” liberali come il razzismo, la supremazia oligarchica bianca, la privazione di ogni diritto e dignità nel nome del mercato.
Ecco perché si tratta di un passaggio epocale. La rivolta cilena contro Piñera dell’anno scorso, nel paese simbolico dove tutto è iniziato nel 1973 con gli esperimenti economico-sociali dei fanatici iperliberisti dei Chicago boys, è stato il colpo di diapason. Ma la marea montante ha la sua prosecuzione non in qualche remoto territorio delle periferie dell’imperialismo; il suo sviluppo, che segna il passaggio di fase insieme alle devastazioni profonde accentuate dal Covid, è proprio nell’Occidente nord americano, dove la miseria già da anni segna la vita di decine di milioni di persone senza alcuna soluzione che non sia il tentativo di girare individualmente la roulette del darwinismo sociale, del “cane mangia cane”, del gioco al massacro del libero mercato.
Minneapolis e poi Seattle, Boston, Oakland, New York, Washington e il resto delle grandi metropoli statunitensi, rappresentano l’inizio della grande crisi sociale del capitalismo avanzato, imperialista, l’esplosione del ventre della bestia.
Vedere le immagini degli scontri non rende quanto le migliaia di pugni alzati antifascisti, di una sinistra irriducibilmente antagonista che ci riassume tutta la storia dei movimenti operai e socialisti del secolo scorso, riannodando un filo rosso che si pensava interrotto definitivamente, pensato fino a ieri solo come ipotesi, eventualità quasi utopica. E’ una presa di coscienza della forza sociale che riguarda anche i diretti protagonisti, che in queste settimane si sono ben saggiati. E la questione non finisce qui.
Democratici e repubblicani, neocom di entrambi i campi fittizi della medesima oligarchia, del deep state USA, lo sanno bene: chi sfila nelle piazze degli Stati dell’Unione è una massa eterogenea, composta da una minoranza che vota e una maggioranza che non voterà mai più o che non ha mai votato. Sono i focus target delle campagne politiche che se ne vanno dagli orizzonti di un’autonomia del politico che è solo regime, fuori e contro le vuote e asfittiche istituzioni del comando e delle lobby, che, nella “migliore” delle ipotesi possono essere tutt’al più un’opzione obamiana, quella elitaria, dell’oligarchia, che ha stroncato con la frode clintoniana in due primarie le spinte socialiste e di giustizia sociale incarnate da Bernie Sanders. Tutti passaggi politici che hanno portato nella testa di vaste masse alla caduta di ogni credibilità di poter cambiare lo stato di cose dall’interno, di appoggiarsi al nemico apparentemente più “buono”.
Ma lo stesso copione viene articolato anche qua, in un TINA (there is no alternative) che non guarda neppure più la necessità di gestire il consenso. Come se i bugiardoni di regime, le veline, le menzogne, le bufale potessero influire su un corpo sociale senza alcun new deal, azione concreta per intervenire sulla devastazione acuita dal covid, sulle economie distrutte. Resta solo il vuoto delle cittadelle della rendita, simulacri di patti sociali che non esistono più. Ma questa è un’altra storia, che necessiterebbe altre, più approfondite quanto urgenti riflessioni.
Mi limito ad affermare che sta in noi dunque, alle forze della sinistra di classe, ai comunisti, prendere esempio dal lavoro straordinario fatto dalle realtà marxiste rivoluzionarie statunitensi, per non lasciare al populismo reazionario il ruolo di oppositori e quindi una falsa iniziativa politica “anti-sistema” che non è altro che l’altra faccia dell’orrida medaglia capitalista. Qui c’è ancora molta confusione, c’è tanta arretratezza politica. Ma i segnali della crisi sociale ci sono tutti. Sapremo esserne all’altezza?
NOTE
1) A tal proposito consiglio la lettura di Controstoria del liberalismo, di Domenico Losurdo, ed. Laterza, che analizza l’approccio allo schiavismo da parte del pensiero liberale dalla sua genesi: John Locke, John Calhoun, John S. Mill.
2) Sui secoli di oppressione degli afroamericani e sulle attuali lotte antirazziste è interessante l’intervista a Carl Williams, attivista di supporto legale al BLM Boston qui
3) Ecco il sito: https://therisingmajority.com e una lista parziale delle organizzazioni aderenti: Black Lives Matter / Grassroots Global Justice / Working Families Party / Southern Vision Alliance / U.S. Labour Against the War / National Domestic Workers / Left Roots / Fight For $15 / Women’s March / Black LGBTQA+ Migrant Project
4) Si vada a leggere qui
5) Va detto che il ceto dirigente dei democratici USA, esponenti del deep state, fa sempre di tutto per boicottare la politica radicale dei socialisti, ma appunto le dinamiche politiche rispetto all’Italia sono differenti e differente e più incisiva è la pressione della sinistra radicale.
6) Bashar Sunkara, Manifesto del socialismo del XXI secolo, pag. 216.
7) La stessa Angela Davis nei lontani anni ’60 definì come radicali coloro che vanno alle radici delle cose; ma qui in Italia si sono perse proprio le radici…
8) Vedi l’articolo (qui) di Valerio Evangelisti sulla nostra testata il 2 marzo 2011
9) Qui la tematizzazione dei contenuti e del dibattito interno all’inizio della pandemia negli USA e alla vigilia della rivolta sociale
10) Qui, in questo articolo di Jacobin Italia l’intera intervista
11) In merito a questo, leggere qui
12) Questi e altri dati sulle esperienze di lotta attuali evidenziate da Left Voice si trovano su questo articolo
13) Citazione presa dall’articolo-intervista a Kent Ford, attivista storico delle Black Panthers, fondatore della loro sezione a Portland negli anni ‘60 su Contropiano (qui)
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FONTE: https://www.carmillaonline.com/2020/07/14/dagli-usa-una-nuova-fase-della-lotta-di-classe/