Pubblichiamo il contributo, in italiano, che l’Osservatorio Repressione ha curato per il Report del CIVIC SPACE WATCH – EUROPEAN CIVIC FORUM
***
Parlare del diritto di assemblea e del diritto di protesta ai tempi del lockdown per Covid – 19, nell’Italia dei 226.699 casi totali di persone contagiate dall’inizio della pandemia, con 65.129 attualmente positive e soprattutto 32.169 decedute (dati forniti dal Ministero della Salute, attualizzati al 19 maggio), suona come una barzelletta.
Tutto sommato, se a reti unificate, giorno dopo giorno a tutte le ore, il bombardamento sensoriale cui è stata sottoposta la popolazione italiana ha ricalcato il messaggio del Governo del #IoRestoaCasa, ossia “Se ami l’Italia, mantieni la distanza“, è facile intuire come tali diritti/libertà siano stati da subito soppressi in nome dell’emergenza epidemiologica.
Perché in luogo dei diritti di riunione e di manifestazione del pensiero (non sia mai, di protesta…) nel lessico del Governo, delle Istituzioni tutte, dei media e dell’opinione pubblica, si è imposto a forza il concetto contrario di “obbligo del distanziamento sociale” e di “divieto di assembramento”.
A forza sì, non è una forzatura: perché non bisogna dimenticare che la narrazione governativo-istituzionale si sia da subito caratterizzata per il ricorso ad un armamentario bellico e patriottico, da guerra guerreggiata contro il perfido virus, da «Siamo in guerra contro un nemico invisibile» che ha fatto allarmare persino l’organo di informazione della Conferenza Episcopale Italiana, Avvenire.
Pertanto, con i militari nelle strade con funzioni di pubblica sicurezza e di vigilanza dell’obbligo dell’autocertificazione per giustificare i movimenti individuali; con il ricorso alla militarizzazione dell’informazione e del territorio via terra, mare e cielo (addirittura attraverso l’uso dei droni!); con la colpevolizzazione dei cittadini a reti unificate e l’invito alla delazione dal balcone tramite comoda app contro gli assembramenti e gli “irresponsabili” – “egoisti” che mettono a rischio la vita di tutti al grido di «È colpa di quelli come te se c’è il contagio!» (funzionali capri espiatori di volta in volta individuati nei runner, gente a passeggio, fattorini etc. etc.); la soppressione dei diritti/libertà collettive è apparsa come prassi dovuta, quasi normale, in forza della (ennesima) emergenza da affrontare.
Dopotutto, se già dalla regolazione legislativa dell’emergenza, alla gestione operativa, si è derogato alla funzione assembleare del Parlamento e alla collegialità e condivisione delle funzioni amministrative a favore della delega, rispettivamente, all’Esecutivo e ai Prefetti per via del Ministero dell’Interno, non ci si può aspettare che alla cittadinanza fosse garantito il pieno godimento di tali diritti/libertà, tanto a livello individuale, quanto e soprattutto collettivo.
Ma procediamo con ordine per meglio tratteggiare un quadro globale della vicenda, già a tinte fosche e complesso di suo ancor prima della proclamazione dello stato di emergenza.
Stato di Diritto e prassi legislativa
Partiamo appunto dalla Legge, dalla proclamazione dello stato di emergenza e dalla prassi legislativa che ha sinora contraddistinto la temporanea (?) sospensione dell’ordinamento democratico e dello Stato di Diritto in Italia, a vantaggio di uno Stato di Eccezione declinato in Stato di Emergenza.
Per districarci nella matassa ingarbugliata rappresentata dalla questione legislativa, è opportuno fare riferimento innanzitutto alla tempistica con cui è stata affrontata l’emergenza Coronavirus:
- il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiara l’epidemia da COVID-19 «un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale»;
- l’11 marzo 2020 l’OMS, per bocca del suo Direttore Generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, in conferenza stampa proclama la pandemia: «We have therefore made the assessment that COVID-19 can be characterized as a pandemic».
L’Italia “si è svegliata tardi”, o meglio, le sue Istituzioni Centrali: Il Parlamento e il Governo.
Fino al 23 febbraio 2020, difatti, ogni Regione ha provveduto a sé, e i Comuni a seguito, emanando ordinanze contingibili e urgenti spesso in contraddizione l’una con l’altra o tra i rispettivi territori, provocando:
- un’ingarbugliata legislazione regolamentare, di stampo secondario nella gerarchia delle fonti legislative, e a carattere esclusivamente limitato nel tempo (provvisorio) e nello spazio (valide solo entro i limiti dell’Ente Locale regolatore);
- una massa di direttive attuative, sempre più intricate e restrittive delle libertà personali individuali e collettive a seconda della sensibilità politica del Governatore o Sindaco dell’ente di governo locale, improvvisate e a breve periodo, tutte dettate dalla “straordinaria necessità e urgenza” di approntare misure provvisorie in nome dell’emergenza sanitaria, ma spesso in aperto contrasto con la Costituzione Repubblicana.
Ai Governatori e Sindaci, quindi, iniziano a rispondere i singoli Ministri a seconda del dicastero di appartenenza attraverso Decreti Ministeriali (DM), ossia atti amministrativi a carattere tecnico-regolamentare, sempre di livello secondario nella gerarchia delle fonti legislative, al fine soprattutto di evitare contrasti tra le varie ordinanze regionali e comunali di stampo contingibile e urgente. Atti d’ufficio, insomma, che non passano per la discussione parlamentare ma al massimo al tavolo del Consiglio dei Ministri.
Dai Ministri al Presidente del Consiglio, capo dell’Esecutivo, la storia non cambia: prende avvio la prassi legislativa dei Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, i DPCM, atti di stampo prettamente governativo assunti e adottati esclusivamente dall’Esecutivo in carica, senza discussione parlamentare, promulgati in conferenza stampa e a carattere ancora amministrativo-regolamentare, uno dietro l’altro, spesso emanati addirittura giorno per giorno, quindi a valenza di 24 ore e inizialmente neppure a copertura nazionale.
Di fatto, i primi DPCM[1] di febbraio “spaccano” l’Italia in due, a seconda della diffusione del contagio: inizialmente nelle province di Milano e Bergamo, poi in 13 province del Nord, viene istituita la zona rossa, con coprifuoco e blocco alla circolazione e anche alla produzione, salvo dei beni essenziali; per tutto il resto del Paese, una più tenue zona arancione, con mano libera a Governatori regionali e Sindaci dei Comuni di continuare ad adottare misure provvisorie come in precedenza, casomai provando a non entrare in contraddizione e non discriminare troppo.
Il 23 febbraio 2020, in ogni caso, il Governo e il Parlamento Nazionale battono il primo colpo “collegiale”: non una Legge, ma un Decreto Legge, un atto dell’Esecutivo avente forza di legge per un periodo massimo di 60 giorni, tempo necessario alla sua conversione in Legge da parte del Parlamento a pena di decadenza, a carattere temporaneo perché eccezionale, in quanto da emanarsi soltanto in casi da “straordinaria necessità e urgenza” secondo il dettato Costituzionale.
Con tale Decreto Legge, il Governo prende atto dello stato di epidemia diffuso a livello nazionale e dell’incremento esponenziale dei casi e decessi, e, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, comincia a disporre un’unificazione della normativa regolatoria sino a quel momento emanata dalle varie autorità locali, estendendo le misure di contenimento e finanche prevedendo:
- la «sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi o aperti al pubblico».
Se, quindi, vogliamo indicare una data, ufficiale, per determinare cronologicamente l’avvio della sospensione del godimento del diritto/libertà di riunione e di manifestazione, questa è il 23 febbraio. E ancora non siamo in pieno lockdown a livello nazionale.
Dopo questo Decreto Legge, ne seguiranno degli altri, costantemente intervallati da DPCM e DM a ritmo se non giornaliero, però quasi; sino al 9 marzo, data di emissione di un nuovo DPCM che estende la zona rossa a tutto il territorio nazionale e tra le misure di contenimento dispone, subito dopo tale estensione e prima delle misure di sostegno economiche a imprese, banche e distinte e ben selezionate categorie di soggetti “vulnerabili”, che:
«Sull’intero territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico.»
La produzione normativa governativa che ne seguirà non interromperà la prassi legislativa vista sin qui, esautorando il Parlamento da ogni controllo o forma di partecipazione, in nome della “straordinaria necessità e urgenza” di dover gestire un’emergenza pandemica mai vista dal secondo dopoguerra ad oggi, in nome del controllo securitario e dell’autoritarismo ben celati dietro la parola d’ordine #IoRestoaCasa o nella più patriottica Se Ami l’Italia, mantieni le distanze.
Stato di Eccezione insomma, declinato in Stato di Emergenza.
Ma questa prassi legislativa non sembra imbarazzare più di tanto le alte sfere, tanto politiche quanto tecnico-giuridiche: la Costituzione Italiana non prevede la proclamazione dello Stato di Emergenza, semmai soltanto quella dello Stato di Guerra ai sensi dell’art. 78, con la cessione dei poteri nelle mani del Governo da parte del Parlamento.
Ai fini della proclamazione dello Stato di Emergenza, dunque, il cavillo legale cui appellarsi è il ricorso al Decreto Legge ai sensi dell’art. 77 della Costituzione: come accennato, un atto avente forza di legge e a validità limitata ai 60 giorni, adottabile dall’Esecutivo solo in caso di “straordinaria necessità e urgenza”; pertanto, il Governo assume il potere legislativo in via eccezionale e nell’immediatezza della “straordinaria necessità e urgenza”, per poi condividerlo, ai fini della conversione in legge, col Parlamento.
Per mezzo del Decreto Legge, quindi, il Governo proclama lo Stato di Emergenza e, attraverso la legge 225/1992 con la quale è stato istituito il Servizio Nazionale della Protezione Civile, conferisce al capo del dipartimento per la protezione civile il potere di ordinanza nelle zone interessate dall’emergenza, in deroga alle procedure ordinarie seppur nel formale rispetto dei principi costituzionali, con efficacia di 180 giorni prorogabili fino al doppio di tale termine, finché non “si ristabilisce la normalità”.
Tutto legale insomma, tutto a norma, tanto l’abuso della decretazione d’urgenza già ampiamente sperimentato nell’Italia delle innumerevoli emergenze, quanto la sospensione (?) temporanea (?) dei diritti e delle libertà fondamentali, quali per l’appunto i diritti/libertà di riunione-associazione e di manifestazione.
Una prassi legislativa, in sostanza, frutto di una tecnica legislativa che inizia ad essere affrontata, anche a livello dottrinale, quale “Governo dell’emergenza”, dove l’Eccezione si fa regola, e la regola degrada ad eccezione, con tanti cari saluti alle teorie (e soprattutto alla retorica) sullo Stato di Diritto e sulle garanzie e principi fondamentali della Costituzione: valga, ad esempio, una veloce carrellata sull’abuso della decretazione d’urgenza quale forma privilegiata di esercizio del potere legislativo da parte di ogni Esecutivo, indistintamente, che si è succeduto in Italia, soprattutto dalla Grande Crisi finanziaria del 2007/2008 ad oggi irrisolta, all’attuale emergenza pandemica.
In fin dei conti, se anche l’opinione pubblica e la società civile sono assuefatte dal “obbligo del distanziamento sociale” e dal “divieto di assembramento”, perché mai dovrebbero indignarsi (non sia mai ribellarsi…) per l’esautorazione dei diritti/libertà di riunione-associazione e di manifestazione? Anche perché, per la partecipazione, c’è l’inno nazionale all’ora predeterminata dal balcone col tricolore affisso, e la delazione sempre a portata di mano con l’app sul tuo smartphone!
“Obbligo del distanziamento sociale” e “divieto di assembramento”
Queste sono le nuove paroline magiche della nuova normalità, in tempi di Coronavirus. A livello terminologico, e di riflesso politico, il significato di distanziamento sociale è da rintracciarsi nell’insieme delle misure ritenute necessarie a contenere la diffusione di un’epidemia o pandemia, come, per esempio, quarantena dei soggetti a rischio o positivi, isolamento domestico, divieto o limitazione degli assembramenti, chiusura delle scuole, ecc.
La traduzione letterale di social distancing ha assunto, pertanto, una funzione di semplificazione ai fini della comunicazione di massa. Il concetto, in ogni caso, è tutt’altro che semplice, e merita un approfondimento specifico, seppur rapido.
Distanziamento Sociale: innegabilmente un ossimoro lessicale, ma non politico, per come è stato declinato nel discorso pubblico del Potere. E, al contempo, oggetto di un obbligo normativamente disposto, dunque regola, non eccezione.
Un neologismo politico che, tuttavia, non può comprendersi appieno se lo si estrapola dal resto del discorso unico e dal contesto spazio – temporale in cui, “per forza di cose”, si è imposto. Forse, se letto in relazione con l’ulteriore “divieto di ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico” e, principalmente, col nazionalissimo slogan di Governo “Se ami l’Italia, mantieni le distanze” (altresì declinato in “mantieni almeno un metro di distanza dagli ALTRI”, e sempre se ami l’Italia), il suo significato politico arriva prima.
Niente di apocalittico, semmai la perfetta traslazione in concreto di uno dei concetti preferiti dall’upper class liberista di ogni latitudine, quel concetto per intenderci che subito ci riporta in mente la faccia e la dottrina della Thatcher: e non è il «There is not alternative»…
Dopotutto, «Non è il lockdown che ha smaterializzato i rapporti umani, ma viceversa, sono le preesistenti condizioni di smaterializzazione (dettate dalle esigenze ideologiche e di profitto) che hanno reso possibile il lockdown» come argomenta esaustivamente Wolf Bukoski in questo saggio.
Distanziamento sociale, dunque, come pratica e dottrina individualistica del rifiutare la socialità o la nozione stessa di società generalmente intesa, ovviamente a fini salvifici. Perché la socialità è fonte di pericolo; del pericolo del contagio, senz’altro, ma anche del pericolo della condivisione di consapevolezza per la comune condizione di umanità in balia delle stesse politiche liberiste e dello stesso comando capitalista che ora tentano la gestione e il “contenimento” della pandemia.
Lo dice, sicuramente meglio, lo scrittore Alberto Prunetti: «Il governo sembra non avere un disegno, sta improvvisando in maniera catastrofica, mettendo a luce tic reazionari («assembramenti», «congiunti» e tutto il lessico del codice Rocco). La classe dirigente del paese non sarebbe in grado di amministrare un condominio. È l’amara verità. Però quelli da colpire col sarcasmo sono i poveri, che di certe politiche sono le prime vittime. Quando ci chiedono di sventolare il tricolore e di voler bene all’Italia, è perché non sanno come fare per coordinare la solidarietà sociale, per garantire il punto di incontro tra il diritto alla salute e quello al reddito e alla socialità. Soffiano sul fuoco per dividere i lavoratori, non trovando misure per accontentare tutti.»
Ma non solo. Distanziamento sociale anche come altra faccia della medaglia dell’isolamento domiciliare indotto dalle misure di contenimento: a livello normativo, è espressione di un precetto in forma di “obbligo”, che si arricchisce dell’ulteriore “divieto di ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”, cui corrisponde la sanzione[2] amministrativa della multa per le rispettive infrazioni.
In fin dei conti, il neologismo discende dal Governo del #IoRestoaCasa (perché fuori ci sono le Forze Armate che ti multano!), non c’è da stupirsi troppo della sua idiosincrasia. E nemmeno della sua contraddittorietà nell’attuale mondo globalizzato e iperconnesso: distanziamento sociale si coniuga con smart working ed esplosione della gig economy anche a queste latitudini, della realtà virtuale da privilegiarsi rispetto alla vita reale al momento off limits causa pandemia. Niente di nuovo, insomma, in tempo di “Capitalismo dei disastri” e di “shock doctrine”, per dirla alla Naomi Klein.
Dunque, espressione della crisi politico-democratica che la pandemia, intervenuta già nel pieno della crisi economico-finanziaria scoppiata dal 2007-2008 (ed a tutt’oggi irrisolta), ha semplicemente disvelato nella sua natura già compromessa e oramai irreversibile.
«Il distanziamento sociale è qui per rimanere per molto più di qualche settimana. Rovescerà il nostro modo di vivere, in qualche modo per sempre», come confermato da un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) sulla MIT Technology Review, nel saggio “We’re not going back to normal” del 17 marzo 2020.
Autoritarismo e repressione, abuso come regola, individualismo sfrenato e panico e paura fomentati mediaticamente per indurre il sonno della ragione collettiva: illuminante, a tal proposito, è la riflessione del filosofo Agamben laddove, domandosi se una comunità fondata sul “distanziamento sociale” sia umanamente e politicamente vivibile, riconosce:
“Non so che cosa avrebbe pensato Canetti della nuova fenomenologia della massa che ci troviamo di fronte: ciò che le misure di distanziamento sociale e il panico hanno creato è certamente una massa – ma una massa per così dire rovesciata, formata da individui che si tengono a ogni costo a distanza l’uno dall’altro. Una massa non densa, dunque, ma rarefatta e che, tuttavia, è ancora una massa, se questa, come Canetti precisa poco dopo, è definita dalla sua compattezza e dalla sua passività, nel senso che «un movimento veramente libero non le sarebbe in alcun modo possibile… essa attende, attende un Capo, che dovrà esserle mostrato».”
E il diritto di assemblea e di protesta?
Come detto, tali libertà/diritti politici collettivi sono stati temporaneamente “sospesi”, utilizzando il lessico del Primo Ministro che se n’è anche “rammaricato” nella conferenza stampa pre-Fase 2. Come il diritto di sciopero, d’altronde.
Eppure, a fronte degli innumerevoli motivi per le contraddizioni di sistema che la pandemia ha soltanto disvelato, il diritto di assemblea, come di sciopero e di protesta, sono stati ugualmente praticati, sfidando apertamente i dispositivi di controllo e dissuasione messi in campo, ed ogni qual volta scontrandosi con l’apparato repressivo di Stato.
Le rivolte nelle carceri e nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (C.P.R.)
A partire dal sistema carcerario, vera polveriera sociale (anche) a causa del perenne stato di sovraffollamento strutturale in cui versa (malgrado gli ammonimenti e le condanne della C.E.D.U., o l’appello dell’Onu a “Ridurre il numero dei detenuti”). Da inizio marzo è esplosa la rivolta in quasi tutti (se ne sono contati 49) gli istituti penitenziari disseminati nel Paese: a causa, in primo luogo, delle degradanti condizioni sanitarie e della carenza di adeguate e sufficienti protezioni anti-contagio, ma anche per l’imposizione del divieto tanto ai colloqui con i familiari e gli avvocati, quanto alla socialità.
E la repressione non si è fatta attendere, anzi si è consumata nel sangue: sebbene non sia mai partita una commissione d’indagine per acclarare i fatti e soprattutto il numero reale dei morti provocati, da subito si è diffusa la notizia che 13 persone avessero perso la vita sin dal primo giorno (di cui 6 a Modena e 3 a Rieti, nelle prime ore) dell’esplosione di rabbia collettiva che ha squarciato il velo di ipocrisia e omertà in cui è immersa la questione carceraria in Italia. Una mattanza, rivolte e morti ovunque, come ricostruito (anche) dall’Osservatorio sulla Repressione[3] attraverso la diffusione delle varie testimonianze raccolte (qui da Santa Maria Capua Vetere; qui da Torino; qui da Milano-Opera, Udine e Foggia, dove ben 72 detenuti sono riusciti ad evadere durante le rivolte; qui la lettera aperta di parenti e detenuti).
E dopo la repressione, i pestaggi e gli abusi indiscriminati di celere e secondini per ritorsione nei confronti delle persone recluse, oltre ai trasferimenti forzosi degli stessi per fiaccarne la resistenza e la solidarietà che da subito si è espressa da dentro e da fuori le mura delle carceri. Un deterrente verso l’interno del sistema carcerario, ma soprattutto un evidente messaggio politico verso l’esterno: non ci si ribella allo stato di cose presenti.
Eppure, fuori dal carcere, e parallelamente alle rivolte, montava la solidarietà nelle forme più disparate: da subito, i parenti dei detenuti e gruppi di solidali si sono recati presso gli istituti penitenziari coinvolti dalle proteste, tentando di comunicare con i reclusi e di informare sulla situazione, ricevendo in risposta le cariche dei reparti antisommossa e le multe per infrazioni all’obbligo del distanziamento sociale e al divieto di assembramento; così come reti di associazione, come la rete emergenza carcere composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e LasciateCIEntrare attraverso l’indirizzo emergenzacarcere@gmail.com, hanno raccolto diverse testimonianze sia in merito all’attuale situazione igienico sanitaria nelle carceri (ed in particolare alle reali misure di prevenzione adottate a fronte dell’estendersi dell’epidemia di COVID-19), sia con riguardo ad abusi e trattamenti inumani e degradanti perpetrati nei confronti dei detenuti a seguito delle rivolte carcerarie, prestando la relativa assistenza legale, copertura mediatica e presentando esposti alla Procura della Repubblica.
Stesso leitmotiv, tra l’altro, sia in relazione alle rivolte dall’interno, che alla solidarietà dall’esterno, con riguardo ai centri di detenzione amministrativa per i migranti, in Italia ora definiti Centri di Permanenza per i Rimpatri – C.P.R (perché Lager di Sato, per migliaia di persone colpevoli soltanto di essere immigrati irregolari/clandestini, suona male): anche in questo caso, tensione alle stelle e primi rilasci per il Covid-19.
A conclusione, è opportuno segnalare come lo Stato non abbia per niente gradito, tanto le proteste, quanto e soprattutto la trasversale diffusione della solidarietà che ha messo a forte rischio il tentativo statuale di continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto vanificando le misure di contenimento e repressione imposte per l’emergenza Coronavirus.
Se ad ogni presidio dei familiari dei detenuti e dei solidali ha risposto con cariche e multe (qui il caso di Roma), il 13 maggio a Bologna lo Stato, attraverso la locale Procura, ha addirittura alzato il tiro a livello di repressione. Con arresti e misure cautelari contro 12 compagne e compagni anarchici (nello specifico, 7 persone condotte in quattro diverse carceri e l’obbligo di dimora per altre 5), e una campagna mediatica denigratoria a senso unico, ha spettacolarizzato l’operazione cd. Ritrovo in forza dell’assurda imputazione per associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, istigazione a delinquere, danneggiamento, deturpamento e incendio e di un impianto accusatorio improntato ad «una strategica valenza preventiva»: in sostanza, per «evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale causati dall’attuale situazione emergenziale» possano verificarsi «altri momenti di più generale ‘campagna di lotta antiStato’», considerato che le e gli indagate/i avrebbero partecipato «all’organizzazione di incontri riservati per offrire il proprio diretto sostegno alla campagna ‘anti-carceraria’», ed è stata accertata «la loro partecipazione ai momenti di protesta». Per farla breve, lo Stato italiano, per il tramite della Procura di Bologna, ha inventato il “reato di opposizione politica”.
Di Antifascismo, 1° Maggio e due pesi e due misure
L’Antifascismo, nell’Italia democratica (?) fondata sulla Costituzione antifascista[4], non è più un valore fondante né fondativo. Quantomeno a livello istituzionale, perché “divisivo” ai fini della “pacificazione nazionale”, come pedissequamente proclamato ad ogni 25 Aprile nelle commemorazioni ufficiali dalle Alte Cariche di Stato e dalla stampa in coro unanime. E, di riflesso, tanto l’opinione pubblica, quanto la società civile, non ne sono immuni, anzi.
“Valore divisivo”, perché l’Italia non ha mai realmente ed efficacemente fatto i conti con il “suo tragico passato” (?) fascista, quanto è vero che al giorno d’oggi pullulano tanto le formazioni organizzate, quanto i discorsi, d’ispirazione fascista tra le istituzioni, tornate elettorali e (soprattutto) strade e quartieri del “Bel Paese”.
Ciononostante, i valori antifascisti resistono tra le pieghe della società e, malgrado il discorso a reti unificate all’insegna della “pacificazione nazionale” che diventa martellante ad ogni vigilia di 25 Aprile, i discorsi, le pratiche e le forme della Resistenza Antifascista invadono le piazze e i quartieri tenacemente ogni 25 di Aprile. Anche questo anno, nonostante il lockdown ed annessi “obbligo del distanziamento sociale” e “divieto di assembramento”, l’Antifascismo si è preso le strade, vuoi per portare un fiore alla tomba dei partigiani, vuoi per rivendicarne l’attualità e l’urgenza di una sua pratica quotidiana in questa società autoritaria che ci viviamo.
Ma lo Stato non è rimasto a guardare, e forte della sua legalità e principalmente del suo apparato repressivo, ha “mostrato i muscoli” contro chiunque osasse violare la Legge soprattutto se in nome dell’Antifascismo. Degli esempi di casi diversi tra loro, forse, valgono a rendere l’idea:
- a Milano, un gruppo di giovani e meno giovani, in una parola antifascisti, ha osato scendere in strada invece che restare a guardare in TV le celebrazioni ufficiali con le frecce tricolori e il Capo di Stato che deponeva la corona d’alloro all’Altare della Patria (mausoleo alla grandezza regia dell’Italia coloniale mussoliniana, poi monumento al Milite Ignoto nel post-fascismo). Risultato? Un ragazzo buttato a terra per essere bloccato. Una ragazza colpita con una gomitata al volto nella concitazione. Un anziano fermato da due agenti sull’asfalto e un’altra ragazza spinta via con forza. Tutti multati e denunciati per inosservanza della legge. Qui il racconto, una corrispondenza radiofonica e i video di giornata; a seguire invece un estratto di una testimonianza:
«Mentre alcun* di noi portavano dei fiori alle lapidi dei partigiani del quartiere, rispettando le norme sanitarie (mascherine e distanza), in via Dogali, siamo stati accerchiati e caricati senza alcun motivo.
Tra di noi c’erano un padre con una bambina piccola e una persona anziana. Dopo che la Polizia ha detto che ci si poteva allontanare, siamo andati verso la lapide di Via Celentano per concludere il giro. Una volta deposti i fiori, stavamo andando via. A quel punto, siamo stati nuovamente aggrediti, ancora senza motivo, da parte delle forze dell’ordine che hanno preso uno dei nostri compagni, di cui non abbiamo ancora notizie. Altri compagni e persone del quartiere sono accorsi a portare solidarietà. In risposta, è stata chiamata la celere. Dopo un’ora di accerchiamento e tensione, siamo riusciti ad andarcene. Situazioni simili sono accadute anche in altre zone della città. […]»
- a Salerno, un gruppo di TRE persone, attivisti del CSA Jan Assen (ex Asilo Politico), distanziati, con uso di mascherine e disinfettante per le mani, hanno voluto ricordare l’anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo affiggendo uno striscione davanti al centro sociale, accompagnando il gesto simbolico con canzoni partigiane. Risultato? Non lo stesso di Milano, ma comunque sanzioni e divieti per “Bella Ciao”.
- A Napoli, fin dalla mattina in numerosi quartieri della città sono stati affissi striscioni che legavano la Resistenza al nazifascismo con la lotta di questi giorni per il reddito, i servizi e i diritti sociali. Poi, in due occasioni, alla testimonianza si è aggiunta l’azione dimostrativa, sempre nel rispetto della legge e delle misure sanitarie e di distanza:
- a Bagnoli, un gruppetto di manifestanti è stato fermato dopo aver distribuito mascherine ed aver esposto uno striscione;
- a Piazza Municipio, altre tre persone sono state invece fermate, identificate e portate in Questura dopo aver esposto uno striscione che rivendicava Reddito, Salario e Tamponi per Tutte e Tutti.
In entrambi i casi, la polizia ha usato la forza, circondando i compagni, identificando le persone e portando in Questura alcuni attivisti ai quali è stata elevata non solo la sanzione economica prevista dal DPCM ma anche la denuncia per manifestazione non autorizzata.
Dal 25 Aprile al 1° maggio, Giorno Internazionale dei Lavoratori e delle Lavoratrici, la storia non cambia, anzi tutt’altro. L’esempio più lampante, alquanto esplicativo dell’aria che tira, è il caso di Trieste, dove un ingente dispiegamento di forze armate è intervenuto, militarmente, per riportare ordine e disciplina e liberare la piazza da una settantina di manifestanti. La giustificazione ufficiale? Manifestazione non autorizzata e violazione dell’obbligo del distanziamento sociale e del divieto di assembramento, con aggiunta di resistenza a pubblico ufficiale. La motivazione, viceversa, ufficiosa? La rimozione di questo striscione.
Eppure… tali divieti non valgono per tutti e tutte. Soprattutto se a praticarli sono italianissimi cittadini esasperati, con tricolore al seguito, vuoi in formato bandiera, vuoi in formato mascherina. Succede, infatti, che ai fascisti (pardon, italiani esasperati) non solo è permesso esternare il loro essere in pubblica piazza, ma che le Forze dell’Ordine si schierino a loro protezione per permetterne la circolazione e l’esposizione mediatica.
Due sono i casi che potrebbero essere citati, a titolo di esempio, per il trattamento da due pesi e due misure ricevuto:
- il 28 aprile, davanti a Palazzo Chigi, sede del Governo italiano, il partito post-fascista di Fratelli d’Italia “manifesta” contro il Governo per la scarsa (?) copertura finanziaria e le mancate (?) agevolazioni fiscali agli italici imprenditori. Il contingente di Forze Armate, posto a tutela del Palazzo del Potere, resta a guardare, e garantire il “regolare godimento e svolgimento del diritto a manifestare”.
- Il 2 maggio, invece, a “scendere in piazza” è il fantomatico movimento (?) delle #MascherineTricolori, mai esistito fino a quel momento e dietro cui si è nascosto, per l’occasione, il partito dichiaratamente fascista di Casapound, per “far sentire alta la voce degli italiani abbandonati dal Governo”. Con una copertura mediatica spropositata, e un ingente dispiegamento di Forze Armate a far loro da scorta per le strade della Capitale, gli italianissimi si sono presi la ribalta mediatica. Ovviamente, anche in questo caso il trattamento repressivo riservato agli antifascisti, non si è visto; dopotutto, bisognava garantire il “regolare godimento e svolgimento del diritto a manifestare” agli italiani.
Diritto di sciopero
È probabilmente il tema più complesso da affrontare, considerando le varie implicazioni che la sua trattazione coinvolge. Dunque, provando a delineare tale questione nei suoi profili fondamentali e pertinenti ai fini del presente report, potremmo dire che, se in apertura di esposizione ci siamo riferiti al godimento del diritto di assemblea e di quello di manifestare come di una barzelletta, il diritto di sciopero è invece da annoverare come l’ultimo dei problemi per il Governo in questa fase di emergenza epidemiologica.
O meglio, a fronte del legittimo esercizio del diritto di sciopero da parte dei lavoratori e delle lavoratrici, l’Esecutivo ha schierato l’esercito nei luoghi di lavoro di grandi dimensioni a scopo deterrente. E quando non è giunto a tanto, ha comunque autorizzato l’intervento repressivo in forma numerica esagerata e muscolare, sia se lo sciopero si materializzava nel blocco della produzione all’interno dei locali aziendali, sia se assumeva la forma del corteo per le vie della città, come a Napoli ad esempio.
Il perché è facile da intuire, ma non semplice da spiegare. Perché il diritto di sciopero in Italia rappresenta un problema che viene da lontano, ben prima del Covid – 19, del lockdown ed annessi “obbligo del distanziamento sociale” e “divieto di assembramento”. Un problema che l’emergenza Coronavirus ha solo riportato alla ribalta, posto l’attuale scenario di sospensione dei diritti/libertà collettive e il contesto politico in cui è immersa l’Italia da un decennio a questa parte. Perché il diritto di sciopero ha subito, nell’ordine, una lunga serie di pesanti limitazioni al suo esercizio e, al contempo, una pesantissima campagna politico-mediatica di stampo denigratoria, di pari passo con la laboriosa ristrutturazione del mercato del lavoro e delle garanzie contrattuali annesse che hanno contraddistinto l’ultimo decennio di politiche liberiste in materia.
Pertanto, a fronte dell’emergere del lockdown, all’iniziale blocco della produzione delle attività non essenziali quale misura propedeutica al contenimento del contagio, ha fatto seguito:
- una graduale, ma incessante, deregolazione alla misura di contenimento, posta l’interconnessione delle produzioni nei mercati globalizzati: da una parte, il blocco della produzione non era più soltanto escluso per la produzione di attività e servizi essenziali, ma anche per tutto l’indotto contiguo; dall’altra, il Governo nella trafila di DPCM promulgati uno dietro l’altro, ha man mano concesso la deroga al blocco per settori specifici di attività, permettendo la riapertura degli impianti attraverso una semplice autocertificazione che attestasse l’essenzialità della produzione e il rispetto della normativa sanitaria, da inviare alla Prefettura;
- una costante colata di finanziamenti, agevolazioni fiscali, blocco delle tasse e dei mutui, aiuti di Stato e dell’Unione Europea, per “aiutare le aziende in difficoltà”: di fatto, un incessante supporto economico-finanziario a favore del sistema produttivo e bancario, a fondo perduto tra l’altro;
- una pantomima indicibile con le confederazioni imprenditoriali di settore: quando queste piangevano miseria, si interveniva a supporto, “per il bene del Paese”, perché «la classe imprenditoriale è la vera forza e ricchezza» della Repubblica fondata sul Lavoro; quando queste alzavano la voce, chiedendo ulteriori deroghe a livello contrattuale, o a livello di responsabilità penale, civile, contabile e amministrativa, si aprivano tavoli di negoziazioni a ribasso per “le altre parti sociali” chiamate esclusivamente a presenziare alle pretese di parte datoriale;
- una costante privatizzazione del pubblico, invocata nel nome del contenimento del contagio e come miglior soluzione di gestione delle proprietà demaniali di Stato: non è un caso, ma ad esempio la direttiva comunitaria cd. Bolkestein in materia di gestione degli arenili, stabilimenti balneari e vendita ambulante su licenza è stata di fatto affossata col garantire ai privati anche la gestione delle ultime spiagge libere della penisola;
- in materia sanitaria e di salubrità degli spazi della produzione: ad un’iniziale tira e molla sulla tempistica per garantire la sanificazione dei locali e la messa a disposizione di dispositivi di prevenzione individuale, con la minaccia di controlli e sanzioni per le imprese inadempienti, s’è finiti invece a discutere della concessione di uno “scudo penale” che esimesse dalla responsabilità giudiziale in materia sanitaria e di prevenzione sui posti di lavoro, ovviamente a diretto vantaggio delle imprese e delle confederazioni settoriali di rappresentanza.
A fronte di tale scenario, dunque, non c’è da stupirsi che il Governo adoperi l’Esercito contro i lavoratori in sciopero, perché lo sciopero “non s’ha da fare”, soprattutto in tempi di emergenza epidemiologica come questi!
Per concludere, vale la pena accennare all’ulteriore passo in avanti contro il diritto di sciopero, organizzazione e rivendicazione dei propri diritti sindacali che lo Stato italiano ha messo a segno negli ultimi tempi nella città di Bologna. Ci riferiamo alla campagna “Il padrone di merda”, un vero e proprio esperimento di sindacato autorganizzato da lavoratrici e lavoratori accomunati dalla condizione di precarietà in ambito lavorativo e abitativo che, insieme, si sono organizzati per rivendicare i loro diritti e “farla pagare” ai responsabili della loro condizione esistenziale, che siano imprenditori disonesti che sfruttano e non pagano o proprietari di alloggi che fanno il bello e cattivo tempo con gli affitti. Il 18 maggio 6 attivisti bolognesi hanno ricevuto altrettante misure cautelari: per 5 è stato disposto il divieto di dimora nel comune di Bologna, mentre l’ultimo ha ricevuto un divieto di avvicinamento alle parti offese, che secondo la Procura sarebbero commercianti e imprenditori di società o cooperative che non pagavano o facevano lavorare a nero i propri addetti. Altri 13, tra lavoratori e lavoratrici, sono stati denunciati a vario titolo, risultando accusati di fantasiosi reati quali tentata estorsione, lesioni personali, violenza privata, diffamazione, imbrattamento, disturbo delle occupazioni e utilizzo di mezzi per rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico. Pretendevano di essere pagati in base alle prestazioni lavorative offerte, rivendicando i propri diritti e affrontando i “responsabili della loro condizione” in prima persona, facendo sindacato insomma. Accompagnata e sostenuta da una sprezzante campagna mediatica volta a condannarli ancor prima del processo, l’operazione repressiva ha disvelato il classismo insito nel sistema politico-giudiziario italiano e, al contempo, l’estrema paura che si cela nell’Autorità quando i subordinati si organizzano e alzano la testa per rivendicare i propri diritti.
Note:
[1] Per una rassegna cronologica ufficiale della prassi legislativa relativa ai vari DPCM e DM, si rinvia al sito del Governo Italiano – Presidenza del Consiglio dei Ministri, documento: “#IoRestoaCasa, misure per il contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica”, link: http://www.governo.it/it/iorestoacasa-misure-governo
[2] Fino al Decreto Legge n. 19 del 25 marzo, le sanzioni erano disposte a titolo di Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità ex art. 650 c.p., con pena dell’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a euro 206, salvo che non costituissero forma di reato più grave; pertanto irrogabili a livello penale.
Il Decreto Legge del 25 marzo, in combinato disposto con le disposizioni attuative contenute nel successivo DPCM del 1° aprile, ne ha depenalizzato le violazioni commesse fino a tale data e convertito le rispettive pene in multe da 200 euro; mentre, per quelle commesse dal 26 marzo, la sanzione amministrativa oscilla da 400 a 3mila euro, con sconto del 30% se il pagamento avviene entro 30 giorni.
[3] Per un riepilogo delle rivolte carcerarie scoppiate tra marzo e aprile 2020 in Italia, ci permettiamo di rimandare all’archivio digitale dell’Osservatorio sulla Repressione: link: http://www.osservatoriorepressione.info/tag/carcere/
Al contempo, il 22 Maggio 2020, si è tenuta la diretta online del XVI Rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione dal titolo “Il carcere al tempo del Coronavirus”. Per maggiori informazioni,
- circa il XVI Rapporto, link http://www.antigone.it/upload/ANTIGONE_2020_XVIRAPPORTO%202.pdf;
- pagina dell’Associazione Antigone https://www.antigone.it/news/antigone-news/3301-il-carcere-al-tempo-del-coronavirus-xvi-rapporto-di-antigone-sulle-condizioni-di-detenzione
[4] Non per intestazione ufficiale, ma in forza della XII Disposizione transitoria e finale della sua Costituzione, che statuisce che «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista.»
La versione originale in inglese: http://civicspacewatch.eu/italy-the-right-to-assembly-and-protest-during-the-lockdown/?fbclid=IwAR2GX6nEBB8idQvLJodavSwP2ugz64R5xzM1SrcmOvjAyZw379S_Y5Gu4YA
***