Intervista a M. ‒ Non Una di Meno Transterritoriale Marche.
Da http://www.connessioniprecarie.org
Abbiamo intervistato M., attivista femminista e operaia, che racconta come sta cambiando il lavoro operaio nel terzo settore in tempi di Covid19. Svolgere lavori essenziali durante il picco pandemico ha voluto dire prima di tutto mettere a rischio la propria salute, specialmente se le aziende lucrano sui fondi pubblici che dovrebbero usare per applicare norme di sicurezza che alla catena di montaggio sono virtualmente impossibili da seguire senza ridurre i ritmi della produzione. Lavoro essenziale vuol dire anche l’estensione dell’orario e la moltiplicazione dei turni senza che vi sia un aumento dei salari. Nel neonato settore della sanificazione salari bassissimi vengono corrisposti a una forza lavoro fatta prevalentemente di donne e migranti, che anche durante la crisi sanitaria sono sottoposte al ricatto del permesso di soggiorno. Questo tuttavia non ha impedito loro di prendere parola. In fabbriche, magazzini, ospedali, scioperi e proteste hanno mostrato l’attualità dello slogan dello sciopero femminista: se le nostre vite non valgono, ci fermiamo! La divisione sessuale del lavoro non si limita ai luoghi della produzione ma continua all’interno mura di casa, dove sono ancora una volta le donne a prendersi cura di figli, anziani e malati, come dimostra il fatto che siano soprattutto loro a fare richiesta dei congedi parentali. Proprio la divisione sessuale del lavoro e la connessione tra lavoro produttivo e riproduttivo è stata al centro delle mobilitazioni di Non Una di Meno, che ha anticipato con lo sciopero femminista dell’8 marzo quella possibilità di interrompere la produzione e riproduzione sociale, una possibilità che gli scioperi pandemici hanno rivendicato con forza. Come emerge chiaramente da questa intervista, partire dalle condizioni materiali e di vita è stata la prima spinta per la presa di parola e la costruzione di una lotta in questi mesi. Riconoscere la portata e l’attualità dello sciopero femminista è la chiave anche durante la ricostruzione, anticipare e continuare a sottolineare le connessioni fra razzismo, sessismo e sfruttamento è quanto mai necessario.
Maddy, per prima cosa: che lavoro fai?
Io lavoro per una multiservizi delle Marche che fa 1800 dipendenti. È una grossa azienda. È totalmente privata, ma fruisce di una commissione negli appalti e questo è stato un primo punto problematico riscontrato durante la pandemia: nella gestione pubblico-privata ci sono stati tantissimi problemi, con una gestione decisamente poco attenta anche quando si ricevevano commissioni dal pubblico. Le aziende hanno naturalmente preso i soldi, ma gli operai lavoravano senza alcun dispositivo di sicurezza. E questo era chiaro anche guardando le statistiche e i numeri di mortalità e dei malati: in molte zone, come Pesaro o anche la stessa Macerata, si riscontravano molti contagi da Covid-19, ma con un abbassamento di età, perché quelli che si ammalavano erano quelli che lavoravano. Chi ha contratto il coronavirus era sui posti di lavoro, non certo i corridori, anche perché i corridori correvano in sicurezza. Sui posti di lavoro, invece, era proprio la sicurezza che mancava. Si sono dunque incassati i soldi, ma non sono stati utilizzati per la sicurezza dei lavoratori, nemmeno per quella prevista per i lavori di sanificazione.
Quindi tu lavori nel settore della sanificazione?
No. Il settore della sanificazione è nato adesso, con il Coronavirus: questa è l’arte di riarrangiarsi, perché ora conviene ampiamente. Il dpcm del 26 aprile prevede infatti integrazioni per le sanificazioni e sgravi fiscali. Da due mesi si stanno sanificando a rotta di collo ospedali, uffici, aziende e altro: immaginate quanti soldi stanno guadagnando le aziende “di sanificazione” pagando lavoratrici e lavoratori sui 5 euro l’ora. La produzione è innestata in un ciclo di sfruttamento bestiale. Alla fine della fiera chi sta facendo davvero la sanificazione, materialmente, prende 5 euro l’ora in tutto ed in alcune regioni, tipo il Piemonte, anche molto meno, circa 3 euro l’ora. Le nostre colleghe che lavoravano in ospedale facevano anche due o tre turni, dalla mattina presto fino a sera, con un’ulteriore compressione salariale perché non si riconosceva il lavoro extra svolto per la sanificazione. La sanificazione è un lavoro extra molto pesante e non puoi farlo di certo con la magliettina a maniche corte e dei guanti monouso e respirando per sei ore ipoclorito di sodio.
L’azienda in cui lavori tu, invece, cosa produce?
L’azienda dove lavoro io, invece, è terzista e fa parte del made in Italy. Durante la pandemia ci sono stati dei picchi nell’acquisto dei brand di lusso. Il che è pure assurdo perché la pandemia è nata da un problema ambientale e quindi non solo si è favorito lo sfruttamento del lavoro (femminile, fra l’altro, perché il tessile è un settore totalmente femminile), ma anche dell’ambiente. Sappiamo benissimo che il made in Italy non è made Italy: si tratta di filiere della moda che partono dall’Asia per i tessuti, poi arrivano in Romania e Moldavia per passare all’America Latina per le ultime rifiniture e solo alla fine arrivano in Italia, in una vera catena transnazionale, per questo, infatti, sono tanto importanti gli scioperi transnazionali, perché la catena della produzione è globale. Nel corso della pandemia sei intervenuta più volte sui social e attraverso NUDM per denunciare il modo in cui sono state riorganizzate le condizioni di lavoro, ma soprattutto per segnalare che si tratta di un lavoro svolto principalmente da donne, in molti casi migranti. In che modo questa specifica posizione, determinata dall’intreccio tra divisione sessuale del lavoro e razzismo istituzionale, incide sulle condizioni di lavoro?
Innanzitutto, stiamo sempre parlando di un mercato globale, come dicevo anche prima. Bisogna pensare che metà del nostro manifatturiero è fatta da donne e soggettività migranti. La classe operaia non è bianca. Io sono in una fabbrica in cui abbiamo rappresentati i quattro continenti. La classe operaia è meticcia e ci sono tutte le condizioni che sfruttare la manodopera, ovviamente ribassando i salari e mettendo le une contro le altre. Questo non è avvenuto durante gli scioperi perché la salute ti riguarda sia che tu venga dall’Asia che dall’America Latina che dall’Africa. E questo è stato il punto focale su cui le donne si sono mobilitate tutte quante insieme. Molte delle lavoratrici, poi, hanno un contratto che è legato al permesso di soggiorno. Quindi, se io ho lavoro posso rimanere in Italia, altrimenti divento clandestina: abbiamo ancora una legge di merda. Di conseguenza quando vieni dall’Africa, dall’Asia o da altri posti sei costretta a scendere a compromessi, non puoi fare la stessa lotta: non abbiamo tutte lo stesso potere, non abbiamo tutte la stessa possibilità di contrattazione. Ma sulla salute non si è scese a compromessi, perché sul sacrificio della nostra salute i padroni fanno profitti, perché la produzione altro non è che il profitto, non sono due cose diverse. Me lo devono ancora presentare un padrone buono, nonostante tutti i bei termini che inventano.
Parlavi delle migranti, delle donne. Come si struttura la lotta quando sono presenti tanti piani, con anche esigenze e problemi molto diversi?
Qui abbiamo una rete di migranti che abbiamo costruito in un anno e mezzo con delle inchieste e lì si vede bene come il potere è sempre nelle mani di uno. Da una parte abbiamo delle donne segregate in casa, dall’altra donne che sono costrette a lavorare. Fra l’altro, in una fabbrica in cui ci sono quasi tutte donne, a chi lasci i figli e gli anziani da curare? E questo collegamento è stato evidenziato anche grazie al movimento femminista. Infatti, quando scioperiamo diciamo: “se le nostre vite non valgono assolutamente niente, assolutamente zero, noi scioperiamo: fatevela voi la produzione”. È stato così, ma è ancora così: quando noi diciamo che non respiriamo e quindi lasciamo perdere tutto non è soltanto una necessità. Ovviamente si parte da un’esigenza concreta e fisica, ma lì si esercita la sottrazione che abbiamo come forza lavoro contro il capitale. In una pratica “piccola” che metti in atto c’è tutta la sottrazione del corpo, della testa, della donna. Possiamo fare tutte le analisi che vogliamo, ma il punto focale è proprio quell’atto di sottrazione dal lavoro a cui sei chiamata. Quindi, cosa succederà? Noi abbiamo una narrazione che ancora non ha messo in rilievo sufficiente il ruolo centrale delle donne. Si continua a descrivere una classe operaia totalmente maschile: non è così, l’altra metà siamo noi. Siamo noi, con la nostra rabbia, quelle che non fanno le carezze al padrone.
Lo sciopero femminista ha avuto come momento centrale la riflessione sulla connessione strettissima che si innesca fra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. In che modo questa connessione si rende visibile all’interno e fuori dalla fabbrica?
Dobbiamo sapere che esistono delle differenze fra di noi. Non possiamo pensare che donne e uomini siano uguali, perché non è vero, dato che le donne, quando tornano a casa, hanno ancora tutto il lavoro domestico da fare. E questa è la lettura femminista, ed è necessaria, perché queste sono le condizioni in cui ci troviamo. A Bergamo è morta una compagna, ha preso il Covid in una fabbrica, alla Brembo. Lei ha continuato a lavorare nonostante le migliaia di morti. Ha continuare a lavorare perché aveva sulle spalle una bambina, era incinta di una seconda e non poteva permettersi una babysitter, non poteva stare a casa. Quindi la lotta è diversa, non è uguale per tutti ed è diversa anche fra una operaia migrante e una bianca. Non abbiamo tutte con lo stesso privilegio. Perché la donna tarda a fare gli scioperi e li fa solo quando arriva culmine? Perché è quella che sa che deve sobbarcarsi un sacco di cose, ancora più ora che c’è la ripartenza. Quando si parla di riproduzione non si prende in considerazione che sono soltanto le donne a chiedere congedi parentali e che chi viene da altri paesi non potrà accedere ai congedi e ad altre sovvenzioni. Solo un uomo su dieci richiede il congedo parentale e spessissimo questo non solleva la donna dal dover fare comunque il lavoro a casa. Il congedo parentale da questo punto di vista, quindi, è un po’ una presa per i fondelli, perché è comunque la donna che ci deve mettere le mani. Ma chi viene assunto full time? Gli uomini. Noi abbiamo moltissime aziende che hanno una composizione mista e sono gli uomini quelli con il full time.
Probabilmente è proprio da questo nodo che rileva la prospettiva femminista all’interno di una lotta: quella capacità di mostrare le differenze e porre quelle differenze come momento centrale per radicalizzare la lotta stessa. Però, questa è anche la difficoltà maggiore.
Parlare dell’assunzione del privilegio dell’uomo, anche da lavoratore, è necessario, anche perché in fabbrica puoi fare la lotta che vuoi, ma se poi quando torni a casa è solo la donna che deve sobbarcarsela allora è una lotta un po’ monca. E, infatti, questa considerazione è uscita anche dalle riflessioni che sono state fatte tra di noi. Quando dal 10 marzo in poi abbiamo iniziato a fare le proteste. Le proteste sono nate dalle donne che dicevano «io ho i bambini a casa con la didattica on line e non so come fare: mi devo alzare alle 5 del mattino, provare a scaricare il programma vedere se la connessione c’è, vedere che la lezione on line vada, mettermi d’accordo con un’amica…». Parliamo di donne che escono dalla fabbrica alle 5 del pomeriggio e poi hanno ancora almeno tre/quattro ore di fatica a casa. Per questo è importante partire dal discorso femminista e lo vedi anche quando scioperiamo: il femminismo è andato a colpire esattamente queste connessioni, negli ultimi quattro anni di scioperi. Le donne hanno deciso di scioperare l’8 marzo perché era la data in cui si riconoscevano: non solo come donne e come soggettività, ma anche perché tutte queste lotte si intrecciavano alla sottrazione dai soprusi e allo sfruttamento che ben conoscono.
La Fase 2 ha determinato la riapertura delle fabbriche e la ripresa di tutto il lavoro produttivo. Come è vissuto questo rientro in fabbrica da parte delle lavoratrici? Quali sono le condizioni di sicurezza e cosa comporta questa riorganizzazione del lavoro per le donne operaie?
Noi abbiamo continuato a lavorare durante tutta la quarantena, naturalmente scaglionate. Dal 4 maggio siamo tornate tutte a lavoro. Gli scaglionamenti sono un escamotage perché in realtà il lavoratore non è mai fermo, entra scaglionato, ma poi non è fisso. Quindi il metro di distanza si annulla. Stiamo parlando di stabilimenti che hanno una media di 350, 500 lavoratori, alcuni anche 1000 e sono costruiti con il massimo risparmio dello spazio, quindi immaginati quanto è possibile mantenere un metro di distanza all’interno. Nelle catene di montaggio, invece, la distanza da 15 cm è passata ad 1 metro. Ogni movimento produce un annullamento del distanziamento, ma puoi produrre perché segui il protocollo. Le pause continuano a essere di sette minuti ogni tre ore, che una non riesce nemmeno ad andare in bagno, non ti parlo di quando si ha il ciclo. Inoltre, in questo modo sei costretto a fare due fasi di produzione ma raddoppiando le operazioni: la stanchezza fisica e mentale è inimmaginabile. Tutto questo con le mascherine. Io venerdì ho lavorato con 32°, in uno stabilimento con le porte antipanico, quindi chiuse, con aspiratori per l’aria, certo, ma che ributtano dentro la stessa aria che hai respirato prima, non molto salubre.
Per questo chiedevamo una riduzione di orario e di cicli produttivi. Contate che noi lavoriamo tutte fino al 14 agosto. Mi hanno detto: «lo fanno anche in Finlandia». Ma lì fanno 17°. Fra l’altro nel Nord Europa in alcuni luoghi c’è la possibilità di scegliere un piano lavorativo da parte degli operai. Qui no: il tuo piano è deciso dall’azienda. Puoi abbassare i volumi della produzione, ma poi te li fanno recuperare: noi abbiamo tre sabati lavorativi di fila ogni mese. Alla faccia dell’abbassamento della produttività! E poi mi parlano dei 400 euro del reddito di emergenza! Credo che dovremmo aver chiaro che l’emergenza non è ora, l’emergenza la sentiremo tutta in autunno. Per questo ora è importante chiedere di più! Alziamo gli stipendi, perché io prendo 5 euro netti l’ora, in appalto, ma i miei colleghi che sono assunti direttamente ne prendono 8€, quindi non molto di più! Dobbiamo chiederlo ora! Non capisco perché si tentenni anche all’interno delle piattaforme sindacali per mantenere il lavoro a questi livelli… il lavoro così com’è si sorregge su di un sistema di sfruttamento! Non si possono fare le virgole sui metri di distanza mentre io prendo 5 euro l’ora: io adesso voglio i soldi, non domani, ora! Altrimenti continua lo stesso sistema e non cambia niente! Fra l’altro all’interno del mio ambito di lavoro abbiamo un’enorme precarietà di diritti e se io mi rifiuto di lavorare poi prendono qualcun altro, che magari è più sfruttabile di me, perché migrante con permesso di soggiorno e non si può rifiutare. Ed è anche assurdo stupirsi e chiedersi perché non fanno una lotta con noi. Non si possono rifiutare perché hanno delle condizioni che glielo impongono: mentre noi siamo stati a casa durante la pandemia, hanno messo a lavoro gli interinali.
In questi due mesi di lockdown come operaie e operai avete anche lottato, organizzato pratiche di sabotaggio, scioperato. Puoi dirci qualcosa di più a riguardo e come la composizione specifica del lavoro e il fatto di essere donne e migranti è diventata una risorsa per l’organizzazione?
Le lotte che abbiamo organizzato sono state soprattutto lotte scaglionate e ci siamo coordinate su WhatsApp e Telegram per fare scioperi a sorpresa. Queste lotte sono nate sul momento, quando non arrivavano i dispositivi di sicurezza, quando salivano i morti. A un certo punto, prese da quello che succedeva ci siamo organizzate. Dentro la fabbrica si teneva un basso profilo: «non sta succedendo niente, la mascherina è un optional, lavatevi le mani», come se poi lavandosi le mani ogni tre per due si risolvesse qualcosa! Allora abbiamo detto basta e abbiamo iniziato ad organizzarci. Abbiamo pensato a forme di protesta che facessero vedere che per noi il tema della salute era centrale, scioperavamo a partire da quello. Quindi si entrava a scaglioni, distanziate, per dimostrare che la sicurezza per noi era il punto, ma che alle loro condizioni non ci stavamo. La gestione delle lotte è stata completamente autonoma. In questo momento c’è evidentemente uno stallo fra Confindustria e i sindacati, che hanno accettato una gestione assurda, andando avanti a contrattare dal 10 fino al 24 marzo, solo per potersi sedere al tavolo della contrattazione, quando i sindacati non dovrebbero sedersi a quel tavolo, perché altrimenti ti spartisci le molliche con il padrone. Noi non eravamo d’accordo quindi uscivamo scaglionate, facevamo interruzioni, e c’è stata una grandissima collaborazione e coordinazione fra i lavoratori e anche fra le varie fabbriche. Poi ci sono state tantissime modalità per lottare, con grande creatività, ognuno con modi diversi, ma abbiamo dato una bella capocciata ai padroni. Anche perché lì sei ad un testa a testa. Oggi stiamo mettendo in campo tantissime forme di lotta diverse, e abbiamo partecipato tutte, chi più attivamente, chi, invece, con una partecipazione più simbolica. Sappiamo che non tutte possono fare delle azioni, ma ci sono delle modalità alternative, non volevamo mettere a rischio delle persone e non tutte abbiamo la stessa possibilità di lotta. Questo è un ragionamento che è stato possibile anche grazie a Non Una di Meno, che, in questi anni, è stata un movimento anticipatore. Ad esempio, chi voleva si metteva un braccialetto, quindi sapevi che quella persona era con te, anche se magari non poteva scioperare. Fra l’altro la mia azienda lavora praticamente a cottimo: più pezzi fai più ti danno premi di produttività. In questo modo si vorrebbe aumentare la competitività fra le operaie, ma in questa fase ci siamo trovate tutte dalla stessa parte, c’era la salute e delle esigenze primarie e questo ci ha unite.
Quali sono le indicazioni che possono essere tratte dalla tua esperienza rispetto all’iniziativa femminista?
Il movimento femminista ha sicuramente anticipato la rilevanza dello sciopero. Io credo che il movimento femminista debba continuare ad essere il megafono delle lotte dentro le fabbriche e di tutte noi che stiamo a lavoro. Questo significa dare la voce alle condizioni di lavoro: noi lavoriamo almeno 8 ore al giorno, quindi, il lavoro deve essere centrale nella lotta femminista. Io credo che la partita non sia ancora chiusa, è tutta aperta: l’8 marzo è passato, ma adesso, ad agosto e poi a ottobre, ci saranno tantissime lavoratrici che faticheranno e saranno in condizioni sempre peggiori… pensiamo anche solo al caldo dell’estate e a cosa comporta in questa situazione. Dobbiamo pensare a proiettarci nel futuro, ma partendo dall’oggi, da quello che sta succedendo ora. Questo significa pensare a questi temi come centrali e non lasciarli in mano ad altri, che già se li stanno prendendo, perché su questo ci siamo sempre state e il nostro sguardo è sempre stato anticipatore.