La situazione in Slovacchia dopo la diffusione del contagio sta rinsaldando i sentimenti etno-nazionalistici radicalizzando le forme di esclusione nei confronti dei gruppi che vivono già nella marginalità.
In momenti di crisi acuta, come quella di oggi, una tra le prime strategie di un paese è differire della sua pretesa di solidarietà sociale universale, dirigendo le sue energie verso i gruppi sociali a cui dà la priorità ma che di norma non può differenziare. Questa stessa tendenza spesso porta al rinvio del suo impegno nel trattare difficili relazioni sociali, economiche e razziali. In molti stati la natura diversificata e conflittuale della popolazione lascia rapidamente spazio a consolidati sentimenti di etno-nazionalismo. La situazione in Slovacchia dopo la diffusione del nuovo coronavirus ne è un esempio tristemente appropriato. Il paese è stato tra i primi in Europa a chiudere le frontiere, tutte le istituzioni pubbliche e a ridurre al minimo la sua vita sociale ed economica.
Questo blocco è stato accolto con favore dai cittadini che godono di una posizione di pieni diritti e di una garanzia di tutela da parte dello Stato. Tuttavia, la Slovacchia è patria di una consistente minoranza rom (circa l’8% della popolazione totale) la cui posizione all’interno dello Stato è stata a lungo precaria, per usare un eufemismo. Per questi gruppi il coronavirus e la risposta dello Stato alla sua minaccia comportano un’ulteriore destabilizzazione della loro situazione sociale e la dimostrazione di una continua esclusione dei rom dai benefici della piena cittadinanza. Loro, a differenza degli slovacchi, non godono di fatto dell’inalienabile diritto alla protezione dello Stato in una situazione critica. Anzi, a causa della loro condizione di vita estremamente indigenti e delle diffuse controversie circa gli scarsi livelli di igiene nelle loro comunità, vengono spesso trattati come un gruppo etnico che potenzialmente minaccia la salute pubblica.
In un momento di crisi, i contorni della cittadinanza escludono coloro che, per vari motivi storici e strutturali, vivono già ai margini della società. Uno dei primi passi dello Stato ha visto un maggior impiego delle forze dell’ordine e un eventuale schieramento dell’esercito per supervisionare le operazioni di distribuzione di sussidi nelle aree prevalentemente rom. Al notiziario, l’intera nazione ha visto i beneficiari degli aiuti ricevere ordini da ufficiali di polizia armati e obbligati da gruppi di “bianchi” locali a usare in maniera eccessiva il disinfettante per le mani prima di essere autorizzati a lasciare i loro accampamenti ed entrare negli “spazi civili”. L’intero paese è rimasto a guardare e alla maggioranza della popolazione è parso come un atto ordinario, anzi giustificato e necessario. Il primo ministro ha annunciato questa misura nel seguente modo: «Il processo e la sicurezza saranno supervisionati in primo luogo da agenti di sicurezza privati utilizzati dagli uffici postali, nonché da ufficiali di polizia municipale e statale, mentre nei luoghi più critici subentrerà l’esercito […] Cercheremo di assicurare che ogni assistito venga sottoposto ad una disinfezione delle mani».
In parole povere, l’attitudine rivela che in circostanze normali possiamo impegnarci in esperimenti sociali e politici con l’inclusione dei rom, ma in momenti come questo, tali progetti devono esser messi da parte e dobbiamo ricorrere alla militarizzazione delle loro comunità per proteggere il bene comune della nazione.
Esiste un potenziale parallelo storico da tracciare. Se si dovesse individuare una vicenda storica maggiormente omessa nella storiografia nazionale, sarebbe probabilmente quella dell’olocausto dei rom durante la collaborazione dello stato slovacco con i nazisti. In una delle poche testimonianze complete sul trattamento dei rom in quel periodo, il libro di Karol Janas Persecuzione dei Rom nella repubblica slovacca (1939 – 1945), si trovano una serie di inquietanti analogie con la risposta dello stato al Covid-19. L’autore scrive che la «Slovacchia fu un paese occupato e che ciò cambiò gli atteggiamenti delle organizzazioni statali nei confronti dell’etnia rom”» (Janas, p.55) e continua descrivendo l’istituzione di un campo di detenzione speciale per i rom con misure di sicurezza significativamente più severe dei campi di lavoro dei “bianchi”. Vi sono due possibili approcci che uno Stato può adottare in un momento di profondo sconvolgimento del suo funzionamento: può introdurre e rafforzare le misure che andrebbero a proteggere la sopravvivenza, i diritti umani e la dignità per i suoi cittadini più vulnerabili, o può faro ciò che lo Stato slovacco continua ripetutamente a fare. Ovvero riscrivere la definizione di legittimo cittadino su base etnica e incanalare il potere amministrativo dello stato per mantenere i corpi razzializzati al di fuori della sua rete protettiva.
Portando avanti il parallelismo storico, durante il periodo nazista si verificò un’epidemia di tifo nel paese, soprattutto nelle regioni e fra le comunità più povere e meno sviluppate. In quel momento, la situazione nei campi rom era particolarmente difficile: «A causa della guerra, farmaci e strumenti medici scarseggiavano in tutta la Slovacchia. Nei campi la loro mancanza era critica, impedendo ai medici di trattare anche le malattie più comuni [….] Le maggiori vittime sono state i bambini. È quasi certo che se non fossero stati confinati nel campo, non si sarebbero ammalati e sarebbero sopravvissuti» (Janas, p. 89).
Quando una delle prime misure adottate dal governo per combattere il virus nelle comunità rom è stato lo schieramento delle forze di polizia, che garanzia abbiamo che lo Stato odierno non intraprenderà nuovamente una politica di detenzione radicale? Con la possibilità di un coprifuoco nazionale sul tavolo, gli spazi di vita di molte comunità rom potrebbero diventare interamente governati da una logica militare.
In Slovacchia la spazialità della razza è in fieri da quando l’imperatrice Maria Teresa ha bandito lo stile di vita nomade e migratorio costringendo chi viaggiava a stabilirsi nelle periferie dei centri urbani verso la metà del XVIII secolo. Oltre due secoli dopo, la segregazione territoriale continua a svilupparsi, solidificata dalla politica razziale portata avanti da una serie di regimi politici che il paese ha attraversato. Questo retaggio fa sì che a oggi, in ogni città o paese con una moltitudine rom, la popolazione è concentrata in aree particolari che possono esser facilmente identificate come “aree zingare”. Tale concentrazione indica che la politica urbana può essere strutturata in termini spaziali piuttosto che in termini di razza, dando luogo ad una situazione simile alla discriminazione dei distretti statunitensi (redlining). Sebbene questo sia un regime razziale che permette una grande discriminazione, esclusione e oppressione in periodi di “normalità”, i confini del potere statale vengono estesi e in situazioni di emergenza, come per l’attuale pandemia, controllati sempre meno. Resta da vedere quale ruolo giocherà la segregazione territoriale dei rom quando il coronavirus inizierà a diffondersi in modo esponenziale per tutta la Slovacchia, come prevedono i schemi matematici dell’Istituto di Politiche Sanitarie. Comunque, i precedenti storici insieme ai critici livelli di militarizzazione delle comunità etniche, suggeriscono che lo Stato potrebbe prendere misure che aumenteranno il divario fra i rom e i “bianchi” nel paese.
Secondo la relazione interministeriale pubblicata nel marzo 2020, le comunità rom registrano il livello più basso di accesso a un’adeguata assistenza sanitaria. Se lo si unisce alle condizioni di indigenza negli accampamenti rom, come la mancanza di accesso ad acqua potabile, servizi igienico-sanitari insoddisfacenti e un diffuso rischio di instabilità alimentare, è ragionevole il timore per cui anche solo pochi casi porterebbero rapidamente a un’epidemia fatale, di impatto sproporzionato. Il premier ha espresso simili sentimenti con parole meno drastiche «Un piano dettagliano per gli accampamenti rom in merito al Covid-19 non è ancora disponibile. La situazione nei campi potrebbe peggiorare drasticamente e in modo molto rapido». Commenti come questo evidenziano la componente razziale della risposta statuale alla pandemia. Inoltre, dimostrano che lo Stato potrebbe non agire con l’opportuna determinazione nel combattere il virus e nel prevenire la sofferenza umana nelle comunità rom emarginate.
L’uso della retorica che identifica la piena cittadinanza slovacca con l’etnia slovacca rende facile dimenticare che le minoranze etniche nel paese sono legittimate con stessi diritti e libertà della maggioranza. Perciò i rom dovrebbero essere riconosciuti di fronte alle autorità dello stato e della legge per ciò che sono: cittadini con pieni diritti. La politica dei diritti umani si potrebbe giustamente criticare per la sua accondiscendenza nei confronti delle esistenti strutture di oppressione e dell’universalizzazione della vicenda.
Ciononostante, credo che in casi come questo, il ricorso critico alle rivendicazioni dei diritti umani abbia un potenziale enorme. Nei periodi in cui lo stato opera in condizioni di emergenza senza precedenti, le questioni relative ai diritti dei rom non possono essere limitate ai termini di riconoscimento e rappresentanza. Nei periodi di “normalità”, la marginalizzazione strutturale in atto nelle comunità rom ha già contribuito a un’aspettativa di vita di 6-7 anni inferiore alla media nazionale. Durante la pandemia, queste discrepanze sono propense ad aumentare mentre il regime di segregazione razziale si solidifica ulteriormente. Pertanto, le richieste di sostituzione del regime di segregazione razziale con la fornitura universale di servizi sociali e sanitari necessari per combattere la pandemia dovrebbero essere parte centrale della strategia di sinistra per la crisi.
Nelle scorse settimane, abbiamo ascoltato appelli all’unità e alla solidarietà dalle più alte cariche di tutto il mondo, Slovacchia inclusa, di fronte a una pandemia che sfida le discriminazioni socialmente costruite. Il primo passo che dobbiamo compiere affinché questi appelli siano più di semplici vuote frasi buoniste, è pensare alle comunità rom non come un pericolo razziale alla salute pubblica, ma come gruppi di concittadini che hanno ugualmente bisogno di protezione statale derazzializzata.