La produzione della dipendenza

Nei primi giorni della crisi sanitaria qualcuno ha ironizzato sull’eredità intellettuale di autori come Michel Foucault e Ivan Illich, colpevoli di aver criticato in vario modo l’approccio moderno alla malattia; avrebbe fatto meglio a rileggerli. In particolare quel Nemesi medica che nel 1974 denunciava i rischi iatrogeni della medicina, ovvero la produzione su scala industriale di effetti collaterali. Oggi sembra fargli eco questa amara constatazione dei medici di Bergamo, dai toni sorprendentemente illichiani: «Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus». È con questo paradosso che dobbiamo fare i conti per capire la scelta tragica che ci viene imposta.

Naturalmente non ha senso buttar via il bambino con l’acqua contaminata. Se calcolato in termini di «nuda vita», per citare Agamben, è indubbio che il sistema salvi molte più persone di quante (molto occasionalmente) ne uccida: le stesse vittime di eventuali contaminazioni nosocomiali da coronavirus sono per gran parte pazienti che erano fino a quel momento tenuti in vita dal sistema sanitario attraverso strumenti chirurgici e farmacologici. La critica di Illich riguarda semmai la qualità della vita garantita in questo modo, perché nella sua incessante medicalizzazione di ogni aspetto dell’esistenza il sistema tende all’overdiagnosis e all’overtreatment. In questo modo milioni di persone sane vengono arruolate tra le file dei malati, il che talvolta finisce per farle ammalare effettivamente. In ciò tiene la logica perversa di quella che Ulrich Beck ha chiamato da parte sua società del rischio: ovvero nella produzione inesauribile di minacce la cui necessaria prevenzione garantisce sempre nuovi bisogni da soddisfare.

Tuttavia il discorso illichiano sulla qualità della vita rischia di essere piuttosto soggettivo, e a tratti moralistico, soprattutto se contrapposto alla potente oggettività della riduzione dei tassi di mortalità nelle società avanzate, indubbio progresso sul quale il sistema sanitario (e con esso l’intero sistema tecnologico) ha fondato la propria legittimità nel corso dell’ultimo secolo. Il problema è che questa narrazione è vera soltanto per metà. La straordinaria caduta dei tassi di mortalità dell’ultimo secolo si deve in primo luogo all’aumento della qualità della vita, all’acqua potabile e alle reti fognarie, e solo in secondo luogo alla medicina, anzi a uno spettro ristretto di tecnologie mediche — Illich sottolinea, per esempio, l’indubbia efficacia delle politiche vaccinali. Ma fuori da questo spettro i risultati sono assai meno eclatanti. La produzione della salute segue fondamentalmente lo stesso andamento di tutte le curve di produzione e quindi raggiunge inevitabilmente l’altopiano dei rendimenti decrescenti: superata la soglia delle cose che fa «molto bene», la medicina è condannata a fare sforzi sempre più importanti per ottenere risultati sempre meno soddisfacenti e a un certo punto dannosi. Ottiene sempre un po’ di meno per ogni singolo euro che investe e per ogni singolo medico che assume; mentre d’altra parte viene spinta allo stiramento da una crescente domanda di salute ingenerata dal sistema stesso. Questa logica di espansione infinita è evidentemente insostenibile nella sfera sanitaria come lo è in quella economica più ampia.

Se vaccini e antibiotici hanno sospinto la curva di produzione della salute nella sua fase ascendente, le cure psichiatriche caratterizzano l’altopiano in cui si faticano a misurare risultati convincenti. Il caso di iatrogenesi più eclatante degli ultimi anni è sicuramente quello dell’abuso di psicofarmaci e oppiacei, che negli Stati Uniti ha assunto il carattere di una vera e propria epidemia: secondo Allen Frances, già curatore della quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), a provocarla è stata la tendenza crescente in psichiatria a individuare sempre maggiori disturbi e potenziali devianze da medicalizzare. Ricordate la vespa gioiello e il fungo a testa di clava? In questo caso è la mega-macchina sanitaria a condizionare il comportamento di milioni di esseri umani trasfondendo neurotossine nel loro sistema nervoso. Questa relazione simbiotica con la macchina può in certi casi salvare la vita al paziente, mentre in altri casi lo condanna a una maggiore infelicità. Ma cosa succede quando all’individuo ormai assuefatto viene sospeso, per cause di forza maggiore, il trattamento medico? La trama del film Joker di Todd Phillips fornisce qualche spunto.

Il sistema tecnologico produce di fatto degli individui dipendenti dalla tecnologia. Torniamo all’immagine del cyborg, mezzo-uomo e mezzo-macchina — in questo caso tutti quanti cablati alla medesima grande macchina che garantisce l’approvvigionamento in risorse, la sicurezza, in certi casi la sopravvivenza fisica. Questa macchina non può permettersi nessun «calo di tensione» senza mettere in pericolo i milioni di persone che vivono in simbiosi con essa, che siano negli ospedali in senso stretto o nei centri urbani in senso lato. Il che significa inoltre che siamo indirettamente dipendenti dal modo di produzione che genera la ricchezza necessaria per finanziare questa tecnostruttura che ci tiene in vita, dall’acqua potabile ai respiratori. Non esiste dunque nessun trade-off tra le esigenze della sopravvivenza e quelle della produzione, in quanto la sussistenza biologica stessa nelle nostre società è ormai per gran parte mediata dal sistema capitalistico. I danni alla sfera economica stanno già ora producendo un esercito di disoccupati e presto milioni di persone incapacitate a garantire la propria sussistenza e la propria salute.

In che momento la conservazione della nuda vita finirà per condannarci, come civiltà, a un’esistenza non più degna di essere vissuta?

Accelera o muori

Ancora una volta il sistema tecnologico, dopo aver contribuito a produrre il problema, ci propone i suoi rimedi. Ma in questo caso sono molto più drastici del solito: reclusione forzata di una maggioranza della popolazione, presenza massiccia dell’esercito nelle strade e piani per un controllo pervasivo degli spostamenti. Domani, probabilmente, un rigido sistema di workfare per risollevare le forze produttive. A questi rimedi «non c’è alternativa», per citare il premier Conte, perlomeno se vogliamo mettere al riparo le nostre strutture sanitarie. Nulla di nuovo in fondo: l’assenza reale di alternative è precisamente la logica del sistema tecnologico. Dal momento in cui viene storicamente prodotto, esso si presenta come realmente irreversibile. Producendo sempre nuovi rischi, continua a riprodurre la propria necessità. Imponendo il suo monopolio radicale, ha azzerato lo spettro delle possibilità. La natura ha creato il virus ma è il sistema tecnologico che l’ha trasformato in un’epidemia. Così ci pone oggi il suo estremo ricatto: sacrificare la nuda vita oppure accelerare verso la distopia.

Riflettendo nel 1966 sulla Legittimità dell’età moderna, il filosofo Hans Blumenberg aveva osservato che «i mali del mondo dipendono sempre meno dai difetti fisici della natura, e, per via delle amplificazioni tecniche, sempre più chiaramente dagli effetti delle azioni umane». Perciò il principio di legittimazione del sistema tecnologico è ormai quello di una pura corsa in avanti per sperare di risolvere i problemi generati dalla sua stessa esistenza, accelerando. Ma via via che si accumulano i rischi iatrogeni questa corsa è sempre più disperata e presto persino inutile. Per riprendere un cruccio formulato (non del tutto efficacemente) sempre da Giorgio Agamben, dobbiamo chiederci: in che momento la conservazione della nuda vita finirà per condannarci, come civiltà, a un’esistenza non più degna di essere vissuta?

Il capitalismo si era venduto come l’unico sistema ormai in grado di gestire i pasticci da lui combinati, ma non avevamo preso in debita considerazione l’esistenza di ampi margini d’imbarbarimento. Oggi, portando all’estremo la traiettoria della modernizzazione, l’emergenza sanitaria impone all’Occidente di far evolvere il suo sistema politico-economico in qualcosa di più simile al modello cinese: un sistema altamente razionalizzato, centralizzato, gerarchizzato, un salto evolutivo nella specie. L’eclissi dei più elementari diritti civili sembra sollevare solo poche timide obiezioni a fronte della nostra paura animale per la sopravvivenza. «Non c’è alternativa»: dobbiamo accelerare o morire.

Il progresso tecnologico prometteva di liberare l’umanità; ha finito invece per scaraventarci nella gabbia d’acciaio intravista da Max Weber un secolo fa nei suoi studi sulla razionalità burocratica. Forse ci salverà dal coronavirus, isolandoci da ogni contatto con il mondo esterno e imponendoci il trionfo definitivo della «separazione generalizzata». Ma quello che oggi ci sembra essere il rifugio più sicuro potrebbe presto rivelarsi come il luogo del pericolo più grande.