La crisi sanitaria ci induce a prepararci al cambiamento climatico

L’imprevista coincidenza tra l’isolamento generale e il periodo di Quaresima è perlomeno benvenuta per coloro ai quali, trovandosi nelle retrovie, è stato richiesto, per solidarietà, di non fare nulla. Questo digiuno obbligato, questo Ramadan laico e repubblicano può essere per loro un’ottima occasione per riflettere su ciò che è importante e ciò che è irrisorio…

Come se l’intervento del virus potesse servire da prova generale per la prossima crisi, quella in cui il riorientamento delle condizioni di vita si porrà a tutti quanti e per ogni aspetto dell’esistenza quotidiana che dovremo imparare a considerare in modo accurato. Avanzo l’ipotesi, come molti, che la crisi sanitaria ci prepari, ci induca, ci inciti a prepararci al cambiamento climatico. Un’ipotesi che resta tuttavia da verificare.

Il virus non è altro che un anello di una catena

Ad autorizzare l’interconnessione delle due crisi è la realizzazione improvvisa e dolorosa che la definizione classica di società – gli umani tra di loro – non ha alcun senso. Lo stato del sociale dipende, in ogni momento, dalle associazioni tra molti attori, la maggior parte dei quali non ha una forma umana. Questo vale per i microbi – lo sappiamo fin dai tempi di Pasteur –, ma anche per Internet, per il diritto, per l’organizzazione degli ospedali, per le capacità dello Stato così come per il clima.

E naturalmente, nonostante i bisticci attorno a uno “stato di guerra” contro il virus, questo non è altro che un anello di una catena in cui la gestione delle scorte di maschere o dei test, la regolamentazione del diritto di proprietà, i comportamenti civici, i gesti di solidarietà, hanno lo stesso peso nella definizione del grado di virulenza dell’agente infettivo. Una volta presa in conto l’intera rete di cui il virus è solo un anello, questo stesso non agisce allo stesso modo a Taiwan, Singapore, New York o Parigi. La pandemia non è neanche un fenomeno “naturale” come le carestie del passato o dell’attuale crisi climatica. È da tempo che la società non è più ristretta negli angusti confini della sfera sociale.

L’estensione dei poteri e le sirene delle ambulanze

Ciò premesso, non mi è chiaro come si possa spingere molto oltre il parallelo. Perché, dopotutto, le crisi sanitarie non sono una novità, e l’intervento rapido e radicale dello Stato non sembra finora particolarmente innovativo. Basta vedere l’entusiasmo del presidente Macron nell’assumere la figura di capo di Stato che finora gli mancava in modo così flagrante. Molto più degli attentati – che in fondo si riducono a una questione di polizia –, le pandemie risvegliano, tra i governanti come tra i governati, una sorta di evidenza – “noi dobbiamo proteggervi”, “voi dovete proteggerci” – che rinsalda l’autorità dello Stato e gli permette di pretendere ciò che, in qualsiasi altra circostanza, sarebbe accolto con una rivolta.

Ma questo Stato non è lo Stato del XXI secolo e del cambiamento ecologico, è quello del XIX secolo e del cosiddetto “biopotere”. Per esprimerci con le parole del compianto statistico Alain Desrosières, è giustamente lo Stato delle statistiche: gestione della popolazione su una rete territoriale vista dall’alto e guidata dal potere degli esperti. Esattamente quello che vediamo oggi risorgere – con la sola differenza che viene replicato passo dopo passo, fino a diventare planetario.

Mi sembra che l’originalità della situazione attuale è che, rimanendo rinchiusi in casa, mentre fuori non resta altro che l’estensione dei poteri di polizia e le sirene delle ambulanze, recitiamo collettivamente una forma caricaturale della figura del biopotere che sembra uscita direttamente da un corso del filosofo Michel Foucault. Non manca nemmeno la dimenticanza dei tantissimi lavoratori invisibili costretti a lavorare comunque, affinché gli altri possano continuare a rintanarsi in casa loro – senza dimenticare i migranti che non si riesce a sistemare. Ma appunto, questa caricatura è quella di un’epoca che non è più la nostra.

Un immenso abisso

C’è un immenso abisso tra lo Stato capace di dire “vi proteggo dalla vita e dalla morte”, cioè dall’infezione di un virus la cui traccia è nota solo agli scienziati e i cui effetti sono comprensibili solo attraverso la raccolta di dati statistici, e lo Stato che oserebbe dire “vi proteggo dalla vita e dalla morte, perché mantengo le condizioni di abitabilità di tutti i viventi da cui voi dipendete”.

Provate a pensarci: immaginate che il presidente Macron venga ad annunciarvi, con lo stesso tono churchilliano, un pacchetto di misure per lasciare le riserve di gas e petrolio nel terreno, per fermare la commercializzazione dei pesticidi, per abolire l’aratura in profondità e, suprema audacia, per proibire il riscaldamento dei fumatori sulle terrazze dei bar… Se l’imposta sulla benzina ha scatenato il movimento dei gilets jaunes, viene da rabbrividire al pensiero delle rivolte che incendierebbero il Paese. Eppure, la richiesta di proteggere i Francesi, per il loro bene, dalla morte è infinitamente più giustificata nel caso della crisi ecologica che in quello della crisi sanitaria, poiché si tratta letteralmente di tutti quanti, e non di alcune migliaia di persone – e non per un periodo, ma per sempre.

L’agente patogeno la cui terribile virulenza sta modificando le condizioni di vita di ciascuno di noi non è affatto il virus, ma nient’altro che gli umani!

Uscire dalla produzione globalizzata

Ci rendiamo conto che questo Stato non esiste. E quello che è più preoccupante è che non vediamo come si preparerebbe a passare da una crisi all’altra. Nella crisi sanitaria, l’amministrazione ha un ruolo pedagogico molto classico, e la sua autorità coincide alla perfezione con le vecchie frontiere nazionali – l’arcaismo del ritorno alle frontiere europee ne è la dolorosa prova.

Per il cambiamento ecologico, il rapporto s’inverte: è l’amministrazione che deve imparare da un popolo multiforme, a scale multiple, a cosa può somigliare l’esistenza su territori interamente ridefiniti dalla necessità di uscire dall’attuale produzione globalizzata. L’amministrazione sarebbe del tutto incapace di dettare misure dall’alto. Nella crisi sanitaria, è infatti la gente per bene a dover riapprendere, come alla scuola elementare, a lavarsi le mani e a tossire sul gomito. Nel cambiamento ecologico, è lo Stato che si trova in una situazione di apprendimento.

Ma c’è un’altra ragione che la figura della “guerra contro il virus” rende incomprensibile: nella crisi sanitaria, può essere vero che gli umani nel loro insieme “lottino contro” i virus – anche se questi non hanno alcun interesse nei nostri confronti e vanno per la loro strada dalla gola al naso, uccidendoci senza alcun rimorso.

La situazione è tragicamente ribaltata nella mutazione ecologica: questa volta, l’agente patogeno la cui terribile virulenza ha modificato le condizioni di vita di tutti gli abitanti del pianeta, non è affatto il virus ma gli umani! E non tutti gli umani, ma alcuni, che ci fanno la guerra senza dichiararcela.

Per questa guerra, lo Stato nazionale è mal preparato, mal calibrato, mal progettato, perché i fronti sono multipli e attraversano ognuno di noi. È in questo senso che la “mobilitazione generale” contro il virus non dimostra in alcun modo che saremo pronti per la successiva. Non sono solo i militari a rimanere sempre indietro di una guerra.

Ma alla fine, non si sa mai, un periodo di Quaresima, anche se laico e repubblicano, può portare a spettacolari conversioni. Per la prima volta da anni, milioni di persone, bloccate in casa, ritrovano questo lusso dimenticato: il tempo di riflettere e discernere ciò che di solito li fa agitare inutilmente in ogni direzione. Rispettiamo questo lungo e inaspettato digiuno.

Questo articolo è stato pubblicato su “Le Monde” il 25 marzo 2020

 

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