L’allegoria è fin troppo evidente osservando il modo in cui il microscopico SARS-CoV-2 ha paralizzato la mega-macchina capitalistica sospendendo la mobilità, rallentando i consumi e mettendo in crisi la produzione. Davide ha messo in ginocchio Golia, per citare un mito ancora più antico che secondo Arnold Toynbee descrive la logica immanente dei cicli storici. Il campione dei filistei era un omone grande e grosso interamente ricoperto da un’armatura — un «uomo aumentato», la cosa più vicina a un cyborg all’undicesimo secolo prima di Cristo — ma è bastata una manovra disruptive come il lancio di una pietra in faccia per stenderlo. L’errore fatale di Golia, sottolinea Toynbee, era di aspettarsi un avversario equipaggiato come lui e di dare per scontata una certa idea di come si sarebbe svolto il duello; il gigante aveva vinto con la sua lancia così tante battaglie che era giunto a considerarsi invincibile. Errore ricorrente in cui sono spesso incorse le grandi civiltà del passato prima di crollare – rimandiamo al quarto volume dello Study of History chi volesse ulteriori esempi.
Il coronavirus ha colpito in maniera quasi chirurgica i punti fragili della macchina del capitalismo, provocando quella che si annuncia come una recessione globale. Nei prossimi mesi ci aspettano fallimenti a catena, disoccupazione di massa e conseguenze geopolitiche imprevedibili. Eppure sarebbe un errore considerare questa epidemia come un fenomeno naturale: al contrario, essa è sociale fin dall’inizio. Un semplice microorganismo non sarebbe mai riuscito a fare quello che ha fatto senza sfruttare le infrastrutture che il sistema stesso ha messo a sua disposizione come trasporti, ospedali, istituzioni e mezzi di comunicazione. Contrariamente a quello che sembra ritenere Giorgio Agamben, i rischi sempre più numerosi che la società moderna è chiamata a gestire non sono «invenzioni» ma sue produzioni reali, per quanto involontarie. Riconoscere che abbiamo a che fare con una catastrofe di natura antropica è il primo passo necessario per confrontarci con la possibilità che certi rimedi possono essere persino peggio del male. Mentre tanti precari stanno già perdendo il lavoro e tanti reclusi la salute fisica o mentale, mentre nelle strade risuona il tramestio degli stivali dei soldati, non è assolutamente prematuro riflettere sulla trappola tecnologica che si sta chiudendo su di noi.
La certezza tipicamente capitalistica che basti disporre di maggiori risorse per rendere più efficiente un sistema viene continuamente contraddetta dai fallimenti industriali e militari delle grandi potenze.
Il virus dentro la macchina
Secondo la virologa Ilaria Capua, l’apparizione del medesimo ceppo virale in un diverso contesto storico avrebbe avuto conseguenze molto più lievi: sarebbe nato e morto in un villaggio a Nord del lago Dongting oppure avrebbe messo decenni a diffondersi, lasciando il tempo necessario all’umanità per immunizzarsi. Insomma se anche il virus SARS-CoV-2 fosse venuto al mondo non sarebbero esistite le condizioni per un’epidemia. Ma il mondo del ventunesimo secolo è costituito da una fitta maglia di collegamenti che come grandi siringhe in poco tempo portano gli agenti patogeni da una parte all’altra del mondo. Il ciclo di trasmissione ed evoluzione dei virus ne risulta in questo modo accelerato, aumentato anch’esso attraverso la simbiosi con la mega-macchina del trasporto aeronautico.
Se in una prima fase molti specialisti hanno dato l’impressione di «minimizzare» la gravità della malattia è perché l’ennesima sindrome simil-influenzale non costituiva, in sé, un fenomeno nuovo né oltremodo allarmante. Avevano sottovalutato la capacità del sistema tecnologico di funzionare come ripetitore del contagio e amplificatore del rischio – e in particolare quella, pure già nota, del sistema sanitario. A poco più di un mese dalla scoperta del primo caso di coronavirus sul territorio italiano, stanno emergendo con forza ipotesi sul ruolo svolto dagli ospedali nella catastrofe che si è manifestata in Lombardia. Una catastrofe che rischia di verificarsi ovunque vi siano condizioni simili.
Tra le file del personale sanitario, costretto a lavorare in condizioni inadatte, stressanti e pericolose, si conta un numero elevatissimo di contagiati e decine di caduti. Già dalla fine del mese di febbraio era stata aperta un’inchiesta sulle procedure adottate negli ospedali di Codogno, Casalpusterlengo e Lodi, che potrebbero aver contribuito al contagio. A Capua che ha ricordato che il virus SARS 1 si era diffuso sfruttando i condotti di aerazione di un albergo di Hong Kong, a stretto giro ha risposto un ex direttore sanitario di ASL lombarde, Giuseppe Imbalzano, insistendo sul fatto che la questione sia organizzativa prima ancora che medica: sarebbe stato opportuno, come in Cina, isolare le strutture per i contagiati da coronavirus dalle altre. Non c’entra quindi tanto la disponibilità di «posti letto» in assoluto, che in certi casi può rivelarsi parte del problema, quanto la capacità di una burocrazia complessa di adattare rapidamente i suoi protocolli. La certezza tipicamente capitalistica che basti disporre di maggiori risorse per rendere più efficiente un sistema viene continuamente contraddetta dai fallimenti industriali e militari delle grandi potenze.
In una lettera aperta consegnata al New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery, tredici medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno denunciato il paradosso di una crisi resa possibile non malgrado un sistema sanitario d’eccellenza, ma precisamente a causa delle sue caratteristiche intrinseche:
Gli ospedali possono essere i principali veicoli di trasmissione del COVID-19 poiché si riempiono in maniera sempre più veloce di malati infetti che contagiano i pazienti non infetti. Lo stesso sistema sanitario regionale contribuisce alla diffusione del contagio, poiché le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori. I sanitari sono portatori asintomatici della malattia o ammalati senza alcuna sorveglianza.
La tempesta epidemica non avrebbe potuto scatenarsi senza il contributo di tutta una serie di strumenti tecnologici messi al servizio della diffusione del virus. Tra questi media in senso lato ci sono anche, come suggerisce sempre Capua, i mezzi d’informazione: secondo la virologa, il panico diffuso in Italia dalla fine di febbraio ha potuto stimolare una «corsa agli ospedali» controproducente. Ma nel lungo elenco delle disfunzioni che hanno amplificato il potenziale distruttivo del COVID-19 troviamo anche i conflitti tra poteri a livello regionale, nazionale, europeo e internazionale, che ha incentivato una specie di gara a scaricare le responsabilità e rilevare il numero minore di contagiati. Insomma il coronavirus non ha semplicemente fatto «ammalare» il sistema, ma lo ha hackerato. Ha sfruttato le sue infrastrutture e le sue risorse, usandolo come un esoscheletro per realizzare la sua unica vocazione: riprodursi. L’analogia più convincente potrebbe essere con quei parassiti (funghi o insetti) capaci di prendere il controllo della mente di formiche, coccinelle o scarafaggi. Ad esempio la vespa gioiello è in grado con le sue neurotossine di influenzare il movimento della sua vittima, mentre il fungo a testa di clava, da parte sua, è in grado di spingerla al suicidio. Qualcosa di simile sembra accaduto con il coronavirus, che ha agito sulla mega-macchina del capitalismo occidentale come un vero e proprio virus informatico.
La produzione della dipendenza
Nei primi giorni della crisi sanitaria qualcuno ha ironizzato sull’eredità intellettuale di autori come Michel Foucault e Ivan Illich, colpevoli di aver criticato in vario modo l’approccio moderno alla malattia; avrebbe fatto meglio a rileggerli. In particolare quel Nemesi medica che nel 1974 denunciava i rischi iatrogeni della medicina, ovvero la produzione su scala industriale di effetti collaterali. Oggi sembra fargli eco questa amara constatazione dei medici di Bergamo, dai toni sorprendentemente illichiani: «Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus». È con questo paradosso che dobbiamo fare i conti per capire la scelta tragica che ci viene imposta.
Naturalmente non ha senso buttar via il bambino con l’acqua contaminata. Se calcolato in termini di «nuda vita», per citare Agamben, è indubbio che il sistema salvi molte più persone di quante (molto occasionalmente) ne uccida: le stesse vittime di eventuali contaminazioni nosocomiali da coronavirus sono per gran parte pazienti che erano fino a quel momento tenuti in vita dal sistema sanitario attraverso strumenti chirurgici e farmacologici. La critica di Illich riguarda semmai la qualità della vita garantita in questo modo, perché nella sua incessante medicalizzazione di ogni aspetto dell’esistenza il sistema tende all’overdiagnosis e all’overtreatment. In questo modo milioni di persone sane vengono arruolate tra le file dei malati, il che talvolta finisce per farle ammalare effettivamente. In ciò tiene la logica perversa di quella che Ulrich Beck ha chiamato da parte sua società del rischio: ovvero nella produzione inesauribile di minacce la cui necessaria prevenzione garantisce sempre nuovi bisogni da soddisfare.
Tuttavia il discorso illichiano sulla qualità della vita rischia di essere piuttosto soggettivo, e a tratti moralistico, soprattutto se contrapposto alla potente oggettività della riduzione dei tassi di mortalità nelle società avanzate, indubbio progresso sul quale il sistema sanitario (e con esso l’intero sistema tecnologico) ha fondato la propria legittimità nel corso dell’ultimo secolo. Il problema è che questa narrazione è vera soltanto per metà. La straordinaria caduta dei tassi di mortalità dell’ultimo secolo si deve in primo luogo all’aumento della qualità della vita, all’acqua potabile e alle reti fognarie, e solo in secondo luogo alla medicina, anzi a uno spettro ristretto di tecnologie mediche — Illich sottolinea, per esempio, l’indubbia efficacia delle politiche vaccinali. Ma fuori da questo spettro i risultati sono assai meno eclatanti. La produzione della salute segue fondamentalmente lo stesso andamento di tutte le curve di produzione e quindi raggiunge inevitabilmente l’altopiano dei rendimenti decrescenti: superata la soglia delle cose che fa «molto bene», la medicina è condannata a fare sforzi sempre più importanti per ottenere risultati sempre meno soddisfacenti e a un certo punto dannosi. Ottiene sempre un po’ di meno per ogni singolo euro che investe e per ogni singolo medico che assume; mentre d’altra parte viene spinta allo stiramento da una crescente domanda di salute ingenerata dal sistema stesso. Questa logica di espansione infinita è evidentemente insostenibile nella sfera sanitaria come lo è in quella economica più ampia.
Se vaccini e antibiotici hanno sospinto la curva di produzione della salute nella sua fase ascendente, le cure psichiatriche caratterizzano l’altopiano in cui si faticano a misurare risultati convincenti. Il caso di iatrogenesi più eclatante degli ultimi anni è sicuramente quello dell’abuso di psicofarmaci e oppiacei, che negli Stati Uniti ha assunto il carattere di una vera e propria epidemia: secondo Allen Frances, già curatore della quarta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV), a provocarla è stata la tendenza crescente in psichiatria a individuare sempre maggiori disturbi e potenziali devianze da medicalizzare. Ricordate la vespa gioiello e il fungo a testa di clava? In questo caso è la mega-macchina sanitaria a condizionare il comportamento di milioni di esseri umani trasfondendo neurotossine nel loro sistema nervoso. Questa relazione simbiotica con la macchina può in certi casi salvare la vita al paziente, mentre in altri casi lo condanna a una maggiore infelicità. Ma cosa succede quando all’individuo ormai assuefatto viene sospeso, per cause di forza maggiore, il trattamento medico? La trama del film Joker di Todd Phillips fornisce qualche spunto.
Il sistema tecnologico produce di fatto degli individui dipendenti dalla tecnologia. Torniamo all’immagine del cyborg, mezzo-uomo e mezzo-macchina — in questo caso tutti quanti cablati alla medesima grande macchina che garantisce l’approvvigionamento in risorse, la sicurezza, in certi casi la sopravvivenza fisica. Questa macchina non può permettersi nessun «calo di tensione» senza mettere in pericolo i milioni di persone che vivono in simbiosi con essa, che siano negli ospedali in senso stretto o nei centri urbani in senso lato. Il che significa inoltre che siamo indirettamente dipendenti dal modo di produzione che genera la ricchezza necessaria per finanziare questa tecnostruttura che ci tiene in vita, dall’acqua potabile ai respiratori. Non esiste dunque nessun trade-off tra le esigenze della sopravvivenza e quelle della produzione, in quanto la sussistenza biologica stessa nelle nostre società è ormai per gran parte mediata dal sistema capitalistico. I danni alla sfera economica stanno già ora producendo un esercito di disoccupati e presto milioni di persone incapacitate a garantire la propria sussistenza e la propria salute.
In che momento la conservazione della nuda vita finirà per condannarci, come civiltà, a un’esistenza non più degna di essere vissuta?
Accelera o muori
Ancora una volta il sistema tecnologico, dopo aver contribuito a produrre il problema, ci propone i suoi rimedi. Ma in questo caso sono molto più drastici del solito: reclusione forzata di una maggioranza della popolazione, presenza massiccia dell’esercito nelle strade e piani per un controllo pervasivo degli spostamenti. Domani, probabilmente, un rigido sistema di workfare per risollevare le forze produttive. A questi rimedi «non c’è alternativa», per citare il premier Conte, perlomeno se vogliamo mettere al riparo le nostre strutture sanitarie. Nulla di nuovo in fondo: l’assenza reale di alternative è precisamente la logica del sistema tecnologico. Dal momento in cui viene storicamente prodotto, esso si presenta come realmente irreversibile. Producendo sempre nuovi rischi, continua a riprodurre la propria necessità. Imponendo il suo monopolio radicale, ha azzerato lo spettro delle possibilità. La natura ha creato il virus ma è il sistema tecnologico che l’ha trasformato in un’epidemia. Così ci pone oggi il suo estremo ricatto: sacrificare la nuda vita oppure accelerare verso la distopia.
Riflettendo nel 1966 sulla Legittimità dell’età moderna, il filosofo Hans Blumenberg aveva osservato che «i mali del mondo dipendono sempre meno dai difetti fisici della natura, e, per via delle amplificazioni tecniche, sempre più chiaramente dagli effetti delle azioni umane». Perciò il principio di legittimazione del sistema tecnologico è ormai quello di una pura corsa in avanti per sperare di risolvere i problemi generati dalla sua stessa esistenza, accelerando. Ma via via che si accumulano i rischi iatrogeni questa corsa è sempre più disperata e presto persino inutile. Per riprendere un cruccio formulato (non del tutto efficacemente) sempre da Giorgio Agamben, dobbiamo chiederci: in che momento la conservazione della nuda vita finirà per condannarci, come civiltà, a un’esistenza non più degna di essere vissuta?
Il capitalismo si era venduto come l’unico sistema ormai in grado di gestire i pasticci da lui combinati, ma non avevamo preso in debita considerazione l’esistenza di ampi margini d’imbarbarimento. Oggi, portando all’estremo la traiettoria della modernizzazione, l’emergenza sanitaria impone all’Occidente di far evolvere il suo sistema politico-economico in qualcosa di più simile al modello cinese: un sistema altamente razionalizzato, centralizzato, gerarchizzato, un salto evolutivo nella specie. L’eclissi dei più elementari diritti civili sembra sollevare solo poche timide obiezioni a fronte della nostra paura animale per la sopravvivenza. «Non c’è alternativa»: dobbiamo accelerare o morire.
Il progresso tecnologico prometteva di liberare l’umanità; ha finito invece per scaraventarci nella gabbia d’acciaio intravista da Max Weber un secolo fa nei suoi studi sulla razionalità burocratica. Forse ci salverà dal coronavirus, isolandoci da ogni contatto con il mondo esterno e imponendoci il trionfo definitivo della «separazione generalizzata». Ma quello che oggi ci sembra essere il rifugio più sicuro potrebbe presto rivelarsi come il luogo del pericolo più grande.