«Pagare l’affitto? Lo farei anche, ma sul conto corrente in questo momento ho solo 100 euro». Mario ha 28 anni ed è arrivato in Bolognina a gennaio con tante speranze. «Mi occupavo di comunicazione come freelance, il lavoro c’era e a marzo avrei dovuto aprire la partita Iva. Invece è arrivato il virus». Le offerta sono evaporate, i committenti hanno congelato i pagamenti, e così il suo conto corrente si è prosciugato in un baleno. Mario abita in un palazzone alla primissima periferia di Bologna, a due passi dalla stazione dell’alta velocità. In un quartiere, la Bolognina, in predicato di diventare una zona della città tra le più ambite per studenti e giovani lavoratori. Un quartiere in riqualificazione e in passato già al centro di grandi occupazioni e di iniziative dei movimenti per il diritto dell’abitare. E che ora vede un intero palazzo, quello di Mario appunto, aderire al rent strike, lo sciopero dell’affitto causa coronavirus.
Cinque piani, ogni piano tre appartamenti, in via Serlio a Bologna lo sciopero lo fanno praticamente tutti. Cinquanta persone che hanno deciso assieme di dire basta, almeno per il momento. Ottocento euro circa di canone per appartamento, quasi dodicimila euro al mese per tutto l’edificio. Una scelta politica la loro, perché rivendicata pubblicamente e con una lettera collettiva alla proprietà, ma sopratutto una necessità, visto che arrivare a fine mese è sempre più difficile. Nei 14 appartamenti che hanno deciso di smettere di pagare vive uno spaccato della generazione ultraflessibile e precaria. C’è un giardiniere disoccupato con in tasca una laurea in agraria, un tatuatore, un’educatrice precaria, ci sono lavoratori del settore dello spettacolo, musicisti e insegnanti, esperti di comunicazione. Tutti o quasi travolti dal lockdown, che li ha chiusi in casa e ha tagliato loro le entrate. Contratti a chiamata, prestazioni occasionali, lavoretti in nero. «Forse io sono la più fortunata», racconta una inquilina, insegnante precaria con contratto in scadenza a giugno.
«A inizio pandemia abbiamo realizzato che nella fase due per noi non ci sarebbe stato nessun ritorno alla normalità», spiega un abitante del palazzo. Così a inizio aprile tutti gli inquilini hanno inviato una raccomandata alla proprietà, una società immobiliare con sede a Roma, e hanno avviato la trattativa chiedendo la sospensione dell’affitto almeno fino alla fine della crisi. Il dialogo è aperto. Gli inquilini resistenti, sbarcati su facebook con la pagina RentStrike Bolognina, chiedono lo stop alle rate per «oggettiva impossibilità al pagamento e per causa non addebitabile al locatore». Maria Elena, una di loro, la sintetizza così: «Non è certo colpa mia se il mondo si è bloccato. Sarà sparito il lavoro ma il mio diritto alla casa resta».
Il palazzo in sciopero dell’affitto a Bologna è al momento forse l’iniziativa più visibile in mezzo a un mare agitato di iniziative online, assemblee sui social network e sportelli telefonici che nascono nelle grande città di tutta Italia per dare assistenza a chi inizia ad avere problemi con i pagamenti.
I sindacati degli inquilini hanno tutti lanciato l’allarme. Il Sunia Cgil ha chiesto interventi straordinari, l’Unione degli inquilini un contributo generalizzato per l’affitto, mentre il sindacato Asia Usb ha lanciato una campagna con lo slogan: «Io resto a casa, ma se una casa non posso pagarla?». «Siamo stati contattati da centinaia di inquilini in difficoltà – spiega Angelo Fascetti dell’esecutivo nazionale di Asia – Per ogni caso apriamo se possibile una trattativa con la proprietà per chiedere la revisione al ribasso del canone di affitto. Ma servono subito provvedimenti nazionali. Il governo si muova, e metta al più presto in cantiere un grande piano per il rilancio dell’edilizia pubblica».
di Nedo Lombardi
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 28 aprile 2020