La nuova passione dei giornali italiani a reti unificate e dei governatori sceriffi sono le fotografie di «assembramenti». Funziona così: prendi una via lunga tipo seicento metri, con qualche bancarella di ortofrutta, una farmacia e un piccolo supermercato. Sabato mattina, possibilmente. Ti piazzi a un estremo e scatti col teleobiettivo a 200 o 300 mm, o con lo zoom digitale, in modo che la prospettiva risulti schiacciata: il palazzo là in fondo è come se ce l’avessi davanti alla faccia, e le trenta persone che ci sono – e in seicento metri stanno alla giusta distanza – le schiacci e comprimi in una scatola di acciughe, con un effetto ottico che te le fa sembrare una folla.
Se usassero la stessa tecnica nella corsia di un supermercato, anche lì rileverebbero un assembramento da paura, e per di più al chiuso. Ma non lo fanno, perché non possono mettersi a far la morale sui supermercati, dove la gente fa la fila fuori e sa com’è la situazione, mentre magari la viuzza la conosce solo chi ci abita, chi la frequenta, e si può creare un piccolo caso sulla ressa di via Sestri a Genova, gli indisciplinati di Spaccanapoli, gli irresponsabili del Quadrilatero di Bulåggna…
E poco importa se nelle foto o nelle riprese col teleobiettivo si vede anche un’auto dei vigili, o due poliziotti che camminano – a testimoniare che quella scena, dal vivo, non è la bolgia infernale che stanno denunciando.
Poco importa che, ad esempio, le foto del Quadrilatero di Bologna mostrino persone con la mascherina (tutte) e i guanti (quasi tutte), e che all’aria aperta, con guanti e mascherina e stando a un metro e passa gli uni dagli altri, infettarsi sia praticamente impossibile.
Poco importa, specie se sei un giornale che ha deciso la linea da tenere, costi quel che costi. O, come nel caso di Genova, sei un governatore della coalizione X che vuole polemizzare col presidente di quartiere della coalizione Y.
A parte le questioni di tecnica fotografica, nessuno che s’interroghi sul perché certe strade siano più frequentate di altre. Le famose strade commerciali, i fiori all’occhiello delle nostre città turistiche. Nessuno che dica: oi, forse se consentissimo alla gente di farsi due passi tranquilla, non ci sarebbe bisogno di andare in farmacia tutti i giorni, per guadagnarsi il lasciapassare di una camminata. No: si punta il dito sul mostruoso consumismo delle persone, gente che non può stare un giorno senza comprare qualcosa, quando l’unica attività consentita fuori di casa è lavorare e comprare.
Inoltre, come ha scritto l’utente JoJo in un commento al post precedente, sono significative
«le caratteristiche dei luoghi scelti per operare questa mistificazione della realtà e responsabolizzazione verso il basso dei contagi. Se prendiamo in esame un video girato a Napoli vorrei far notare che su una delle vie (intendo proprio strada/via oltre che quartiere) convergono: uno dei nosocomi più affollati della città, un fittissimo susseguirsi di negozi di generi alimentari, pescherie e ortofrutticoli, poco distanti le stazione delle due linee metropolitane, la stazione della ferrovia cumana che collega la zona dei campi flegrei al centro cittadino, il capolinea di una delle funicolari collinari, la zona ha una densità abitativa tra le più alte della città.
Chi come me conosce bene quella realtà e sa benissimo quanto sia affollata e caotica in tempi normali, si è reso conto al contrario di quanto gli abitanti di quel luogo abbiano osservato per quanto possibile le varie ordinanze. Quasi tutti, nonostante non sia obbligatorio, indossano le mascherine e si muovono, non si vedono assembramenti ma persone che camminano oppure in fila osservando le distanze di sicurezza, camminano senza grossi sbattimenti anche i due agenti della polizia municipale. Insomma una tranquilla cartolina di vita quotidiana in tempi di coronavirus.
Tanto è bastato per rilanciare il video sui social e sbandierarlo dai giornalisti come atto di insubordinazione pericoloso per la salute pubblica. A cosa serve tutto questo se non ad alimentare l’odio sociale e dirigere la rabbia verso un capro espiatorio?»
L’impressione forte è, per dirla con Tuco in un altro commento, quella di
«un gioco delle parti coordinato tra giornali e potere esecutivo. Venerdì, con simultaneo freddo scatto i quotidiani nazionali e locali hanno riempito le loro prime pagine di foto false di assembramenti, scattate con teleobiettivi da 800mm, da Genova a Trieste, da Napoli a Milano passando per Bologna. A stretto giro sono arrivate le ordinanze di Fedriga e Fontana [sull’obbligo di mascherina, NdR], sono state varate nuove misure restrittive della libertà di movimento (per chi ancora ce l’aveva), è stato annunciato il rinvio a tempo indeterminato della riapertura delle città alla vita, ma in compenso oggi Repubblica titola sulla formazione di un “gabinetto di guerra” per riaprire le fabbriche il 13 aprile.»
Che il gioco sia coordinato o meno, l’esito è quello di deviare sul singolo cittadino «indisciplinato» la responsabilità dei disastri fatti dalla classe dirigente.
Classe dirigente che prima ha aziendalizzato e tagliato la sanità pubblica, poi ha ignorato per due mesi l’epidemia, infine ha reagito scompostamente alla scoperta dei primi focolai, imponendo misure incoerenti e “a singhiozzo”, man mano implementandole con divieti – de iure e de facto – alla libertà di movimento, alcuni dei quali non hanno quasi corrispettivo nel resto d’Europa. Divieti dalla funzione spettacolare, utili ad additare continuamente capri espiatori: il podista, chi passeggia, l’anziano che va troppe volte al supermercato, chi chiede almeno una boccata d’aria per bambine e bambini… E vai con denunce e multe, peraltro di dubbia costituzionalità.
Intanto, mentre non si faceva nulla per impedire che RSA e case di riposo diventassero bombe virali, alcuni comparti dell’economia venivano chiusi a doppia mandata mentre ad altri, non necessariamente «essenziali», si concedeva ogni favore, facendo sì che milioni di italiane e italiani continuassero a lavorare in ambienti fortemente a rischio.
Eh già, perché la «furbizia» e l’«irresponsabilità» vengono tirate fuori solo in maniera strumentale. Piuttosto, perché non facciamo un elenco delle 12mila aziende lombarde che in 24 ore, dopo la chiusura delle produzioni non «essenziali», si sono precipitate a chiedere una deroga ai prefetti, pur di restare aperte? Non soggetti generici: non «i furbetti», non «la gente», non «gli italiani»… No, un elenco di nomi, azienda per azienda, tipo di produzione per tipo di produzione, giusto per farsi un’idea. Dodicimila anche in Veneto. Per non parlare di quelle che sottobanco hanno modificato il proprio codice Ateco pur di rientrare nella categoria delle essenziali.
Dopo la revisione dell’elenco delle attività indispensabili, i lavoratori potenzialmente attivi in Lombardia sono scesi da 1,61 milioni a 1,58 milioni. In pratica, il Dpcm del 22 marzo ha messo a casa solo trentamila persone, tutte le altre hanno continuato a lavorare, e in molti casi a contagiarsi.
Questi sarebbero numeri significativi, e rivelatori. Invece ogni giorno se ne sparano di altalenanti e dalla dubbia affidabilità, si delira sulla curva, sul «picco», ma nessuno vede una prospettiva e si continua a rinviare l’avvio di una nuova fase. È per sviare l’attenzione da questo che si colpevolizza la gente.
A scanso di equivoci: non c’è stato nessun Piano congegnato in anticipo da potenti tanto malvagi quanto geniali e in grado di prevedere tutto. L’attuale strategia incentrata sul lockdown si è imposta a tentoni e non senza conflitti: basti ricordare come le classi dirigenti hanno reagito nelle prime settimane di epidemia, con fortissime tensioni tra governo centrale e regioni, tra segmenti di classe politica a loro volta rappresentanti di interessi diversi, spezzoni di capitalismo che si sono giocati la partita tra #chiuderetutto e l’#Italianonsiferma. Si sono scontrate diverse narrazioni, con un’altalena tra terrore e rassicurazione, e anche adesso ci sono tensioni tra chi vorrebbe stringere ulteriormente e chi invece vorrebbe allentare. Le misure, poi, sono state prese in modo incongruo, con continui rattoppi sui buchi fatti in precedenza.
È chiaro che adesso i fautori del divieto di uscire di casa devono «tenere botta», tenere la parte che si sono ritrovati a interpretare nel dramma generale. Ed è chiaro che mentre tengono la parte fanno esperimenti, ne avevamo già scritto nel Diario virale 3: quest’emergenza «torna utile» a molti, a livello globale e italiano.
Qui da noi, per fare solo alcuni esempi, c’è Fedriga che chiede «tasse zero per le imprese» (così si indebolirebbe ulteriormente il welfare, compreso il sistema sanitario nazionale), c’è Salvini che chiede di trasformare Milano in «zona economica speciale» con agevolazioni per il padronato e limitazioni dei diritti sindacali, c’è la sanità privata che (solo in apparenza paradossalmente) trae ulteriore vantaggio dalla situazione, ci sono le richieste di deroghe a importanti tutele ambientali, ci sono settori di forze dell’ordine e forze armate che hanno l’acquolina in bocca per la centralità che avranno in qualunque nuovo scenario (si tratti di pax pandemica o di rivolta sociale), ecc.
Da oltre un mese, per giustificare questo stato di cose i media italiani (soprattutto quelli governisti), unici al mondo, parlano di un «modello Italia», dicono che nel mondo tutti ci imitano, mentre sotto l’aspetto sanitario siamo quelli a cui la situazione è più scappata di mano, sui media esteri l’Italia è presa come il top dell’esempio negativo – del cosa non fare – e cominciano a uscire e avere visibilità inchieste sulla risposta «prevalentemente poliziesca» che l’Italia ha dato alla pandemia.
Gestione poliziesca che si alimenta anche con foto come quelle che abbiamo preso in esame. L’inaffidabilità del «popolo bue» è da sempre l’argomento apripista per qualunque stretta autoritaria. La gente è irresponsabile, quindi serve un uomo forte, regole inflessibili, l’esercito per strada… E il governo della nazione si presenta e rappresenta come genitore autoritario di bambinetti e adolescenti immaturi.
Fine del riassunto delle puntate precedenti.
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