Sul terrore a mezzo stampa: «Il virus è nell’aria», un titolo che farà molti danni

Su Repubblica online di oggi compare un articolo intitolato «Il virus circola anche nell’aria / L’oms si prepara a rivedere le linee guida» illustrato con foto di una mascherina. È anche nell’edizione cartacea, a pag. 5, col titolo ancora più tranchant: «Il virus è nell’aria / Gli Usa: usatele tutti / E l’Oms si prepara a rivedere le norme.»

Poiché su web l’articolo è a pagamento, il titolo è l’unica cosa che la maggior parte dei visitatori leggerà. E penserà che per infettarsi basti uscire di casa senza mascherina.

Noi invece siamo abituati a leggere gli articoli per intero, e se serve a verificarne le fonti.

Precisiamo che titoli simili sono apparsi anche su altre testate. Abbiamo scelto Repubblica perché è il più mainstream, il più visitato on line, ha una patina di «rispettabilità» e fin dall’inizio dell’emergenza coronavirus ha diffuso con zelo certe narrazioni – quelle che su Giap cerchiamo di smontare – in determinati settori dell’opinione pubblica.

Gli articoli citati come «pezze d’appoggio» dicono altro

Dall’articolo, piuttosto ingarbugliato, non si capisce molto, ma vengono citati in modo vago due articoli scientifici, uno apparso sul New England Journal of Medicine il 17 marzo di cui ci eravamo già occupati in una discussione qui su Giap, e l’altro apparso su Jama il 26 marzo.

Partiamo da quest’ultimo: non è uno studio fatto direttamente sul virus Sars-Cov2, ma una ricapitolazione di scoperte sulla trasmissione di agenti patogeni tramite goccioline e tramite aerosol. Spiega che uno starnuto non consiste solo di goccioline ma anche – traduciamo da profani – di «una nube gassosa turbolenta e multifase». Grazie alla compresenza di goccioline e aerosol, un agente patogeno trasmesso da uno starnuto può arrivare anche a 7-8 metri di distanza. La nube poi perde spinta e si disperde ma lascia «residui o nuclei di goccioline che possono restare in aria per ore, seguendo [attenzione a quel che sta per dire, corsivo nostro, NdR] i pattern di correnti imposte da sistemi di ventilazione o aria condizionata».

Stiamo dunque parlando principalmente di ambienti chiusi.

Dove il testo arriva al punto, nel paragrafo intitolato «Implications for Prevention and Precaution», non parla di camminate all’aria aperta come il titolo di Repubblica indurrebbe chiunque a pensare, ma della maggiore distanza di sicurezza da tenere e delle precauzioni che dovrebbero osservare i lavoratori della sanità a contatto con malati di Covid-19, ed è tutto proposto con cautela e formulazioni ipotetiche (grassetti nostri):

«Although no studies have directly evaluated the biophysics of droplets and gas cloud formation for patients infected with the SARS-CoV-2 virus, several properties of the exhaled gas cloud and respiratory transmission may apply to this pathogen. If so, this possibility may influence current recommendations intended to minimize the risk for disease transmission. In the latest World Health Organization recommendations for COVID-19, health care personnel and other staff are advised to maintain a 3-foot (1-m) distance away from a person showing symptoms of disease, such as coughing and sneezing. The Centers for Disease Control and Prevention recommends a 6-foot (2-m) separation. However, these distances are based on estimates of range that have not considered the possible presence of a high-momentum cloud carrying the droplets long distances. Given the turbulent puff cloud dynamic model, recommendations for separations of 3 to 6 feet (1-2 m) may underestimate the distance, timescale, and persistence over which the cloud and its pathogenic payload travel, thus generating an underappreciated potential exposure range for a health care worker. For these and other reasons, wearing of appropriate personal protection equipment is vitally important for health care workers caring for patients who may be infected, even if they are farther than 6 feet away from a patient.»

In parole povere: a medici e infermieri che curano malati di Covid-19 converrebbe portare la mascherina anche quando stanno a più di due metri di distanza. Si sta parlando di situazioni – e professioni – particolari, di ambienti chiusi dove sono presenti contagiati.

E, ripetiamolo, non sono studi condotti direttamente sul coronavirus.

Veniamo all’articolo più vecchio. Avevamo già criticato duramente chi cercava di usarlo come pezza d’appoggio per il «divieto di passeggiare».

Anche qui si parla di plausibilità della trasmissione via aerosol, ma anche in questo caso le implicazioni – e implicite raccomandazioni – riguardano ambienti chiusi e grandi concentrazioni di persone. Il focus dello studio è la permanenza del virus su superfici di diversi materiali, con esplicito riferimento al contagio ospedaliero e ad assembramenti di massa: «nosocomial spread and super-spreading events».

Partire da questi due articoli per titolare ansiogenamente «Il virus è nell’aria» è un bel balzo di tigre, non c’è che dire.

Inoltre, mentre il titolo dice «L’OMS si prepara a rivedere le norme», nel testo si cita solo David Heymann, responsabile del panel sul SARS-Cov2 dell’OMS che dice: «Stiamo studiando le nuove linee scientifiche e siamo pronti a cambiare le linee guida, se necessario».

Il mondo reale non è un laboratorio

Come ha segnalato l’utente pm2001 in un commento su questo blog, la posizione dell’OMS aggiornata al 29 marzo è qui:

«In sostanza la valutazione è: gli ultimi esperimenti che hanno rivelato possibile trasmissione in aria hanno utilizzato dei nebulizzatori ad alta potenza, che non riflettono le normali condizioni di tosse umana. Misure effettuate su pazienti covid non hanno evidenziato trasmissione. Inoltre “in an analysis of 75,465 COVID-19 cases in China, airborne transmission was not reported“. Quindi le mascherine restano consigliate solo agli operatori sanitari.»

Bisogna sempre ricordare, infatti, come ha ribadito il Robert Koch Institut in Germania, che un conto sono le evidenze ottenute in laboratorio sulla permanenza del virus, e un altro sono le condizioni reali. In laboratorio difficilmente puoi riprodurre uno starnuto. E la sopravvivenza del virus dipende da fattori molteplici, come la temperatura, l’umidità dell’aria, il tipo di superficie, la sua struttura, perfino il design. [Su questo, cfr. anche l’Appendice qui sotto.]

Il virologo Hendrik Streeck sta studiando caso per caso il diffondersi del Sars-Cov2 nel distretto di Heinsberg, uno dei focolai tedeschi del virus. È andato nelle case di persone infette, ha tracciato i loro spostamenti, e quel che sta risultando contrasta con svariati esperimenti di laboratorio. Sulle superfici di una casa vera, il virus sembra sopravvivere per un tempo molto più breve e la reale probabilità di contagiarsi toccando una maniglia “infetta” sono prossime allo zero. Nessuno dei casi studiati si è infettato o ha infettato altre persone in un supermercato, sebbene tutti lo abbiano frequentato. Lo studio è in corso, ma già promette risultati piuttosto inediti su come davvero ci si contagia.

Il babau che sta(rnutisce) «là fuori»

Le conseguenze di un titolo-spazzatura come quello preso in esame possono essere gravi, in un contesto di paura, di bombardamento mediatico contro improbabili capri espiatori (con tanto di supermulte probabilmente incostituzionali), mentre la gente è sprangata in casa e si discute di «ora d’aria» per i bambini.

Fin dal principio, divieti irrazionali e criminalizzazioni si sono basati su un’idea assurda, del tutto infondata dal punto di vista virologico ed epidemiologico ma costantemente aizzata da media e politicanti-sceriffi, piantata in milioni di cervelli e non smentita con sufficiente nettezza o visibilità da medici e scienziati (anzi, incoraggiata da alcuni medici e scienziati divenuti vedettes mediatiche): l’idea che il virus sia «là fuori», onnipresente e persistente, in grado di raggiungerti ovunque e a qualunque distanza. E ora che si avvicina il fine settimana, meglio spargere un po’ di terrore, per evitare che qualcuno vada a farsi una passeggiata. Nemmeno nei boschi si può andare: c’è chi chiede di pattugliarli per stanare gli untori, chi manda i droni…

Il clima di terrore per il «babau là fuori» non nasce da un’evidenza scientifica, ancorché travisata. Quella viene ricercata a posteriori, come pezza d’appoggio. Non sono i titoli – sbagliati – sulla diffusione del virus nell’aria aperta ad aver innescato la criminalizzazione di chi passeggia a un chilometro da casa. Al contrario: si confezionano quei titoli – a spregio persino del contenuto degli articoli stessi – per giustificare la linea dura contro chi vorrebbe camminare in un bosco.

Allo stesso modo, si confezionano ragionamenti privi di qualunque logica – «se tutti passeggiassero, non si potrebbero evitare gli assembramenti» – e nascono personaggi come «quello che ti starnutisce in faccia», per certi versi simile alla «prostituta [non a caso «la passeggiatrice»] sieropositiva che buca i preservativi per infettare i clienti e scrive sullo specchio “Benvenuto nell’AIDS”».

A qualcuno è mai capitato davvero di andarsene a passeggio e starnutire in faccia al prossimo? O viceversa: gli è capitato davvero di camminare in mezzo a un prato e incrociare un altro escursionista che gli tossisce addosso? Starnman – il cattivaccio che ti starnutisce in faccia – ha la stessa sostanza delle leggende metropolitane, degli incubi ad occhi aperti.

La cornice narrativa del «babau là fuori» precede il diffondersi del coronavirus e, come abbiamo sottolineato più volte, si era già manifestata nell’ideologia del decoro. Era già nell’agorafobia diffusa, l’odio per gli spazi pubblici che vengono davvero usati dalle persone. Era già negli slogan «padroni a casa nostra». E oggi si rafforza con la scoperta – incredibile! – che la socialità è contagio, che stando assieme possiamo passarci virus, batteri, germi, schifezze. Che non basta sloggiare il tizio che dorme su una panchina, per avere una piazza finalmente asettica, pulita.

Una consapevolezza che d’ora in poi ci tormenterà per sempre.

Appendice, 04/04/2020

«Quello di cui la stampa sta parlando molto ed è presentato fuori contesto è il fatto che il virus possa sopravvivere sulla plastica per 72 ore, il che suona spaventoso. Ma ciò che importa di più è la quantità di virus che resta su quelle superfici: meno dello 0,1% della quantità virale iniziale. A quei livelli il contagio è teoricamente possibile, ma improbabile. Questo la gente deve saperlo.

Lo studio del New England Journal of Medicine dice che il virus può restare nell’aria per tre ore, ma in natura le goccioline della respirazione precipitano al suolo più rapidamente dell’aerosol prodotto in quell’esperimento. Gli aerosol usati in laboratorio hanno particelle più piccole di quelle che escono con un colpo di tosse o uno starnuto, quindi rimangono nell’aria ad altezza del viso più a lungo di quanto facciano le particelle più pesanti prodotte in natura.»

Dall’intervista alla biologa cellulare Carolyn Machamer, esperta di coronavirus, pubblicata già il 20 marzo sul Johns Hopkins Magazine.

 

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