Criminalizzare chi fa jogging e passeggiate: l’ordinanza dell’Emilia-Romagna sotto la lente del giurista

[WM:] Quella delle ordinanze è un’epidemia che escresce su un’epidemia. Lo abbiamo scritto nel Diario virale settimane fa, e non è mai stato tanto vero come nelle ultime 48 ore. Regioni e comuni hanno rigurgitato decine, forse centinaia di ordinanze finalizzate a spaventare chi ancora esce a fare un’attività motoria o, semplicemente, a prendere una boccata d’aria, anche nel rispetto delle regole finora vigenti e senza assembrarsi con nessuno.

Qui sotto ospitiamo un’analisi dell’ordinanza della regione Emilia-Romagna, scritta da Luca Casarotti, giurista, membro del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e coordinatore del Legal Team della Wu Ming Foundation. Analisi che tornerà utile a tutte e tutti: è altamente probabile che nelle prossime ore l’ennesimo decreto del premier recepisca quelle istanze.

Dell’incredibile demonizzazione del jogging, dei risvolti più moralistici che sanitari di questo sbrocco generale, si è discusso molto in calce all’ultimo post di Wolf Bukowski. Sembra quasi che il problema del Paese non sia il disastroso sovraccarico del sistema sanitario, no, il problema è… il jogging. Chi fa jogging è un irresponsabile, «non fa la sua parte», «è un provocatore», per il semplice fatto di mostrarsi fuori di casa «svilisce lo sforzo» (manca solo «bellico») di chi ha accolto l’invito a stare in casa col maggior zelo possibile e spara dalle finestre l’Inno di Mameli.

Da lì a dare direttamente al jogging la colpa del sovraccarico della sanità poteva sembrare un passo lunghissimo, ma con dichiarazioni come quella del presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini se n’è già compiuto mezzo:

«Se qualcuno mi viene a spiegare che rinunciare al jogging se non si è in sicurezza è un problema drammatico, lo prendo con me e lo porto a vedere i reparti ospedalieri.»

Questo è un chiaro esempio di bullshit, nella precisa accezione proposta dal filosofo americano Harry G. Frankfurt: un’affermazione che non è vera né falsa ma soltanto non-pertinente e insensata.

Come si è fatto notare nella discussione linkata, siamo di fronte a una variante del notissimo imperativo: «Mangia anche se non ti piace, ché in Africa i bambini muoiono di fame!», cioè il più noto esempio di collegamento para-logico dall’esito inutilmente colpevolizzante, dal quale, plausibilmente, sono derivati solo disturbi dell’alimentazione.

Dovrebbe essere ovvio, e invece tocca farlo notare: chi fa jogging o passeggia a distanza di sicurezza non ha responsabilità per l’aggravarsi della situazione negli ospedali. Quella responsabilità ce l’ha invece la stessa classe politica di cui Bonaccini è perfetto rappresentante. Classe politica che oggi colpevolizza chi passeggia, ma per trent’anni ha attuato «riforme» neoliberali e tagli di reparti e posti-letto. Su aziendalizzazione, esternalizzazioni, ingresso dei privati, regionalizzazioni in chiave neoliberale il consenso era trasversale, bipartisan. Ne sono responsabili tutti i governi. Ma se lo fai notare, se indichi cause e responsabilità, quando va bene ti senti rispondere che «non è il momento!», che «ne parleremo dopo!». Si stenta a capire che, nell’emergenza perenne, un vero «dopo» non c’è mai.

In ogni caso, siamo certi di una cosa: smettere di correre o passeggiare non porterebbe alcun miglioramento della situazione negli ospedali, perché le due cose sono irrelate.

L’altro mezzo passo verso l’accusa ai podisti di riempire gli ospedali lo compiono direttamente i poliziotti o carabinieri che ti fermano, come testimonia l’aneddoto di Wu Ming 2 che riportiamo in calce a questo post.

Se i poteri pubblici pensano che le loro misure non stiano funzionando, cerchino il colpevole nello specchio. Perché il punto è questo: sono misure raffazzonate e al tempo stesso autoritarie, incoerenti e al tempo stesso classiste, discriminatorie. Sono misure pensate da incompetenti – si veda la bella idea di versare tonnellate di varechina sulle strade – prese su fomento dei media e per avere tanti like sui social.

E invece i responsabili del disastro danno la colpa a chi fa jogging, ai «furbetti dell’autocertificazione» ecc. È molto facile e comodo additare capri espiatori, colpire verso il basso, dare a noi la colpa delle loro responsabilità, storiche e recenti.

Vedremo fino a dove si spingeranno, e anche se riusciranno a fermarsi: sono prigionieri dello stesso terrore che vanno seminando.

Nel frattempo, è importante fornire strumenti di interpretazione e autodifesa sia alle oltre cinquantamila persone già denunciate, sia a chiunque non accetti di murarsi vivo. (Distanziarsi è una cosa, murarsi vivi tutt’altra.) La testimonianza dal centro di Bologna linkata da Luca nel suo post dimostra che in questi giorni la lettura di Giap aiuta a non calare le braghe di fronte a chiunque abbia una divisa.

È un servizio che continueremo a fornire, almeno finché saremo on line. Ma ora passiamo la parola a Luca. Buona lettura. [WM]

di Luca Casarotti

Questo post è un addendum all’articolo L’emergenza per decreto, pubblicato lo scorso 13 marzo sul sito di Jacobin Italia. Esattamente come i dpcm dell’8, 9 e 11 marzo che ho analizzato in quell’articolo, il decreto del presidente della regione Emilia Romagna emanato mercoledì 18 marzo ha uno scopo essenzialmente retorico, e contiene formulazioni vaghe, addirittura in contraddizione con le premesse stesse dell’atto.

Vediamone passo per passo il breve dispositivo. Art. 1, comma I: «Al fine di evitare assembramenti di persone, sono chiusi al pubblico parchi e giardini pubblici.» Leggendo questa frase ci si rende conto di quanto sia involontariamente (e piuttosto macabramente) ironica: parchi pubblici chiusi al pubblico. Quindi, in pratica, non più pubblici, almeno nella possibilità di fruirne. Al netto di quanto siano rivelatori certi lapsus calami (sarebbe bastato scrivere «parchi e giardini pubblici sono chiusi»), questo è uno dei pochi punti in cui l’ordinanza dispone effettivamente qualcosa che non è già stato disposto altrove, vale a dire nei famigerati dpcm che abbiamo imparato a conoscere dall’inizio dell’emergenza.

La disposizione non fa altro che generalizzare a tutto il territorio regionale le iniziative già assunte da alcuni sindaci Emiliani: ne ha parlato in dettaglio Wolf  Bukowski. Da notare che la norma non è indirizzata alla collettività, come sarebbe accaduto se, ipotizziamo, si fosse invece scelto di introdurre un divieto di frequentare parchi e giardini pubblici. Destinataria della norma è l’autorità: «sono chiusi parchi e giardini», infatti, significa che l’autorità pubblica deve mettere in atto la chiusura e sorvegliare sul suo mantenimento. La scelta è probabilmente consapevole. Intendo dire questo: chi ha scritto la disposizione sapeva benissimo di trovare collaborazione e appoggio nelle amministrazioni locali.

Proseguiamo. Questa è la parte restante dell’art. 1:

«L’uso della bicicletta e lo spostamento a piedi sono consentiti esclusivamente per le motivazioni ammesse per gli spostamenti delle persone fisiche (lavoro, ragioni di salute o altre necessità come gli acquisti di generi alimentari). Nel caso in cui la motivazione sia l’attività motoria (passeggiata per ragioni di salute) o l’uscita con l’animale di compagnia per le sue esigenze fisiologiche, si è obbligati a restare in prossimità della propria abitazione.»

Per quanto la formulazione si sforzi di essere iper dettagliata, con il risultato – come succede quasi sempre in questi casi – di apparire incredibilmente circonvoluta, qui non si dice nulla che non sia già stabilito nell’art. 1, comma 1, lett. a), del Dpcm dell’8 marzo: «Evitare ogni spostamento delle persone fisiche […] salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.»

Anzi, a ben vedere, le ipotesi minute e gli esempi pratici dell’ordinanza di Bonaccini finiscono con il creare ancora più confusione. Perché fare il caso specifico degli spostamenti in bicicletta e a piedi, se poi si ribadisce che questi «sono consentiti esclusivamente per le motivazioni ammesse per gli spostamenti delle persone fisiche»? Bastava già il Dpcm, che vale per ogni «spostamento delle persone fisiche»: a piedi, in bicicletta, in monopattino, su un triciclo e con tutti gli altri mezzi di locomozione. A che pro, allora, quest’esemplificazione?

La risposta è che quest’esemplificazione, guardacaso, addita proprio i comportamenti – uscite in bicicletta, footing, passeggiate con il cane – su cui si è appuntato lo stigma della riprovazione social-giornalistica, e di rimando politica. Bonaccini ha scelto di menzionarli tutti espressamente nella sua ordinanza, e di tradurre in norma dell’ordinamento lo stigma sociale, anche se la norma non fa altro che ribadire quanto già stabilito nel Dpcm dell’8 marzo: è questo lo scopo retorico di cui parlavo all’inizio. Scopo retorico che però ha come effetto una stretta nei controlli: ci arrivo tra un momento.

Altra domanda: cosa vuol dire che «nel caso in cui la motivazione sia l’attività motoria (passeggiata per ragioni di salute) o l’uscita con l’animale di compagnia per le sue esigenze fisiologiche, si è obbligati a restare in prossimità della propria abitazione»? Cosa s’intende per «prossimità»? C’è chi si è sentito dire «100 metri», come nell’impressionante aneddoto raccontato in questo commento, chi «300 metri», come dice quest’articolo di ZIC. Dato che nessuna norma giuridica definisce il concetto di «prossimità» (tant’è che, si legge ancora nell’articolo di ZIC, alcuni sindaci stanno già pensando di stabilire distanze fisse), bisogna intendere il termine nel suo significato comune. Per capirci, questo è il lemma «prossimità» nel dizionario Treccani:

«[dal lat. proximĭtas -atis, der. di proxĭmus «prossimo»]. – Grande vicinanza (nello spazio e, meno com., nel tempo): il clima del paese è mite per la p. del mare; una casa comoda per la p. della stazione (o per la sua p. alla stazione); la p. della scadenza mi dà molta ansia; la p. di una ricorrenza, di una festività etc.»

Un significato, se non del tutto vago, quantomeno variabile in base al contesto. È l’uso di termini dalla denotazione così imprecisa che apre lo spazio alla discrezionalità. E anche al ricorso improprio al diritto penale, come dimostrano le denunce per violazione dell’art. 650 cod. pen. che hanno cominciato a grandinare dall’inizio dell’emergenza, e che – stando a Repubblica – hanno raggiunto l’incredibile cifra di cinquantatremila in otto giorni.

A questo proposito è importante ribadire una cosa. Anche l’art. 1 dell’ordinanza di Bonaccini, nonostante usi l’espressione «si è obbligati a restare in prossimità della propria abitazione», non introduce un divieto la cui violazione integra il reato di cui all’art. 650 del codice penale. Questo perché, come i Dpcm dell’8, 9 e 11 marzo, anche l’ordinanza è formulata in termini generali e astratti, non individuali e concreti. Vale a dire che non è rivolta a una o più persone determinate (come, ad esempio, me o i tre membri del collettivo Wu Ming), e non è stata emanata in circostanze concretamente verificatesi. Si rivolge invece in generale a tutti gli abitanti della regione, e ipotizza preventivamente alcune situazioni che potrebbero verificarsi in concreto. Che potrebbero verificarsi in concreto, non che si sono già verificate.

L’art. 650 c.p., ripetiamolo ancora una volta, punisce la trasgressione ai provvedimenti legalmente dati dall’autorità: e un provvedimento, per essere tale, deve avere, congiuntamente, le caratteristiche dell’individualità e della concretezza. Caratteristiche che l’ordinanza di Bonaccini, generale e astratta, non ha. Sull’uso del diritto penale in quest’emergenza torno a breve, per un’ultima considerazione.

Prima finiamo di esaminare il testo dell’ordinanza. Art. 2:
«Al fine di ulteriormente contrastare le forme di assembramento di persone a tutela della salute pubblica sul territorio regionale, l’apertura degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, […] posti nelle aree di servizio e di rifornimento carburante: a) è consentita lungo la rete autostradale […] e lungo la rete delle strade extraurbane principali […] b) è consentita limitatamente alla fascia oraria che va dalle ore sei alle ore 18 dal lunedì alla domenica, per gli esercizi posti lungo le strade extraurbane secondarie […] c) non è consentita nelle aree di servizio e rifornimento ubicate nei tratti stradali comunque classificati che attraversano centri abitati.»

Trascuriamo i difetti formali, come la precisazione inutile che la fascia oraria di cui alla lettera b) «va […] dal lunedì alla domenica»: per stabilire che la fascia oraria sarebbe valsa 7 giorni su 7 bastava semplicemente scrivere «dalle ore 6 alle ore 18», senza aggiungere altro; o al più «tutti i giorni dalle ore 6 alle ore 18». Come mai Bonaccini ha imposto un divieto di apertura a bar e simili nelle stazioni di servizio dei centri abitati?

Nel preambolo del decreto, la misura è motivata così:
«la ratio della deroga disposta per gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande posti nelle aree di servizio e rifornimento carburante situati lungo la rete stradale per tali esercizi dal DPCM dell’11 marzo [risiede] nella possibilità di offrire un ristoro a coloro che per ragioni di lavoro si trovino ad affrontare viaggi a lunga percorrenza.»
E questa deroga, continua il preambolo, non è ritenuta «giustificabile per gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande posti nelle aree di servizio e rifornimento carburante posti all’interno dei centri abitati che viceversa si prestano ad essere luoghi di aggregazione e di potenziale contagio, parimenti a quelli per cui è già stata disposta la chiusura con il richiamato DPCM.»

A me sembra che la misura adottata non sia logicamente consequenziale alla motivazione che ne viene data. Nel preambolo del decreto di Bonaccini si dice che la ragione per cui il DPCM dell’11 marzo ha mantenuto aperti i bar delle stazioni di servizio è offrire un punto di ristoro a chi affronta lunghi viaggi lavorativi: eppure, per effetto dello stesso decreto di Bonaccini, chi per lavoro attraversa l’Emilia Romagna deve farsi anche carico di trovare un bar aperto fuori dai centri abitati, prendendo magari strade che non c’entrano nulla con il suo itinerario. Tutto ciò, da notare, è fondato su un «si prestano»: che è il modo con cui la lingua normativa dice «non si sa se sia davvero così, ma nel dubbio meglio ordinare». Il principio di precauzione è giusto, nessuno lo mette in dubbio: ma sarebbe altrettanto giusto che le basi di una restrizione fossero più solide di un «si prestano» e di un «potenziale».

Anche qui, il decreto vuole soprattutto dare un’impressione: quella che il presidente della regione non sta a guardare, ma prende iniziative, affronta di petto le pessime abitudini dei cittadini, dà giri di vite.

L’art. 3 del decreto è una disposizione finale, che stabilisce la durata delle misure dal 19 marzo al 3 aprile.

Torno, per concludere, al ruolo del diritto penale nell’emergenza. In questi giorni, chi dovesse sintonizzarsi su Sky TG24 vedrebbe di tanto in tanto apparire in sovraimpressione una scritta che recita, vado a memoria: «le violazioni sono reati e precedenti penali». È un esempio perfetto di come l’emergenza usa il diritto penale. Quella scritta ci vuole convincere che esiste una sorta di passaggio immediato tra la contestazione di una violazione e l’avere un precedente a carico. Nel messaggio ipersemplificato che domina il discorso pubblico, e di cui la scritta di Sky TG24 è la sintesi brutale, pare che alla denuncia segua necessariamente il precedente penale: niente diritto di difesa, niente diritto al processo. Violazione = denuncia = sanzione. Sulla fondatezza delle denunce, sull’effettiva configurabilità dei reati contestati sono ancora in pochi a interrogarsi.

Ripetiamolo di nuovo, a scanso di equivoci. La diffusività del virus e il bisogno di cautelare sé stessi e gli altri non sono in discussione. Il punto è questo: abbiamo già, e ragionevolmente, paura per la nostra salute. Così come temiamo, altrettanto ragionevolmente, le conseguenze fisiche e psicologiche delle misure di contenimento. Quest’ubiquità del diritto penale, in cui pare che dobbiamo incorrere a ogni nostro movimento, serve solo a gettarci ancor più nel panico, ma non ci è di nessun aiuto nell’affrontare il contagio in modo razionale.

Si tratta, in definitiva, di non accettare l’idea che i governati debbano essere tenuti in stato di minorità, minacciandoli per ogni loro comportamento di una sanzione criminale, nella convinzione che altrimenti non obbediscano. Ma si tratta anche, se vogliamo, di riservare al diritto penale la funzione che dev’essergli propria: quella di extrema ratio, con cui punire solo i comportamenti realmente offensivi.

Un principio elementare che, da due secoli, non i critici del diritto, ma tutti i giuristi, almeno a parole, sono d’accordo nell’affermare.

[Aggiornamento: in fondo a questo stesso post, Luca Casarotti commenta la circolare ministeriale uscita la sera del 21 marzo, che recepisce il contenuto di ordinanze come quella appena commentata. Luca segnala anche le prese di posizione di alcuni importanti giuristi sulle denunce appioppate in questi giorni.]

Una testimonianza di Wu Ming 2

Stamattina, portato a passeggio dal mio cane, sono passato di fianco a un gruppo di finanzieri che controllavano un vecchio. Mentre Scotty cagava, mi sono fermato ad ascoltare. Gli contestavano di non essere in prossimità della sua abitazione: aveva camminato per un chilometro. Il vecchio ribatteva che se prendi l’auto e vai a 60 all’ora dove c’è il limite dei 50, sai di aver commesso un’infrazione. Ma se uno ti dice di rimanere «in prossimità» della tua abitazione, come c’è scritto nell’ultimo decreto del governatore Bunazzén, come fai a sapere dove inizi a trasgredire il divieto? Si può multare uno che non può sapere se sta violando la legge?

I finanzieri gli hanno attaccato il pippone sui posti in terapia intensiva che rischiano di implodere, a causa di gente che non rispetta le regole. Il vecchio ha risposto dicendo che lui lo metterebbe volentieri per iscritto, che se sta male per il virus non lo devono neanche curare, così non prende il posto a nessuno. – Ho 83 anni, – ha insistito. – E non speravo nemmeno d’arrivarci, a quest’età. Se il tempo in più che mi è concesso devo viverlo così, tappato in casa, da solo, tanto vale che crepo.

I finanzieri lo hanno lasciato andare: – Per stavolta passi, ma d’ora in poi rimanga nelle strade sotto casa sua. – Il vecchio ha risposto: – Sì, sì, – come si fa per dare ragione a un rompicoglioni. Ha intrecciato le mani dietro la schiena e ha invertito la rotta della sua passeggiata.

Il portico, peraltro, era più affollato del solito. Non certo un assembramento, ma più gente rispetto all’ultima volta che c’ero passato, circa una settimana fa. Prima di allora, i parchi erano aperti, e il cane lo portavo ai giardini. Poi li hanno chiusi, e il cane lo portavo in un bosco segreto dietro la facoltà di Chimica Industriale. Poi il portiere della facoltà mi ha detto che non si poteva, e il giorno dopo hanno chiuso il cancello e affisso un cartello «Vietato l’ingresso ai cani». Ora il portico è diventato il luogo dove la maggior parte delle persone del quartiere si fa passeggiare dal proprio cane.

Coi parchi aperti, c’era meno fitto.

E infine… Quarantena Molotov!

Nei giorni in cui qualunque uscita di casa diventa un’escursione, in diversi casi pure rischiosa, Alpinismo Molotov racconta la sopravvivenza anti-emergenziale di una minima pratica conflittuale: camminare.

«In questo contesto quelle che in altra situazione sarebbero normalissime passeggiate diventano “altro”, diventano vere e proprie escursioni molotov. Anzi, in questo scenario di parchi chiusi, controlli e barriere, è possibile che siano le uscite più molotov che ci sia mai capitato di fare. In fondo “[…] l’alpinismo è ‘molotov’ nella misura in cui fa emergere nuove contraddizioni e nuovi strumenti concettuali, narrativi cognitivi per affrontarle. Si va in montagna per tornare con “nuove armi” da sfoderare nella nostra quotidianità Si va in montagna consapevoli che si procede sempre in bilico”. (cfr. il manifesto di Alpinismo Molotov).
Mai come in questo momento abbiamo bisogno di far “emergere nuove contraddizioni” e dotarci di “nuovi strumenti, concettuali – narrativi – cognitivi”.
Da qui l’idea di raccontare le nostre escursioni – poco importa se di chilometri lungo fossi o di poche centinaia di metri per fare la spesa – nel tentativo di inquadrare da prospettive oblique quel che ci circonda e restituire ex post, almeno nel racconto, la dimensione collettiva di quel procedere a passo oratorio che oggi ci è negata.»

Aggiornamento, 21/03/2020

di Luca Casarotti

Nella serata di venerdì 20 marzo è stata emanata un’ordinanza del ministero della salute che ricalca nella sostanza il contenuto del decreto Bonaccini, e di quelli analoghi adottati in altre regioni.

Era prevedibile. L’unico dubbio riguardava la fonte che sarebbe stata scelta per estendere su tutto il territorio statale le restrizioni volute dalle regioni. Alla fine non si è optato per un nuovo Dpcm, ma per un’ordinanza ministeriale, efficace dal 21 al 25 marzo. Ma dato che le altre misure di cui è disposta l’efficacia fino al 25 marzo (cioè la chiusura delle attività commerciali stabilita dal dpcm dell’11 marzo) verranno quasi certamente prorogate, verrà quasi certamente prorogata anche quest’ordinanza.

Ordinanza che non fa le esemplificazioni minute in cui si diffonde il decreto Bonaccini (uscite in bicicletta, passeggiate con il cane e via elencando le cause dell’indignazione social-giornalistico-politica). Il lessico del ministero è più asciutto, più astratto di quello della presidenza dell’Emilia Romagna. Ecco cosa dispone l’ordinanza (art. 1):

«a) è vietato l’accesso del pubblico ai parchi, alle ville, alle aree gioco e ai giardini pubblici; b) non è consentito svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto; resta consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona; c) sono chiusi gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, posti all’interno delle stazioni ferroviarie e lacustri, nonché nelle aree di servizio e rifornimento carburante, con esclusione di quelli situati lungo le autostrade, che possono vendere solo prodotti da asporto da consumarsi al di fuori dei locali; restano aperti quelli siti negli ospedali e negli aeroporti, con obbligo di assicurare in ogni caso il rispetto della distanza interpersonale di almeno un metro; d) nei giorni festivi e prefestivi, nonché in quegli altri che immediatamente precedono o seguono tali giorni, è vietato ogni spostamento verso abitazioni diverse da quella principale, comprese le seconde case utilizzate per vacanza.»

Il decreto Bonaccini ordina la chiusura di parchi e giardini pubblici. L’ordinanza ministeriale vieta invece di accedervi. Divieto senza sanzione, come al solito. Con la conseguenza che, anche in questo caso, una contestazione dell’art. 650 del codice penale per la trasgressione al divieto non può essere fondata. La lettera b) ha un contenuto in tutto e per tutto identico a quello del decreto Bonaccini. Stesso divieto senza sanzione, la cui trasgressione quindi non integra l’art. 650 c.p., e stessa formulazione indeterminata (in prossimità della propria abitazione).

Intanto, giuristi autorevoli hanno preso posizione sulla fondatezza delle denunce. Questi, ad esempio, sono alcuni passaggi di un articolo di Gian Luigi Gatta (professore ordinario di diritto penale e direttore del dipartimento di scienze giuridiche alla Statale di Milano), apparso sulla rivista Sistema Penale:

«come giuristi non possiamo fare a meno di riflettere su ciò che stiamo vivendo, in termini di limitazioni di diritti e libertà fondamentali: è qualcosa di semplicemente inimmaginabile in uno stato di diritto, in condizioni normali […]: la tenuta dello stato di diritto, anche di fronte all’emergenza, richiede infatti limiti e controlli al potere del Governo di incidere restrittivamente su diritti e libertà fondamentali. […] Nell’introdurre svariate limitazioni, i dpcm hanno sempre richiamato il d.l. n. 6/2020. Senonché, a mio avviso, è lecito dubitare che quel decreto-legge rappresenti effettivamente una valida base legale. il giudice penale ben potrebbe dubitare della legittimità dei provvedimenti adottati con DPCM, al di fuori delle originarie zone-rosse (istituite all’epoca del d.l. n. 6/2020) […]. Il giudice penale potrebbe allora ritenere illegittimo il provvedimento la cui inosservanza si contesta all’imputato e, di conseguenza, disapplicarlo e pronunciare un’assoluzione. Oppure potrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale.»

P.S. Nei commenti qui sotto, Luca si occupa anche dell’ordinanza del Friuli-Venezia Giulia, «totalmente priva di senso giuridico».

 

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