La malattia, fuor di metafora

In questi giorni spaventosi, “notturni”, ci è venuto spontaneo e ci è sembrato utile riguardare a quel capolavoro del pensiero e della scrittura che è “Malattia come metafora” di Susan Sontag (1978). In particolare, crediamo sia interessante rileggere questo passaggio dell’introduzione che Sontag fa al suo saggio, proprio perché ci sembra che riguardi molte delle circostanze che stiamo vivendo, con particolare riferimento all’uso del linguaggio, agli stereotipi, alle figure e ai codici che giorno per giorno tanto l’informazione quanto altri tipi di comunicazione – da quella della politica ufficiale, a quella degli scambi privati – stanno mettendo in campo:

«La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese. Io intendo descrivere non la realtà dell’emigrare nel regno della malattia e del viverci, ma le fantasie punitive o sentimentali inventate su questa situazione; non una geografia reale, ma stereotipi di carattere nazionale. Il mio tema non è dunque la malattia fisica in sé, ma i modi in cui la malattia viene usata come figura o come metafora. La mia tesi è che la malattia non è una metafora, e che la maniera più corretta di considerarla – e la maniera più sana di esser malati — è quella più libera da pensieri metaforici e ad essi più resistente. Tuttavia è quasi impossibile prendere residenza nel regno dello star male senza essere influenzati dalle impressionanti metafore con le quali è stato tratteggiato. È a una delucidazione di tali metafore, e a una liberazione da esse, che io dedico questa indagine.».

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Susan Sontag, Illness as Metaphor

Ci sembra un invito, quello di Sontag, ad abitare la malattia abbandonando la tendenza a dislocarne l’esperienza in ambiti discorsivi che ne tradiscono il senso. In particolare, al posto del linguaggio bellico che domina la narrazione della lotta a questa epidemia, sarebbero necessarie parole di relazione, cura, responsabilità. Parole che rovescino, anziché rafforzare, la metafora (maschile, eroica) della guerra, soprattutto in vista del compito immenso di ricostruzione che abbiamo di fronte.

 

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