Ci sono momenti nella storia in cui sopraggiunge un evento inaspettato, capace di segnare un prima e un dopo il suo arrivo. Il “cigno nero” che si è presentato nelle vesti del Coronavirus sta rapidamente rimettendo in discussione tutti i pilastri sui quali si fondava la nostra società. Già nei giorni scorsi, a più riprese, abbiamo sottolineato come per far fronte all’emergenza, in pochi giorni siano saltate tutte le regole economiche che ci avevano fatto credere essere immutabili ed eterne. Il pareggio di bilancio non è più un limite “invalicabile”, le assunzioni di massa, certo precarie e non garantite, nella pubblica amministrazione diventano una necessità e il sistema pubblico, da “male assoluto”, diventa un paradiso di “angeli” ed eroi in prima linea per la difesa della salute collettiva.
Vogliamo però qui concentrarci su un’altra ricaduta di questa crisi. Siamo convinti che, oltre a far emergere la profonda inadeguatezza di questo sistema politico ed economico a garantire la salute ed il benessere di larghe fette della popolazione, in questi giorni sia emersa con forza la crisi di valori in cui è sprofondato il capitalismo, in particolar modo quello occidentale.
In questi anni, la nostra generazione è stata bombardata da un racconto del mondo, della vita e del futuro fondato su un individualismo sfrenato, dove il successo individuale ha prevalso su ogni aspetto comune e collettivo, la smania del successo lavorativo e del guadagno hanno reso la competizione la relazione sociale dominante. L’ elevazione a dio unico del profitto ha reso la società indifesa sul piano ideologico, con una ricaduta non solo sull’assenza di un comportamento civico adeguato, ma anche sulla struttura stessa che abbiamo a disposizione per far fronte alla crisi. Prova ne è che l’industria italiana, riorganizzata per massimizzare i profitti e la competitività della classe imprenditoriale nostrana e non per rispondere agli interessi dell’intera collettività, sta dimostrando tutta la sua insufficienza nella produzione di respiratori, mascherine di protezione, disinfettanti e tutto quello che potrebbe rendere meno drammatica la situazione. Che cosa e perché produrlo, non sono solo meccanicamente il risultato di una dinamica economica industriale ma anche il prodotto di uno schema ideologico.
La costruzione di una società basata sul profitto e non sul benessere e il progresso dell’umanità non è metafisica, ma è una operazione che riguarda la vita di tutti i giorni di milioni di persone a partire dai banchi di scuola fino ad arrivare nei letti degli ospedali, dove i nostri nonni muoiono soli, oggi per il virus, ieri perché troppo spesso non si ha più tempo e spazio per assistere chi per questa società diventa solo un costo.
Ad un primo livello lo vediamo nella scuola superiore in cui con l’alternanza scuola lavoro, per esempio, lo studente diventa semplicemente un prodotto finalizzato, non a potenziare il progresso collettivo della società, ma a vendersi meglio nel mercato del lavoro. Poi lo notiamo nelle università in cui i compagni di corso, da compagni di studio e ricerca sono diventati negli anni soltanto ostacoli, competitori nella corsa verso il raggiungimento di una delle poche borse di dottorato in circolazione, da sconfiggere a suon di crediti e di riconoscimenti. Quando arriviamo nel mondo del lavoro poi la competizione diviene l’unica regola ammessa. Competizione, spesso involontaria, al ribasso con i colleghi per non essere licenziati o per ottenere finalmente una condizione di lavoro non più precaria, competizione nei settori a maggior livello di formazione tecnico-scientifica all’interno della quale la scienza non viene finalizzata all’aumento delle conoscenze dell’umanità, ma per massimizzare i profitti e garantire la carriera dei pochi eletti a padroni delle conoscenze storicamente prodotte dal progresso umano. Una competizione all’ultimo sangue che permea l’intera gamma di relazioni umane, dai luoghi della “produzione” a quella della riproduzione, imponendo ritmi talmente serrati da generare un rifiuto per tutte quelle rivendicazioni che esulano dall’immediato, rimuovendo i problemi di prospettiva e instaurando una dittatura del presente.
È ovviamente una competizione sfalsata, poco “sportiva”, in cui competono direttamente tra loro “pesi piuma” e “pesi massimi”. In una società in cui la divisione per classi determina un enorme differenziazione dei punti di partenza e delle possibilità, i punti di partenza nella competizione sono ovviamente molto diversi. Chi ha più possibilità per famiglia, posizione economica e sociale, al di là dei propri meriti manterrà una posizione più in alto nella piramide rispetto a chi non è partito dalle stesse condizioni, con buona pace della tanto millantata “meritocrazia.”
I valori, quali individualismo, meritocrazia, competitività ecc. che ci spacciano per “naturali” come le leggi fisiche o chimiche, sono solo i valori promossi da un ordinamento sociale storicamente determinato e quindi mutevoli, passibili di cambiamenti e di eliminazione. Il dogma tatcheriano “la società non esiste, esistono solo gli individui” non è un’assunzione scientifica di fatto ma è la posizione ideologica di una classe che domina su un’altra, considerando i propri valori come naturalmente dati e non come socialmente costruiti.
E la storia ce lo dimostra. Il Covid19 ha accelerato enormemente il processo di messa a nudo dell’inadeguatezza dei valori dominanti, il loro essere intrinsecamente antagonisti al progresso collettivo umano, nonché in taluni casi alla stessa sopravvivenza della specie.
Abbiamo visto tutti nei giorni scorsi la “corsa” agli aperitivi, le feste e gli eventi mantenute in piena epidemia che hanno contribuito ad accelerare la diffusione del virus. A differenza dell’indignazione dei cultori del “senso civico” tali comportamenti per noi non hanno altro che dimostrato quanto veleno è stato sparso nelle menti da quelli stessi che oggi si stupiscono “dell’indisciplina “con cui molti stanno vivendo questa situazione. Comportamenti che sono il frutto della stessa ideologia della criminale decisione di mantenere aperti gli impianti di produzioni non necessarie, sia mai che il dio profitto ne risenta, o con le dichiarazioni illuminanti del governo inglese che pur di non mandare in crisi il ciclo del capitale ha apertamente invitato il suo popolo a “farsene una ragione” se migliaia di persone moriranno. The show must go on.
C’è una lampante contraddizione infatti nel messaggio che ci arriva dalle istituzioni a reti unificate, una contraddizione implicitamente nota al governo il quale infatti ha accentuato il carattere repressivo perché in ogni caso non si metta in discussione il manovratore. Da un lato subiamo la pressione materializzatasi nella prima fase dell’emergenza italiana con il motto #MilanoNonSiFerma e ancora oggi con il giubilo di Boccia (presidente di Confindustria) che si vanta di aver mandato avanti la produzione continuando a far uscire di casa milioni di lavoratori, e dall’altro lato scaricano sui singoli la colpevolizzazione estrema del comportamento individuale rappresentato dall’hashtag #iorestoacasa, come nel caso estremo del senzatetto che in questi giorni di lockdown si fosse fatto trovare a vagare per la propria città (e in questi giorni le denunce penali di questo tipo non sono mancate agli oneri della cronaca).
Solo una razionalizzazione cosciente della complessità della crisi scaturita dalla grave emergenza del coronavirus potrebbe permettere alla società nel suo complesso di non passare da atteggiamenti di erronea sdrammatizzazione ad atteggiamenti potenzialmente paranoici, adottando collettivamente nel pieno di questa crisi uno stile di vita rigido, limitato ma sensato: ma questa razionalizzazione non è nelle corde delle nostre classi dirigenti, perché significherebbe prima di tutto mettere in discussione l’impalcatura costruita in questi anni e che ora perde pezzi i cui cocci vanno velocemente messi sotto il tappeto. Per loro è meglio nascondere la drammatica situazione generata dai tagli lineari ai servizi sanitari nei nostri Paesi che in caso di forte estensione dell’epidemia collasserebbero, e far ricadere la prevenzione del contagio tutta sul dibattito tra la scelta individuale di indossare o meno la mascherina negli spostamenti tra casa e supermercato. Restare giustamente a casa, magari con amuchina e guanti in lattice sul tavolo, e vedere i genitori uscire la mattina per andare in fabbrica non permette una razionalizzazione di quanto sta accadendo se non si esplicita la contraddizione insita in questa situazione che ci hanno imposto.
La perdita di autonomia politica, la rinuncia della ricerca di una alternativa possibile e in ultimo l’asservimento materiale e ideologico delle principali forze organizzate della sinistra sia politica che sindacale e sociale hanno reso possibile lo sfondamento ideologico anche tra ampissimi strati della “nostra” gente. Ampi settori di lavoro garantito, ma in generale di classi subalterne, sono oggi ideologicamente corresponsabili di questa situazione. Lo sono state prima con la rinuncia al conflitto in difesa dei diritti acquisiti nei cicli di lotte che hanno attraversato il ‘900 e lo sono tutt’ora nella continua accettazione supina dello status quo, attraverso l’identificazione di falsi responsabili della propria condizione di asservimento.
Affinché i costi di questa ulteriore crisi non producano un nuovo massacro sociale e si apra una nuova stagione di messa in discussione dell’intero sistema criminale in cui viviamo, è fondamentale aprire una grande campagna di lotta ideologica e valoriale contro questo sistema e la classe che lo rappresenta. Le giovani generazioni e gli studenti che sono nati all’interno della crisi e che oggi stanno vivendo questi giorni epocali, sono il punto di partenza su cui avviare una profonda fase di riflessione e rimessa in discussione non solo delle ricadute materiali della crisi, ma dei valori e dell’impianto ideologico su cui si regge il presente. Il futuro non può nascere senza una spinta anche di natura ideale, oltre che materiale, diversa.