19 aprile 2020.
Il diritto all’interruzione di gravidanza messo in discussione dal coronavirus
«Ho passato l’ultimo giorno utile prima del decreto che ci ha bloccati a casa, a tentare di contattare telefonicamente, invano, consultori e ospedali. Il giorno dopo sarei dovuta andare di persona, ma non è più stato possibile. Gli unici che mi hanno risposto non hanno più il reparto di ginecologia».
«Il mio medico di base non vuole farmi il certificato necessario per l’aborto, il mio ginecologo privato è obiettore, il consultorio del mio paese è chiuso, a quello della città vicina che dovrebbe essere aperto per emergenze non risponde mai nessuno».
Servizi trasferiti, consultori chiusi, linee telefoniche non operative o intasate: abortire durante l’emergenza coronavirus in Italia è diventato per molte donne una vera e propria corsa a ostacoli contro il tempo, nonostante l’interruzione volontaria di gravidanza rientri tra le prestazioni sanitarie dichiarate indifferibili e urgenti dal ministero della Sanità.
In un Paese in cui, secondo gli ultimi dati disponibili, l’obiezione di coscienza dei ginecologi sfiora il 70%, interrompere una gravidanza non è mai semplice, ma ora che i presidi sanitari sono alle prese con la lotta al Covid19 emergono in maniera ancora più evidente tutti i problemi e le contraddizioni con cui si scontrano le donne che scelgono l’aborto.
Le testimonianze riportate sono alcune tra le tante ricevute in queste settimane dal gruppo “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, una realtà che promuove l’autodeterminazione e la corretta informazione in merito alla contraccezione e alla interruzione volontaria di gravidanza.
«Le donne ci contattano – spiega la psicologa Federica di Martino, una delle coordinatrici del progetto – perché in molti ospedali gli aborti sono stati sospesi o trasferiti in altri centri sanitari a causa dell’emergenza. Fanno fatica ad avere informazioni perché alle linee telefoniche spesso non risponde nessuno, neanche nei consultori, dove il servizio è stato ridotto o addirittura sospeso».
«Prima ricevevamo una chiamata a settimana ora sei o sette al giorno»
«La mancanza di autonomia delle donne e la messa in discussione della loro autodeterminazione quando si ritrovano a scegliere per il proprio corpo sono state portate al limite in questo momento di crisi per il coronavirus», afferma Eleonora Mizzoni, responsabile delle chiamate d’emergenza per “Obiezione Respinta”, progetto femminista che mette a disposizione una mappa sempre aggiornata sull’obiezione di coscienza tra ospedali, farmacie e studi privati. «Se prima ricevevamo una chiamata alla settimana, ora ce ne arrivano almeno sei, sette al giorno. Noi facciamo da sostegno e supporto perché in Italia non esistono informazioni pubbliche su dove si rischia di incontrare obiettori e ora che i servizi dei consultori sono diminuiti non hanno punti di riferimento».
Trovare le informazioni necessarie, capire quale presidio sanitario è disponibile ed eventualmente spostarsi lontano da casa, a
ccorcia drasticamente i tempi già molto ristretti in cui è possibile ricorrere all’aborto, con conseguenze sia fisiche che psicologiche per le donne che attendono di poter interrompere la gravidanza, in particolare se si trovano in situazioni vulnerabili, come nei casi di violenza domestica. Per questo motivo medici, volontarie e attiviste che si battono per l’applicazione della legge 194 si sono mobilitate per venire loro incontro.
“Ivg, ho abortito e sto benissimo” e “Obiezione Respinta” hanno attivato un canale Telegram chiamato “Sos Aborto COVID-19” dovesi possono trovare tutte le segnalazioni utili da ogni parte d’Italia su quali ospedali praticano l’aborto, con tanto di indirizzi, orari e numeri di telefono.
Appello: diffusione della pillola RU486 senza ricovero e passare da 7 a 9 settimane il limite per abortire
Queste due realtà insieme alla rete femminista “Non una di meno” hanno anche lanciato un appello alle istituzioni con quattro richieste specifiche: eliminare la settimana di riflessione prevista per legge che va ad aggiungersi ai tempi di attesa per ricorrere all’aborto; la possibilità di praticare l’aborto farmacologico tramite la pillola RU486 nei consultori e non solo negli ospedali; allungare la possibilità di abortire con la RU486 da sette a nove settimane come negli altri Paesi europei; rifinanziare i consultori, presidi fondamentali per la salute riproduttiva delle donne.
Favorire l’aborto farmacologico rispetto a quello chirurgico è la richiesta portata avanti anche dall’associazione Luca Coscioni per le libertà civili e dalle società scientifiche di Ginecologia e Ostetricia, per «decongestionare gli ospedali, alleggerire l’impegno degli anestesisti e l’occupazione delle sale operatorie», come si legge sul sito dell’Aogoi, l’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani, che chiede anche un ricorso maggiore alla telemedicina, per tutelare soprattutto «le donne che vivono in condizioni di alta marginalità e vulnerabilità».
La telemedicina prevede la possibilità di ricorrere ai servizi sanitari da remoto, una soluzione che in questo periodo alleggerirebbe il lavoro dei medici in ospedale e al contempo tutelerebbe le donne che hanno difficoltà a spostarsi da casa. «L’Italia è l’unico Paese in Europa – spiega Eleonora Mizzoni di Obiezione Respinta –che richiede il ricovero ospedaliero per l’aborto farmacologico, neanche l’Organizzazione mondiale della sanità lo prevede».
«L’obbligo di ricovero è folle, soprattutto in questo momento in cui per via del Covid si cerca il più possibile di non andare in ospedale», dichiara Mirella Parachini, ginecologa che lavora all’Asl di Roma ed è tra le fondatrici di Amica, Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto che promuove due petizioni per favorire e migliorare la pratica dell’aborto farmacologico. «Il rischio è quello di superare il limite delle sette settimane, che da tempo chiediamo di protrarre fino a nove. Il coronavirus ha dato un motivo in più per giustificare le nostre richieste».
L’infinita battaglia contro la 194
Insomma, anche se ancora non ci sono dati (li sta raccogliendo online con un questionario per addetti ai lavori la Rica, Rete Italiana Contraccezione Aborto), appare evidente come questo periodo di emergenza abbia teso ancora di più la corda tra chi si batte per la libera scelta delle donne e un sistema che scoraggia la loro autodeterminazione nonostante l’esistenza di una legge che la tutela in linea teorica ma che troppo spesso non viene applicata.
«La pratica dell’aborto in Italia si regge già sul volontariato perché la battaglia contro la 194 è ininterrotta, insistente e drammatica», afferma senza mezzi termini Elisabetta Canitano, ginecologa in pensione che collabora al progetto “Ivg, ho abortito e sto benissimo” e ha fondato l’associazione Vita diDonna per la salute femminile, che ha sede nella Casa internazionale delle Donne di Roma. «I medici e le ostetriche che decidono di non obiettare sono già persone che combattono e paradossalmente l’emergenza Covid le trova già pronte a superare gli ostacoli. Perciò i servizi che già si basavano sulla ferma intenzione degli operatori di proteggere la libertà di scelta delle donne vanno avanti e procedono, anche se tra le difficoltà, reggono. Sono abituati a lottare. Al contempo chi era già in difficoltà, ora lo è ancora di più».
Benedetta Pintus
(foto da IVG, Ho abortito e sto benissimo)