Correva l’anno 2020. Tra una puntata di Sanremo e la terza notizia al TG entrava nelle
case italiane la parola Coronavirus.
di Dafne Anastasi
Correva l’anno 2020. Tra una puntata di Sanremo e la terza notizia al TG entrava nelle case italiane la parola Coronavirus. Ci entrava come un qualcosa di esotico, legato alle barbare abitudini di un mondo lontano. Il primo approccio degli italiani è un misto tra l’indifferenza e la paura del cinese. Mannaggia, e ora come si fa con gli acquisti a prezzo stracciato? Ma si. Evitiamoli. Anzi, evitiamo proprio i cinesi! I cinesi in Italia, se ne fregano del tam tam razzista che corre sui social, si chiudono in casa e abbassano le saracinesche, senza bisogno che nessuno dica loro cosa fare o lo imponga a colpi di Decreto.
Una marea di polemiche con la Cina: voli chiusi si, voli chiusi no. Voli chiusi si, ma solo i diretti.
Rilevante in questa fase il ruolo dei cosiddetti “esperti” e l’oscillazione tra la crudezza della denuncia di alcuni e la sottovalutazione di altri, che parlano di semplice influenza. Il fatalismo italiano e l’acchiappa click da bastian contrario di certa stampa trovano i loro guru della disinformazione rallentando in maniera criminale la formazione di un pensiero collettivo corretto.
Il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri, dopo la decisione dell’Organizzazione mondiale della Sanità, delibera lo Stato di emergenza per 6 mesi. Il Ministero della salute emana le Circolari meno lette e applicate nella Storia della Repubblica. Vengono notificate agli Enti istituzionali e alle associazioni di categoria le indicazioni operative per i datori di lavoro, i protocolli da adottare e i dispositivi di protezione da fornire. Rimane tutto lettera morta. Si fa tutta una pedagogia sul lavaggio delle mani, magari mentre nei luoghi pubblici e di lavoro manca persino il sapone, ma, su tutti gli altri punti su cui puntare attenzione, inerzia assoluta. Nessuno vigila sulla presa in carico e la concreta applicazione delle circolari ministeriali.
La perfezione apparente delle carte bollate si somma alla cronica disaffezione dei datori di lavoro che vedono la sicurezza come un costo.
Scoppia il caso Codogno. Il virus è arrivato in Italia. La certezza del contagio si ha solo grazie a un’anestesista coraggiosa e testarda che, riscontrando la persistenza dei sintomi sul paziente che ha in cura, insiste sotto la sua personale responsabilità per approfondire e fare il primo tampone. Positivo. Si scoprirà solo dopo che negli stessi giorni parallelamente vi era un altro ospedale in cui il virus era arrivato. Alzano Lombardo, trasformatosi poi in un vero e proprio focolaio. Ma questa è un’altra storia. Già in mano alle Procure.
Paziente zero, no scusate uno, paziente uno. Ammappela, però, quanti amici e che vita sociale che aveva questo. Inizia la tendenza vouyeuristica sul COVID 19 che poi avrebbe caratterizzato tutto il periodo della pandemia in Italia.
La conta dei morti inizia, ma erano già malati, o erano già anziani, “non si muore per ma si muore con” e vai di mistificazioni, poi smentite dalla violenza delle tempeste polmonari di reazione al virus proprio sui più giovani e sani.
Nel frattempo alcuni sindacati, che le Circolari Ministeriali se le leggono eccome, avevano iniziano le battaglie sulla sicurezza anti covid 19 nei posti di lavoro. Chiedono esattamente quello che le Circolari prevedevano. Si scontrano con l’arroganza datoriale, vengono presi per esagerati, allarmisti, portasfiga, protettori dei lavoratori che con la scusa del virus non vogliono lavorare. Esagerati! La Sanità preda di appetiti mafiosi, anni di tagli e privatizzazioni vacilla ogni giorno che passa. Il pensiero inizia a correre alla inadeguatezza dei posti per la terapia intensiva in caso di contagio contemporaneo massivo. Dei dispositivi di protezione neanche l’ombra e ci sta pure qualche genio della lampada che dice che creano allarmismo. Iniziano a circolare le note interne che minacciano procedimenti disciplinari a chi parla con la stampa o a chi ha solo l’ardire di raccontare la mancanza di dispositivi di protezione o la schizofrenia dei protocolli adottati. Inizia a verificarsi quello che alcuni esperti, quelli veri, temevano: gli ospedali diventano essi stessi luoghi di contagio. Nel frattempo all’estero cancellano i voli da e per l’Italia. E giù polemiche! Ma come si permettono.
Il Governo istituisce la zona rossa in alcuni comuni, non si entra e non si esce. I militari a ricordarglielo. Codogno che, suo malgrado dopo il deragliamento del TAV era diventata il centro di interscambio ferroviario tra la Lombardia e l’Emilia Romagna, balza agli onori della cronaca.
Siamo tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo. I giorni decisivi per la Lombardia, che pagherà il prezzo della sua operosità e del culto dell’immagine da prima della classe pompato da una classe dirigente irresponsabile e cinica che unisce la “sinistra” radicalsptritz alla Lega, che ha fatto della privatizzazione e dell’eccellenza sanitaria lombarda il suo cavallo di battaglia. Il connubio del disastro.
Il Sindaco di Milano Beppe Sala lancia la campagna Milano non si ferma, Zingaretti organizza gli aperitivi sui Navigli, il Sindaco di Bergamo lancia il biglietto a un euro e mezzo sui mezzi pubblici, Confindustria a Bergamo lancia un video per dire che è tutto sotto controllo, non vorrete mica far spaventare gli investitori stranieri!
A Bergamo e Brescia sale vertiginosamente la curva dei contagi, ma gli industriali premono per non chiudere. La zona rossa non verrà mai più fatta e il cimitero di Bergamo non avrà più posto. L’Esercito che doveva arrivare per fare i check point di ingresso e uscita arriverà, settimane dopo, per portare via le bare.
Chiudono Scuole e Università, ti viene scritto per decreto, zona dopo zona e con tanto di sanzione penale in caso di inottemperanza di provvedimento dell’Autorità, che non devi muoverti di casa perché sto virus ha due fattori insieme che lo rendono pericoloso: asintomaticità e diffusività.
Mentre tutto intorno chiude progressivamente, arrivando il 9 marzo a creare una immensa zona rossa domiciliare in tutta Italia, quello che non si ferma è la produzione. Iniziano i primi scioperi selvaggi. Le lavoratrici e i lavoratori scioperano per non rischiare di ammalarsi. I sindacati di base chiedono il blocco della produzione non essenziale e la chiusura degli Uffici Pubblici, che in piena continuità con tutto il resto del mondo del lavoro, non rispettano neanche loro le misure di sicurezza. Lo smart working viene utilizzato come foglia di fico dal Governo sugli Uffici pubblici, che naturalmente riescono mediamente a gestire il tutto sotto la forma multifantasista del caos burocratico e dell’immancabile pezzettino di potere al Dirigente di turno. Arriviamo all’11 marzo e al DPCM che per primo disciplina il tema delle attività lavorative. Confindustria rivendica nei titoloni dei giornali di aver trovato col Governo la mediazione delle comprovate esigenze lavorative, poi finite nel modulo delle autocertificazioni consentendo, non solo di scaricare ancora una volta sulle lavoratrici e i lavoratori la responsabilità di motivare davanti alla forza pubblica il superamento del divieto di uscire di casa, ma anche di non avere una tracciabilità reale sui dati legati al mondo del lavoro.
Stiamo tutti a casa, dicono i TG. Tutti tranne milioni di lavoratrici e lavoratori. La tarda serata del 21 marzo non soffia la Primavera: soffia l’alito pesante di Confindustria che fa pressioni per non chiudere le attività non essenziali. La presa per i fondelli a reti unificate si fonda su tre fattori: il protocollo d’intesa firmato il 14 marzo dal Governo e gli immancabili pompieri CGIL, CISl e UIL, il meccanismo del silenzio assenso col Prefetto a cui autodichiarare che si è essenziali e il mitico codice ATECO, oggetto del desiderio di ogni interpretazione. Il 67 per cento del totale delle richieste di deroga alla chiusura delle aziende è concentrato nei quattro principali focolai del Nord: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte.
Si credono l’ombelico del mondo sti industriali e riescono a non far chiudere aziende che non sono essenziali. Naturalmente, le misure di sicurezza, i cui obblighi in capo ai datori di lavoro risalgono a molto tempo prima, verranno garantite! Un giorno, nel frattempo si lavora e ci si ammala.
Questa finta fermata produttiva è stata resa possibile anche grazie ad una incredibile arma di distrazione di massa: un meccanismo di colpevolizzazione dei comportamenti individuali, una campagna martellante di caccia al colpevole che fa i processi a chi corre, a chi ha il cane, a chi esce di casa avendo sacrosante ragioni ma il sospetto vale di più! Gli infami della porta accanto non hanno dubbi. Quoque tu, vicinus!
Eppure bisognerebbe andare un attimino più su e guardare alla scala sociale, invece che alle scale di casa, e farsi quattro conti sul rischio contagio statistico: cosa succede se rimangono aperte aziende dove lavorano 200, 300, 400, 5000 persone? Non sarà che gli stessi che non hanno voluto creare la zona rossa in Val Seriana sono gli stessi che non hanno fatto fermare la produzione non essenziale e sono gli stessi che parlano di ripresa a reti unificate, anche andando contro i pareri del mondo scientifico? In Lombardia i tamponi non bastano, non si ha la benché minima idea delle catene di contagio, si muore a casa e nelle RSA ma toh, la curva del contagio (calcolata in maniera farlocca) sta calando. Bisogna fermare il lockdown! Si sa, quando devono fare i fighi l’inglese viene sempre in soccorso e di solito porta con sè una bella truffa nascosta. Fiscal Compact, spending review e giù fregature. Un lock down che non è mai esistito: con la complicità dei big sindacali, che hanno accettato il regime di compatibilità farlocca previsto dai Decreti.
L’ISTAT nella sua memoria al Senato del 26 marzo ha calcolato che dopo il DPCM del 22 marzo in Italia hanno continuato a lavorare a pieno regime ogni giorno 15,4 milioni di persone che fanno andare avanti 2,3 milioni di imprese ritenute “essenziali” .
Anche i mezzi pubblici, con la retorica del sennò come fanno i sanitari a muoversi, hanno continuato a non fermarsi, dando il pretesto alle aziende di non chiudere e non usare lo smart working.
I datori di lavoro hanno dato il peggio di sé: imposto le ferie, fatto lavorare la gente in condizioni vergognose, rifiutato lo smart working, ricattato in ogni modo, cassa integrazione si ma ti metto in ferie forzate.
Contro tutto questo c’è chi si è ribellato. USB, dopo aver proclamato gli scioperi a oltranza di marzo per permettere alla gente di non ammalarsi, inondato di denunce ed esposti le procure, le Prefetture e le autorità sanitarie di mezza Italia, decide di proclamare lo sciopero generale straordinario del 25 marzo. Uellalà! ‘Ando vai? Non si fa. La Commissione di Garanzia ( non si sa di chi ma si sa in nome di chi) fa il suo bel pippone perbenista da Governo di unità nazionale e commina sanzioni salatissime. Sanzioni ai sindacati ma neanche la previsione della minaccia di sanzioni per le aziende che autodichiarano il falso sulla condizione di essenzialita’ o sulla effettiva presenza di misure di sicurezza.
Controlli per le strade quanti ne volete ma neanche uno nelle aziende: è la magia del silenzio assenso e delle autocertificazioni, bellezza! Delegati sindacali licenziati o sanzionati per aver denunciato la mancanza di dispositivi di protezione. Intanto continuano a morire medici e infermieri. DPI sembra una mala parola. Tu sei un eroe! Non lo sai che gli eroi devono sacrificarsi senza lamentarsi?
Le misure per il reddito, insufficienti e strabiche, tardano ad arrivare. Sale la fame e con essa la tensione sociale ed ecco che il Ministero dell’Interno per portarsi avanti inizia a parlare di frange estremiste. Colpevolizzare prima per azzannare poi. Non solo. Qualcuno lassù inizia a tremare, effettivamente gli errori iniziano a venire fuori e le morti ad aumentare. Facciamo un fantastico scudo penale che cane non morde cane, eh!
Poi arriva il tema della liquidità e la soap opera sul MES. Italiani che mettono la crocetta MES si, MES No, MES guarda che ce sta già da un pezzo. Talmente distratti dal tifo da non vedere che le imprese, che minacciano di non pagare gli stipendi e sono amministratori delegati di qua e titolari di strutture della sanita privata di là, spingono per la riapertura del già poco rimasto chiuso.
Siamo alla metà di aprile, la fase due, pensata nel pieno di una Lombardia completamente allo sbando e di cui non si conoscono i reali numeri di contagio,dove lo sport nazionale dei vertici politici alla Regione è lo scaricabarile, verrà affidata a un manager delle telecomunicazioni e a una task force extraparlamentare. Siamo pronti per la ripresa.
Ripartire. Solo che non hanno indicato la direzione. La retromarcia. A tutto schianto.