31 marzo 2020
Intervista a Elisabetta Canitano
Mai come oggi in Italia sono visibili a tutti i danni prodotti negli ultimi anni dai tagli alla sanità pubblica e al personale sanitario, perpetrati da tutti i governi di ogni schieramento. Pochi letti, pochi medici e infermieri, poche macchine per ventilare, scarsissime protezioni e attrezzatura per affrontare l’emergenza, e il tanto decantato modello del sistema misto pubblico-privato messo in questione dall’evidenza che il privato non sta collaborando affatto come dovrebbe, ma al contrario trae profitto anche dalla crisi Covid-19.
Elisabetta Canitano, una delle persone che ha lottato con più energia e intelligenza per la sanità pubblica, ginecologa fino a poche settimane fa al Grassi di Roma, presidente dell’associazione Vita di donna, spiega come l’organizzazione dell’emergenza stia rafforzando, anziché smantellando, il predominio del privato sul pubblico, e quali sono gli elementi più pericolosi di questa logica capitalista applicata a quello che dovrebbe essere il più pubblico dei servizi, insieme all’istruzione.
«Vorrei cominciare col dire che i medici sono come i preti: ci sono i don Puglisi e i don Tarcisio Bertone, quelli che si fanno ammazzare e quelli che si comprano gli attici, così ci sono i novemila volontari che hanno offerto il loro aiuto alla Lombardia per il Covid e quelli che speculano sui fondi pubblici, mettendo in atto ogni sorta di scorrettezze in nome di interessi privati. E, come nel caso dei preti, i migliori si guardano comunque dal denunciare gli altri».
Però da quando è scoppiata l’emergenza non si fa che parlare del disastro dei tagli alla sanità pubblica e dell’espansione di quella privata. Potrebbe essere l’inizio di una svolta?
Come ha scritto Maria Elisa Sartor qualche giorno fa, la gestione della crisi continua a proporre la stessa logica che favorisce gli affari dei privati. C’è un doppio flusso: quello dei malati Covid – che costano moltissimo perché richiedono più sterilizzazione, più attrezzatura di protezione, i percorsi separati, più turni – verso le strutture pubbliche, mentre i malati No-Covid delle strutture pubbliche vengono dirottati verso i privati, che così hanno il doppio vantaggio di non perdere “clienti”, cioè i pazienti terrorizzati dal contagio, e anzi di acquisire quelli più “redditizi” che erano nel pubblico. La Lombardia che tanto ha insistito sulla presunta eccellenza della privatizzazione, e che ha mostrato al primo scoppio dell’epidemia tutti i danni che questo modello ha prodotto, continua a insistere sulla stessa linea, che è poi quella che sta passando anche in Lazio, dove i molti ospedali religiosi privati con rianimazione, cioè, Campus Biomedico, Policlinico Casilino, i due Fatebenefratelli, non risultano nella lista degli ospedali Covid o ne accettano pochissimi.
A sentire Zingaretti pare che il Gemelli sia in prima linea.
Il Gemelli ha trasformato in ospedale Covid soprattutto la Columbus, una struttura situata a pochi metri finanziata da Fondazione Gemelli ed ENI, ma con una capienza limitata. Una prova ne è il famoso caso delle ambulanze ferme all’entrata dell’ospedale, un caso inaudito che è stato riportato da molte fonti. Qualcuno ha ipotizzato che per non fare entrare eventuali pazienti positivi nel Pronto Soccorso, non avendo aperto il Pronto Soccorso alla Columbus, i pazienti che arrivavano con il 118 in difficoltà respiratoria grave venissero parcheggiati nelle ambulanze in attesa del risultato del tampone, bloccando ambulanze pubbliche per ore. E poi anche un altro privato è stato messo in campo fino a ora, la clinica di Casal Palocco, che fa parte del Gruppo Villa Maria, ma è un caso particolare: attrezzata come un ospedale hollywoodiano per vip, era in pessime acque per mancanza di materia prima, cioè clienti miliardari. Quindi assegnare a loro i Covid è ancora una volta un sostegno al fatturato privato, non un carico, e comunque stentano a partire per mancanza di personale, mentre è stato aperto il settore Covid al Grassi.
In effetti i meccanismi che impoveriscono la sanità pubblica sono complessi e poco leggibili. I media hanno trasmesso con insolita chiarezza qualche dato sui tagli operati dai governi dal 2010 a oggi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), che ammontano a trentasette miliardi, a decine di migliaia di infermieri, medici e personale in meno, a circa 70 mila posti letto spariti. Ma i tagli totali alla spesa sono solo una parte del problema. Molto più grave è la quantità di spesa pubblica che viene intercettata dai privati, in una logica che non è più quella di servizio pubblico, ma di profitto. Come funziona?
In tutti questi anni di austerity, al motto di “non ci sono soldi”, c’è stata una logica divergente: il pubblico è stato obbligato a risparmiare “non facendo”, cioè a chiudere strutture e reparti considerati “non abbastanza efficienti” o troppo costosi, come le maternità sotto un certo numero di parti, anche se magari erano presidi in zone difficili, a eliminare esami, posti letto, servizi, personale, a esternalizzare i servizi. E questo soprattutto al sud, dove c’è invece molto più bisogno di investire. Mentre i privati accreditati sono stati chiamati a funzionare “facendo moltissimo”, senza limiti, liberi di prescrivere esami e interventi inutili, e scegliendo i settori ad alto reddito e basso rischio: quindi molta diagnostica e poco pronto soccorso per esempio, liberi di assumere, licenziare e pagare come gli pareva.
Un servizio di Milena Gabanelli metteva in questione i rimborsi alle strutture private convenzionate, stimando che ammontano mediamente al doppio o al triplo delle stesse prestazioni fatte da strutture non convenzionate. E obbiettando che è iniquo rimborsarle allo stesso prezzo di una struttura pubblica, che si accolla anche gli enormi costi di pronto soccorso e altri settori difficili.
Appunto. E inoltre bisogna tenere conto che molti degli esami prescritti dalle convenzionate, necessari o superflui che siano, sono letti magari frettolosamente da un medico che sta in India, che per pochi soldi deve leggerne migliaia. E l’attendibilità inevitabilmente cala. L’eccellenza del privato è spesso solo eccellenza comunicativa, che poco ha a che vedere con ciò che serve alla ricerca e ai pazienti.
I privati pagano in generale molto meno il personale, medici, infermieri, amministrativi.
Certo. Sono aziende private, tutto risponde alla logica del massimo profitto. La retorica che li equipara al servizio pubblico è stucchevole. I pazienti sono merce. Magari si sentono trattati meglio che nel pubblico, o ricevono buone cure, per carità non lo neghiamo, ma loro restano merce. Una struttura privata deve rendere al massimo, e se per esempio ha in dotazione un certo numero di macchine diagnostiche di ultimo grido deve farle girare, a tutti i costi. E allora i medici sono sollecitati a prescrivere esami inutili, come per esempio le migliaia di risonanze magnetiche per il mal di schiena, che nella maggior parte dei casi sono ben poco risolutive per il paziente, o addirittura dannose, come le radioterapie che andrebbero prescritte solo se veramente necessarie. Per non parlare delle vere e proprie falsità, come la bufala sulle diagnosi Covid in venti secondi grazie all’intelligenza artificiale, diffusa dal Campus Biomedico di Roma e clamorosamente smentita dal SIRM, la Società Italiana Radiologia Medica e interventistica, e da altre istituzioni internazionali. E l’efficienza economica non serve solo a produrre direttamente denaro, ma anche, da quando è in discussione il TISA (Trade in Services Agreement, il Trattato Internazionale della libera circolazione dei servizi), per rendere l’azienda appetibile sul mercato, e poterla vendere alle multinazionali. La libera circolazione dei servizi permette virtualmente alle corporation di comprarsi interi sistemi sanitari nazionali.
Ricapitolando, i medici che hanno l’ambizione di fornire un servizio accurato fondato sulle visite, sull’analisi clinica del paziente, nel pubblico sono frustrati da turni sempre più impossibili e tagli sempre più stringenti, ma nel privato va anche peggio.
È così. La clinica è inibita in tutti e due gli ambiti, perché non è vendibile, è considerata uno spreco di tempo. I dirigenti sanitari prendono bonus sul risparmio, e quindi chiudono quei centri che prestano attenzione al paziente, curandolo in modo complesso, unendo diverse specialità. Per esempio, avevamo al Grassi un’équipe per l’incontinenza urinaria che valutava in modo diverso ogni paziente, facendo prove con terapie diverse, sul lungo periodo, e l’hanno chiuso per mancanza di personale. Ora chi ha questo problema viene mandato a fare un esame, l’urodinamica, che non gli risolve nulla.
Chi sono i dirigenti sanitari?
Purtroppo sono in genere medici che non hanno mai fatto i medici, non hanno mai praticato. I più si sono specializzati in Igiene e profilassi, una disciplina gestionale.
Parlami delle esternalizzazioni.
Sono il risultato del blocco del turn-over. Non si poteva assumere, ma si poteva acquisire lavoro esterno che ricadeva sotto la voce “beni e servizi”. Ovviamente, anche se i lavoratori sono sfruttati, il loro lavoro costa molto di più al pubblico perché bisogna arricchire l’intermediario. Sono una piaga, non solo perché precarizzano il lavoro, ma anche perché vanno a scapito della qualità. Rendono il coordinamento tra i vari settori impossibile, creano disordine e caos. Nessuno è responsabile, nessuno impara bene il mestiere.
E il welfare aziendale in che modo danneggia il sistema sanitario nazionale?
Con la defiscalizzazione: le imprese versano meno tasse allo stato, andando a danneggiare sia il trattamento di fine rapporto dei lavoratori sia le quote destinate alla sanità pubblica. Il danno si stima in due miliardi, eppure quasi nessuno riesce a percepire il nesso tra le due cose.
Allora, per invertire la rotta, una volta passata l’emergenza ma anche durante, da dove dovremmo partire? Aumentare la spesa pubblica, assumere medici e infermieri a tempo indeterminato nel settore pubblico, e poi?
La cosa più urgente è spostare il potere decisionale sul sistema sanitario dalle persone che lo ritengono “un volano economico”, uno dei tanti settori da cui estrarre profitto, a quelle che invece lo considerano un servizio sociale da erogare a tutti i cittadini. Tra i primi troviamo i politici come Fontana, Zingaretti o lo stesso Bonaccini, moltissimi economisti e consulenti, dirigenti sanitari e rappresentanti a vario titolo della compagine burocratica aziendalista, oltre che naturalmente proprietari ed esponenti delle lobby della sanità privata. Tra i secondi ci sono ancora politici – ma pochi – e moltissime persone che lavorano nella sanità cercando di difendere l’interesse pubblico, oltre che un numero sempre maggiore di sociologi, economisti, giornalisti, attivisti che lavorano sulle diseguaglianze prodotte dal degrado del welfare. La vera utilità economica è il benessere dei cittadini, come si sta chiaramente rivelando in questa occasione drammatica, senza il quale si ferma tutto. (lucia tozzi)