26 marzo 2020
Alle 6,45 del mattino siamo entrambi sull’uscio di casa. «Guarda, ho già le scarpe ai piedi, conviene che vada io». «Ma tu ci sei andato ieri». Sgomitiamo per chi debba occuparsi della spesa al mercato rionale a duecento metri dal nostro palazzo, per conquistarci gli unici quindici minuti di aria fresca della giornata. A Garbatella, quartiere della periferia sud di Roma, l’offerta del mercato non è cambiata di molto, sono però i clienti ad avere cambiato abitudini: arrivano a ore improbabili, se non hanno la mascherina si coprono il viso con la sciarpa, cercano di rispettare una certa distanza mentre aspettano che gli inservienti riempiano le buste, lanciano sguardi preoccupati se tocco una pera o sfioro un carciofo.
Alcuni prodotti finiscono prima del solito – pane, farina, lievito – e il banco di detersivi e cose per la casa tre giorni fa è stato costretto a serrare i battenti; ho incrociato il proprietario poco dopo che i carabinieri gli avevano intimato la chiusura, era sconvolto, gli hanno ordinato di chiudere perché il suo è un emporio e vende un po’ di tutto, non solo beni di prima necessità; se avesse venduto solo lampadine, gli hanno spiegato, sarebbe potuto rimanere aperto, così oggi gli abitanti che devono comprare un rotolo di carta igienica o un flacone di varecchina aspettano a lungo di fronte alla Conad, in riga a un metro di distanza l’uno dall’altro come filari di cipressi.
Il banco del vecchio Aldo espone come sempre una gran quantità di merce, da un paio di settimane non ci sono né lui né la moglie, suo figlio e un paio di impiegati di origine indiana assicurano il servizio. L’impresa di Aldo compra la maggior parte della verdura e della frutta a Fondi, tra Roma e Napoli, nel più grande centro italiano di concentrazione, conservazione, lavorazione e smistamento dei prodotti ortofrutticoli. Il mercato, dopo l’approvazione del decreto per contrastare l’epidemia di Covid-19, ha deciso di chiudere nel pomeriggio, ma garantendo il servizio dalle 5 alle 14. I ragazzi di Aldo comprano, caricano su un camion, scaricano e rivendono al mercato sotto casa mia, dove indossano una mascherina per servire i clienti.
Tra le migliaia di realtà locali che producono per il centro di Fondi ci sono le aziende agricole dell’Agro Pontino, un’ampia pianura a sud di Roma che si estende tra Latina, Terracina e Sabaudia. È un paesaggio ameno: verdi distese a pochi passi dal mare puntellate da piccoli e medi insediamenti di case basse, panorami bucolici solo a tratti imbruttiti dalla plastica delle serre; le strade che tagliano la pianura sono lunghe e dritte, ma è necessario percorrerle con cautela, soprattutto la sera, quando al lato della carreggiata pedalano ragazzi e uomini, spesso privi di luci e di gilet catarifrangenti; sono i braccianti che lavorano le campagne, quelli che permettono al mercato di Fondi di esistere, per la maggior parte persone indiane di fede sikh.
La comunità sikh dell’Agro Pontino oggi conta circa trentamila persone, uomini e donne che dai primi anni del nuovo millennio si sono insediati in questi territori. Avevo letto di loro, del percorso di migrazione che dal Punjab li ha portati in questa terra di bonifica e delle inaccettabili condizioni di lavoro a cui sono sottoposti, nei numerosi studi condotti da Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore di Sabaudia, che nel 2008 ha iniziato un percorso di indagine sulla comunità indiana dell’Agro Pontino. Omizzolo ha dato vita a un osservatorio permanente sulle condizioni di vita e lavoro dei braccianti, attività che gli è costata e gli continua a costare pesanti minacce e aggressioni, ma che ha prodotto risultati grandiosi, come gli scioperi del 2016 e del 2019 che hanno visto migliaia di persone scendere in strada e denunciare le condizioni di lavoro infami.
Mentre guardo il ragazzo del mercato infilare i carciofi nel sacchetto di carta, con la sua mascherina un po’ sghemba, il mio cervello s’infila in un tunnel, risucchiato dal getto d’aria di una potente aspirapolvere ripercorre rapidamente all’indietro il percorso del carciofo, dal sacchetto di carta alla terra umida della bonifica. Torno a casa stordita con le mie buste piene, mollo tutto in cucina e vado alla ricerca del numero di telefono di Marco Omizzolo.
«Se avessero aspettato le istituzioni locali, gli uomini e le donne della comunità sikh probabilmente ancora oggi non saprebbero nulla o quasi rispetto all’emergenza Coronavirus», mi spiega dall’altra parte del filo Omizzolo. Apprendo che solo grazie alla solerzia del sociologo e di pochi altri volontari – che hanno sin dall’inizio dell’allarme organizzato dirette Facebook, distribuito video informativi, tradotto in lingua punjabi le cose più importanti da conoscere – le famiglie hanno appreso quanto c’era da sapere sul coronavirus. «Non c’è stata informazione neanche da parte del sistema imprenditoriale, questo dimostra ancora una volta che esiste un sistema scalare che vede i migranti braccianti in ultima fila».
Omizzolo ha dato da poco alle stampe un saggio dal titolo Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana (Fondazione Feltrinelli, 2019). Il lavoro ha il pregio di saltare dal micro al macro offrendo un quadro efficace della filiera ortofrutticola e delle sue distorsioni; le ingiustizie subite dal singolo bracciante permettono di comprendere i dati del settore agroalimentare e le sue commessioni con la mafia a livello italiano e internazionale; riporto una cifra tra tutte, calcolata dal sesto rapporto Agromafie dell’Istituto Eurispes: in Italia ogni anno le agromafie – la rete criminale che s’incrocia con la filiera del cibo dalla sua produzione alla vendita – fatturano quasi venticinque miliardi di euro, spartiti tra padroni e padrini.
«Noi indiani ogni mattina ci alziamo prima di tutti. Dio ci chiede di pregare per tutti, anche per il padrone. Io lo faccio. Poi vengo a lavorare in bicicletta», ha raccontato a Omizzolo un bracciante indiano con il quale il sociologo aveva trascorso molte notti estive a guardia di un campo. «Alzo ogni giorno diversi quintali di cocomero per trenta euro, tu ci vivi con trenta euro al giorno? Il padrone ci dice di andare sempre più veloce. Il mio cuore non lo odia ma io so che non è giusto. Prova a guardare quante serre si montano ogni anno in provincia di Latina o a confrontare una fotografia di venti anni fa con una di oggi. Ogni serra costa tanti soldi e quei soldi glieli diamo noi con il nostro lavoro non pagato. In qualche modo siamo i padroni di queste serre e loro sono gli abusivi».
Dalle notizie raccolte da Omizzolo le aziende ancora non hanno fornito le mascherine ai braccianti indiani, i guanti sono quelli che utilizzano sempre, utili per i lavori nelle campagne ma non adeguati a limitare il contagio. “Vi è un’esposizione, soprattutto per chi non ha il permesso di soggiorno. Questi lavoratori rischiano di diventare un focolaio, se dovesse scoppiare l’epidemia tra di loro sarà molto difficile intercettarla per tempo, lo sapremmo troppo tardi”. Spesso senza documenti, in difficoltà con la lingua italiana, impiegati a nero, i braccianti hanno evidentemente una relazione complessa con il Sistema sanitario nazionale e probabilmente si rivolgerebbero solo in uno stato avanzato di malattia al pronto soccorso. «Queste persone vivono in una periferia perenne, soprattutto le donne. Negli anni sono mancati i servizi di mediazione, se ci fossimo organizzati per tempo probabilmente oggi, nel mezzo di questa emergenza, sarebbe più facile comunicare”, mi dice amareggiato il sociologo prima di attaccare, e aggiunge: “Se sul luogo di lavoro poco è cambiato, nelle pratiche quotidiane la comunità sta attrezzandosi, in questi giorni i templi sono stati chiusi e questo per i sikh costituisce un grande gesto, in generale le famiglie tendono a evitare momenti di aggregazione».
I carciofi sono in pentola, aspettiamo che siano pronti mentre fuori la musica esce dalle finestre del cortile. Spesso in questi giorni ho sentito dire che dobbiamo provare a goderci questo tempo dello stare, mettendo in pausa per un poco il tempo del fare, ma questo evidentemente è solo un previlegio per qualcuno. (marzia coronati)