La Digital Economy e lo smart working al tempo del coronavirus.

25 marzo 2020

In questi giorni di lavoro “coatto” da casa, mi sono soffermato a pensare che tutto sommato con la quarantena le mie giornate fossero cambiate di poco. Di mestiere sono un tecnico informatico da tanti anni, quindi so bene di cosa si tratta. Non è la prima volta certo che lavoro da casa, perché spesso i clienti della mia azienda (che è una multinazionale) sono altrettante compagnie straniere e quindi lavoro per i committenti “da remoto” e “comodamente da casa”. E quindi queste tre settimane possono essermi sembrate simili a tante altre giornate lavorative prima del coronavirus.
Poi improvvisamente ho fatto una semplice ricerca su internet, digitando queste semplici parole: “smartworking” e “covid19”.

Si rimane sorpresi del numero notevole di risultati presentati: articoli di giornale, commenti, analisi sulla funzionalità del nuovo modello dell’organizzazione del lavoro e soprattutto tanto rammarico circa il ritardo che l’Italia ha rispetto alla diffusione del cosiddetto lavoro agile, tanto utile e tanto necessario soprattutto in giorni come questi.

Tutto questo entusiasmo mediatico mi è arrivato addosso come una vera doccia gelata: “altro che la mia vita non sia poi cambiata di molto!”. Perché tutta questa suonata, perché tutta questa propaganda? Quali sono i conti che non tornano più e le note che stonano assordanti su smart working, economia digitale e covid19?

Se riflettiamo che l’attuale epidemia da covid19 è il frutto del rapporto conflittuale tra il modo più generale di produzione e riproduzione sociale, dell’economia e della vita intera con il mondo della natura e del microbiologico, in sostanza del modo anarchico con cui la globalizzazione capitalistica realizza lo sviluppo delle forze produttive per l’accumulazione di valore, allora discutere del Covid-19 ai tempi dell’era Digitale ha davvero importanza. Ne ha davvero tanto più è forte la sviolinata mediatica in favore di questo nuovo modello agile dell’organizzazione del lavoro, come soluzione anche per contrastare l’attuale epidemia globale ed eventuali futuri disastri ed emergenze ambientali e sanitarie.

Viviamo in un modello economico sociale globalizzato e completamente interconnesso, dove l’avanzamento tecnologico ci appariva, prima del covid-19, come la risposta ai problemi della natura, della salvaguardia degli ecosistemi e una speranza per il miglioramento generale dell’uomo.

Castelli di carta immaginati su un modello di produzione e riproduzione sociale della vita umana, meno inquinante e meno alienante, dove la digitalizzazione prefigura un modello di rapporto città natura più equilibrato:

  • Auto elettriche per muoversi ma solo quando necessario
  • Socializzazione dei rapporti umani attraverso le reti
  • Velocità di diffusione delle informazioni
  • Meno sprechi dunque, meno inquinamento per gli spostamenti a e da i luoghi di lavoro
  • La tecnologia a servizio di un ipotetico “green new deal” economico e compatibile

Ci siamo cullati nell’idea che anche la routine legata alla produzione e riproduzione economica e sociale avrebbe liberato parte del nostro tempo dalle fatiche del lavoro a vantaggio di avere più tempo per le relazioni umane: lo smart working, ecco il nuovo modello di lavoro sociale realizzato e appagante.

Ci siamo cullati all’idea che attraverso di questo anche la morfologia delle città possa migliorare, rendendo sempre meno necessari gli spostamenti di massa per raggiungere i luoghi di lavoro.

Questo avrebbe consentito gradualmente la decongestione delle città per la graduale dismissione degli immensi spazi di cemento destinati ai luoghi di lavoro e di produzione e riproduzione del valore, a vantaggio di spazi per la vita sociale e umana: meno inquinamento, meno massificazione delle nostre vite. Il tempo liberato attraverso l’esecuzione “on line” dei mille aspetti delle nostre vite quotidiane. E perché no, dismettendo quegli spazi adibiti a luoghi di lavoro massificanti ed alienanti, questi potrebbero essere riconvertiti per realizzare un diverso sviluppo urbanistico, destinando gli spazi “liberati” alla realizzazione di aree verdi o di appartamenti meno angusti, più salubri, più spaziosi.

Cambiando la morfologia delle città e dei luoghi di lavoro, anche tutti i settori delle attività umane dovrebbero riconvertirsi per stare al passo con le nuove necessità. La rivoluzione e il passaggio di una economia e politica energetica basata sugli idrocarburi, a quella sull’utilizzo delle fonti rinnovabili basate sui metalli preziosi, quegli stessi metalli e materiali di base in uso per la costruzione dei circuiti elettronici dei micro a macro-computer, delle nuove reti digitali che accendono e muovono la cosiddetta rivoluzione digitale. Insomma, l’era digitale che diventa fulcro di innovati processi aziendali, attraverso la estensione e diffusione tecnologica cambierebbe la morfologia delle città e della vita sociale così come l’abbiamo conosciuta finora: sviluppata intorno al cuore produttivo della fabbrica, ora virtualmente incentrata al data center.

Ma quanta energia consuma queste immensa rete digitale e la produzione delle nuove tecnologie che essa abbisogna per correre sempre più velocemente? Una rete digitale che per alimentarsi e per costruire il sogno deve essere attiva 7 giorni su 7 per 24 ore al giorno. Necessita di queste enormi cattedrali nel deserto, che sono i data center, che devono ospitare questa immensa potenza elaborativa e di calcolo digitale, che già oggi consuma più energia elettrica per il raffreddamento della serie di elaboratori e computer che di quella necessaria per la loro esecuzione. Un modello che mentre necessita di un consumo enorme di energia elettrica per l’esecuzione, tanto più che aumenta la sua potenza elaborativa, deve consuma altrettanta energia per il raffreddamento delle immense installazioni di server che non possono spegnersi mai.

Questo processo di riscaldamento/raffreddamento è già oggi nella sua media diffusione fonte di inquinamento e produce importanti emissioni di carbonio. Già oggi si stima che i data center del mondo sono la fonte di emissione di carbonio pari al 2% dell’emissione globale, una cifra che è pari per esempio alle emissioni prodotte dall’intero trasporto aereo mondiale.

Già oggi i data center localizzati negli Stati Uniti consumano il 10% dell’intera produzione di energia nazionale annua. Produzione di energia che come sappiamo non è affatto eco compatibile e fondamentalmente basata sugli idrocarburi. Ma oggi i colossi delle reti digital pianificano una ulteriore espansione nei prossimi anni, per rispondere alle crescenti necessità che la digitalizzazione dei processi aziendali e produttivi richiede.

Questa domanda sta spingendo i diversi colossi come Microsoft, Google, Amazon, Facebook ad un investimento sfrenato nella ricerca di soluzioni che risolvano la contraddizione energetica che l’estensione dei data center comporta: come aumentare la capacità globale di computing processing necessaria al nuovo modello di processo produttivo aziendale digitale e il consumo di energia che questo comporta?

Microsoft per esempio sta ipotizzando un futuristico data center costruito sul fondo dei mari della Scozia, sfruttando così la forza delle correnti marine e l’immersione subacquea del data center, come base per risolvere il problema del raffreddamento dei computer e dei processori. Viceversa, Amazon, Google, Facebook &co spostano le loro infrastrutture nei luoghi più freddi della terra, dalla Scandinavia alle regioni della Cina dove l’inverno è veramente freddo o addirittura in Antartide, dove le bassissime temperature dell’ambiente esterno, e la disponibilità di acqua da succhiare possano essere sfruttare a poco costo per il raffreddamento dei data center.

Quindi il livello attuale di estensione dei data center è ancora troppo indietro per realizzare fino in fondo il sogno dell’era digital immaginato. Se si vuole spingere la digitalizzazione, ora solo limitata a parziali processi aziendali, fino a scenari più spinti, all’automotive come modello diffuso e principale e ad un modello di smart working sempre più esteso e generalizzato, allora le dimensioni attuali dei data center devono avere un deciso salto in avanti.

Già in questi giorni, durante la crisi sanitaria e pandemica del covid-19, moltissime aziende occidentali si sono scontrate con l’inadeguatezza delle proprie reti telematiche. Appena migliaia di lavoratori, impiegati, ingegneri del software sono stati comandati a lavorare da casa, queste reti telematiche hanno sofferto per l’improvviso sovra lavoro causato dall’accresciuto numero delle connessioni telematiche da remoto. Diversi processi e attività aziendali sono stati comunque sospese o riviste, mentre la maggior parte delle attività legate ai call center (attività del processo produttivo complessivo che meglio dovrebbe adattarsi allo smart working) viceversa, per lo più, stanno comunque continuando ad operare in maniera tradizionale (e di questi giorni di come i grossi call center di Comdata e Almaviva abbiano registrato molti casi di positività covid-19 dei suoi lavoratori).

Le ricadute degli effetti del covid-19 sui sistemi infrastrutturali tecnologici ha fatto emergere che le capacità di processing delle nuove reti digitali necessitano di una loro ulteriore espansione, in termini di velocità di elaborazione dei processori, in termini di volume e di numerosità. Quindi ancora più “benzina” da mettere in circolo per espandere il modello dell’organizzazione aziendale dell’impresa capitalistica basato sulla digital economy.

E’ il computer, il processore stesso che incorpora in sé, domande e anche risposte a questo dilemma. Se l’espansione del data center richiede sempre più un consumo di energia per realizzarne a pieno regime le sue capacità di elaborazione e processing, esso tecnologicamente si compone dei materiali primari basi suscettibili essi stessi di produrre un “nuovo” tipo di energia elettrica.

Ed ecco che l’era digitale si combina con il “new green dial” economy basato sull’uso estensivo ed intensivo dei metalli preziosi o “rari”. Se il processore, per essere veloce, si compone di questi materiali, anche la produzione di energia può riconvertirsi in questa direzione e usando i metalli rari come fonte di produzione di energia elettrica. E qui l’ideologia della digitalizzazione si completa incrociandosi con quella del “green new deal”.

Cosa sono questi metalli preziosi, questi minerali rari utilizzati nei superconduttori, come nei processori, come nelle reti dati, così come nelle batterie per il nuovo modello economico e sociale di automotive? Vanadio, fluorite, germanio, silicio, gallio, magnesio, fosforo, scandio, litio (e la lista è davvero lunga), metalli la cui componente atomica ha delle capacità conduttrici incredibili, il cui utilizzo per la produzione di energia potrebbe affiancare (e un domani sostituire) quella tradizionale basata sugli idrocarburi.

Ed ecco, che l’ideologia del “Green New Deal” capitalistico si sposa con l’ideologia dell’era della digitalizzazione. Ma il processo materiale di questo matrimonio non spinge verso il sogno, ma verso la stessa contraddizione attuale, spinta però ad un livello ancora più alto del rapporto tra lo sviluppo delle forze produttive e la compromissione del mondo naturale e microbiologico in modo devastante, come la diffusione e la pandemia per covid-19 di questi giorni ne è una conseguenza.

Già oggi la guerra e la concorrenza per l’accaparramento della ricerca e per lo sfruttamento delle “terre vergini” ricche di questi minerali è all’ordine del giorno. Nuovi terreni di scontro tra USA, Europa e Cina si prospettano. Già nuovi territori vergini, dal deserto del Sahara, Mongolia diventano territori di caccia per il neo-imperialismo digitale.

Nuovi enormi impianti minerari si sviluppano, non più basati per l’estrazione dell’oro, dell’argento, rame o carbone, ma per i metalli rari. L’estrazione mineraria dei metalli preziosi deve scavare ancora più in profondità nella crosta terrestre e smuovere milioni di tonnellate di roccia, oppure vanno ricercati nelle profondità oceaniche. Per ricavare un chilo di un metallo raro è necessario scavare almeno 200 tonnellate di roccia. Data l’alta carica atomica di questi metalli, i residui prodotti dall’estrazione della roccia terrestre rilascia nell’ambiente scarti fortemente radioattivi, con evidenti ad immaginabili conseguenze disastrose per l’ecosistema. Se gli ultimi decenni sono stati caratterizzati dalla guerra per accaparrarsi le risorse di idrocarburi, sganciando tonnellate di bombe intelligenti sulle teste degli sfruttati del medio-oriente, del nord africa e dell’Iraq, manovrate queste sì dalle reti digital del pentagono, della NATO e dagli Stati EU come dell’Italia, i prossimi saranno caratterizzati per il saccheggio e l’accaparramento delle nuove “terre vergini” ricche di metalli preziosi ovunque essi siano.

Oggi il Covid-19 ci insegna che tutte le moderne pandemie (febbre suina, febbre bovina, aviaria, ebola, sars, covid-19, zika) sono il risultato dello scontro contraddittorio tra modello di produzione agro-alimentare (monocolture) e di allevamento, combinato con la prossimità di questa produzione con gli immensi centri peri-urbani ed industriali, che va distruggendo man mano le normali barriere del mondo naturale e microbiologico pre esistenti, e attraverso questa via realizza, a causa dello sfruttamento intensivo capitalistico della terra e del territorio, quel vettore che consente il salto zoonotico delle patologie virali proprie dell’animale all’uomo. La risposta al Covid-19 e alle pandemie basata su un modello di produzione e riproduzione economico e sociale che incentrato sulla estensione della digital economy, sul il new green dial e sul modello di lavoro sociale basato sullo smart working, dunque non è possibile, perché questo modello già oggi si dà acuendo l’attuale contraddizione tra uomo produttivo e natura, tra mondo della produzione e mondo naturale, in quanto figlio dello stesso sistema economico e sociale anarchico che ne è alla base.

Allora cosa rimane dell’era digitale? Quale possibilità per migliorare le nostre vite? La domanda posta così è sbagliata perché la risposta non è nella tecnologia.

La tecnologia non può sottrarsi alle regole e leggi del modo di produzione e riproduzione del mondo economico e sociale, le cui necessità la spingono ad “innovarsi” verso nuovi campi della ricerca.

La domanda dovrebbe essere posta in maniera differente, soprattutto svelando l’altra faccia ancora peggiore ed esclusivamente sociale e reazionaria che l’ideologia della digital economy contiene.

Che cosa di rivoluzionario ha prodotto storicamente questo modello economico e sociale che và sotto il nome di capitalismo? Ha sviluppato il processo veramente umano di realizzare le basi per una società ed una produzione sociale: la cooperazione di milioni individui interconnessi per la realizzazione delle diverse attività della vita umana. Ha messo insieme uomini e donne nei luoghi di lavoro, di diverse generazioni e razze. Questo ha creato solidarietà tra le persone coinvolte nella comune attività produttiva e con questo ha sottratto l’uomo dall’isolamento nelle campagne, spingendolo a guardare e a desiderare altro. Ha gettato le basi affinché fosse possibile che gli espropriati ed alienati del processo produttivo potessero sotterrare il sistema che li sfruttava. Questo enorme e diffuso processo di cooperazione sociale è stato il vero contributo storico della società moderna capitalistica, ossia porre tra le sue varie contraddizioni, anche le condizioni materialistiche del suo trapasso per opera dell’umanità lavoratrice associata.

Oggi, tutta questa ideologia imperante sul modello economico aziendale dell’era digital e basato sullo smart working, è l’altra faccia capovolta del processo concreto e materiale che vuole spezzare proprio ogni possibilità di solidarietà sociale e umana che nonostante tutto durante il tempo di lavoro si sprigiona. Quindi, non solo non ci libera, ma è il risultato di un processo economico, sociale anarchico nei rapporti con l’uomo e con la natura che sta raggiungendo il fondo del barile a forza di raschiarlo, sta andando in crisi senza trovare via di uscita in tutti gli aspetti della produzione e riproduzione della vita e della natura.

Lo smart working, piuttosto che liberare e sottrarre i nostri tempi di vita al lavoro, ci sottomette ancora di più al meccanismo di divisione del lavoro e del suo sfruttamento, ci porta ad una sussunzione ancora più profonda all’interno del meccanismo della globalizzazione della vita umana al mero servizio della produzione di valore. Sebbene il lavoro rimane cooperato e sociale, la pluralità dei soggetti coinvolti è sempre più parcellizzata ed esiliata. Relega il lavoratore in un io isolato nello spazio e nel tempo, privato delle reali relazioni umane e sociali che nel lavoro nonostante tutto emergono. Spezza le relazioni fattuali attraverso cui uomini e donne condividono esperienze, sofferenze, successi, sogni, desideri e volontà di riscatto e di lotta. E’ l’altra faccia dell’estensione dei limiti del tempo di lavoro all’intero tempo di vita, non vi è più distinzione tra relazioni sociali e lavoro,

La pandemia del Covid-19 al tempo dell’era digitale ci sveglia dal sogno e mostra l’altra faccia del virus e le sue contraddizioni. Dialetticamente ammala il corpo umano naturale, ma al tempo stesso apre la strada alla cura dell’uomo sociale e dell’uomo digital. Costringendoci ad una quarantena coatta, verifichiamo quotidianamente che cosa è il modello di cooperazione nel lavoro basato sullo smart working.

Verifichiamo con mano l’impoverimento sociale e umano che questo metodo di organizzazione del lavoro comporta. Cominciamo a dover fare i conti anche nei riguardi del modello alienato di relazioni sociali al di fuori del lavoro che esso sottende.

Il social media non ci basta, e intuiamo che esso non offre maggiori possibilità di relazioni sociali ed umane, ma che ci siamo vieppiù ridotti all’uso di questo strumento per l’accresciuta sottrazione degli interi tempi di vita al servizio della produzione di valore, quindi ci è sembrato il modo più immediato e veloce per stringere relazioni umane.

Ma per combattere l’emergere di sempre nuove e pericolose pandemie (che per altro sono sempre più patologiche in misura che nel nome del processo di produzione del valore vengono sacrificati i beni inessenziali come la sanità), non vi è un mondo social e digital dove rifugiarsi. Non vi è un mondo sano cui semplicemente sostituire un modello industriale “nocivo” con uno veramente “innovativo”. Quello che sta accadendo, seguito dall’evidente incapacità degli Stati di ostacolare la diffusione Covid-19, perché tutto può fermarsi tranne che la produzione di valore per il profitto, allora tornare indietro e riscoprici nuovamente di essere una umanità sociale e lavoratrice, sì interconnessa ma attraverso rapporti naturali diretti, al di là di differenze di sesso, nazione e razza, accomunati dagli stessi interessi di classe, può far tremare gli espropriatori, immaginando un uso veramente sociale e non social delle nuove tecnologie.

Non vi è alcuna consolazione per gli “smart worker”, espropriati due volte dei propri tempi di vita (perfino delle pause caffè con gli altri lavoratori e colleghi). Di fronte all’auto autoisolamento coatto imposto dagli Stati, restii a bloccare le attività produttive cui loro sono a servizio e i cui interessi difendono, perché il profitto non si tocca nemmeno di fronte alla difesa della salute, prendiamo in mano la tecnologia una volta per un obiettivo utile, sospendiamo il lavoro, chiudiamo tablet e pc, e creiamo così quel collegamento virtuale, ma umano, con i più che sono comunque costretti ad andare negli alveari delle officine o delle fabbriche automatizzate, dei call center, dei magazzini della logistica, negli uffici. Altro che rivoluzione tecnologica, new gree deal ed era digital, è di una rivoluzione sociale e di massa anticapitalista cui c’è bisogno.

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FONTE: https://noinonabbiamopatria.blog/2020/03/25/la-digital-economy-e-lo-smart-working-al-tempo-del-coronavirus/


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