L’eccezione come cura

19 marzo 2020

1.

Ho in cura delle persone che hanno attraversato lunghi periodi di auto-quarantena: per mesi, per anni, non uscivano mai di casa. Se erano soli, uscivano solo per fare la spesa alimentare, per andare alla posta. Se avevano un lavoro, lo avevano lasciato; se erano studenti, avevano interrotto gli studi. (Alcuni hanno chiesto e ottenuto il reddito di cittadinanza, il che – a mio avviso – asseconda la loro sindrome.) È una sindrome che non ha nome – la si chiama agorafobia, ma in realtà queste persone di solito non hanno paura degli spazi aperti, bensì delle altre persone, della folla che circonda, urta, spinge. Li chiamerei claustrofilici, rubando il termine al mio maestro in psicoanalisi, Elvio Fachinelli, autore di un libro, Claustrofilia appunto (di Adelphi).

Una donna oggi matura, anni fa aveva paura di prendere l’AIDS andando negli autobus, sostenendosi alle maniglie pendenti.

Altri restano in casa per ipocondria: pensano di essere assediati dalla morte, spiano ogni sensazione o sintomo fisiologico come indice di una patologia funesta. Uno di essi, per mesi chiuso da solo in casa, raccoglieva le proprie urine e le metteva in boccette trasparenti, allineava queste boccette su un lungo scaffale, e le contemplava per ore: studiando i cambiamenti di colore, cercava di intuire di quali possibili malattie queste colorazioni fossero il segnale.

Altri sono etichettati come ossessivi-compulsivi gravi. Hanno paura degli altri – e degli oggetti in quanto li si condivide con gli altri – come fonte continua di infezione. Escono indossando guanti, scongiurano di non essere toccati. Non possono mai andare in wc di case estranee, tanto meno in wc di esercizi pubblici. In certi casi, restano sempre in piedi, anche al lavoro, per non essere toccati da una sedia… L’impurità assedia la stessa casa: avvolgono nel cellophane tutto ciò che la mano deve afferrare: maniglie delle porte e dei tiretti, valvole dei rubinetti. Anche loro tendono a restare chiusi in casa, ma per evitare il contagio.

Oggi lo stato d’eccezione per il covid-19 ci chiede di pensare come questi soggetti considerati gravemente patologici. Ero particolarmente curioso di vedere come questi “morbosi” avrebbero reagito a norme che vanno nello stesso senso della loro claustrofilia. Ebbene, vi reagiscono benissimo!

Quella che da ragazza era convinta di prendere l’AIDS in autobus ora consola la madre anziana che è angosciata, ma che non ha mai avuto di quelle fobie. L’uomo che aveva paura di incrociare la gente del quartiere ora esce per fare le compere e chiacchiera con gli altri senza nemmeno usare guanti né mascherina. Una donna che aveva paura di prendere infezioni dappertutto non teme affatto il coronavirus, ma anzi rassicura le amiche spaventate. E potrei portare altri esempi.

Quando la catastrofe cessa di essere soggettiva e diventa oggettiva, è come se questi soggetti fossero più attrezzati dei “normali” a farvi fronte. È come se la collettivizzazione delle angosce le facesse traslocare dal fantasma alla realtà. Sembra che queste persone debbano vivere sempre in uno stato di eccezione. Loro sono zona rossa. Così, quando questo stato irrompe nel reale, quando è imposto dall’esterno, va bene. Non hanno più bisogno di mettere in atto il fantasma. Il trauma reale lenisce la ferita immaginaria. È come se angoscia dovesse esserci da qualche parte: se c’è fuori di loro, non c’è più bisogno che sia in loro.

2.

Questa ritrovata saggezza di chi eccede in angoscia mi ricorda un’altra catastrofe che vissi: quella del terremoto in Campania del 23 novembre 1980. Io allora ero a Napoli, nella casa di mia madre. Stando all’ultimo piano, potei vivere fino in fondo l’impensabile, inattesa iperbole del terremoto.

Al piano di sotto abitava Antonietta, nota in tutto il quartiere Vomero come Tonina La Pazza. Figlia unica di un mite professore di matematica dei licei, dotato di due occhiali spessi e di una cera perennemente malinconica. Da bambino avevo paura di quella ragazza bella ma enigmatica, con i suoi occhi mobili come le fiamme sembrava sempre guardare oltre di te dietro le tue spalle, verso un altrove che solo lei percepiva. Si fermava a lungo davanti alle porte dei negozi biascicando frasi incomprensibili ed eseguendo gesti sibillini, come strega posseduta da un demone invisibile. Si diceva che talvolta lasciasse sul pavimento dell’ascensore condominiale pozzanghere di urina. Più giovane, copulava senza esitazione, ovunque, con qualsiasi uomo che, approfittando della sua follia, le si proponesse. Da piccolo, tremai quando un giorno la ninfa venne a casa nostra e si esibì in una sonata al pianoforte, che eseguì perfettamente. Sapevo che non era pericolosa, ma la follia spaventa perché getta uno squarcio di eccesso e di infinito nel mondo addomesticato e finito del quotidiano. Le madri del quartiere dicevano di tanto in tanto alle loro figlie ancora piccole: “Non fare così, altrimenti finirai come Tonina!”

Morto il padre triste, Tonina era rimasta sola in quell’appartamento al piano di sotto, ed era diventata l’incubo dei vicini. Il suo problema era oltrepassare una qualsiasi soglia, innanzitutto quella della propria casa: ossessiva iperbolica, una forza misteriosa la respingeva a ogni uscio, da qui un numero indefinito di gesti a ghirigoro, formule borbottanti, va e vieni come in una danza a scatti. Spesso la paralisi era tale che citofonava a qualche vicino con voce piagnucolosa e implorante per farsi aiutare: il malcapitato doveva raggiungerla, prenderla per un braccio, e con fermezza spingerla a varcare la barriera immaginaria, in un tira-e-molla che poteva durare a lungo. Era una malata spettacolare, intrusiva, esibizionista, sontuosamente estroversa.

La sera del terremoto la incontrai in strada: sembrava un’altra. Era scappata di casa come tutti noi, gli inceppi ossessivi si erano dissolti come d’incanto. Deambulava senza intoppi, parlava normalmente, sembrava ringiovanita. Lei chiese con molta calma ad alcuni vicini terrorizzati: “E se ci sono stati danni alle nostre case, chi pagherà le riparazioni?” Una preoccupazione del tutto sensata, ma in quei frangenti quella inquietudine economica venne interpretata come segno della sua abituale follia, le si disse: “Ma come, in un momento come questo, ti preoccupi dei soldi?” Pochi giorni dopo, passata la grande paura, proprio questo divenne l’assillo di tanti: chi riparerà i danni? E quando? Tonina anticipava di ore quel che si sarebbe imposto come il tema dell’anno nelle zone terremotate. Insomma, mentre i miei vicini normali non ragionavano più, Tonina invece era la più assennata. A differenza di tanti altri, se ne salì tranquillamente a casa e se ne stette buona. Il terremoto aveva guarito – per qualche giorno – la sua schizofrenia. Si diceva che fosse diventata matta per un trauma, ma ora un trauma l’aveva guarita.

Dopo Tonina tornò a essere l’handicappata solita. La metamorfosi mi ha fatto però riflettere sulla natura della psicosi. E se gli psicotici – e non solo loro, tutti i grandi fobici – fossero esseri che possono dare il meglio di sé solo in situazioni eccezionali, catastrofiche, straordinarie? Non è forse la routine, la calma ciclicità delle giornate indolenti, a farli impazzire? Come Napoleone non poteva vivere senza intraprendere qualche guerra. Analogamente Tonina, che aveva vissuto l’infanzia con i bombardamenti forsennati della guerra, si era strutturata per vivere solo in un mondo d’angoscia, i suoi tic segnalavano la sua incapacità di vivere nel mondo protetto e ovattato da un padre amorevole che viveva per lei. Molte pazzie sono dovute a un’estenuante carenza di traumi? Le catastrofi sono medicina per alcuni?

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FONTE: https://antinomie.it/index.php/2020/03/19/leccezione-come-cura/


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