Note sparse sul morbo che infuria

I.
La verità non sta nel mezzo, né di lato.

In momenti di grande incertezza si tende a ricercare più che mai la “verità”, nel tentativo di aggrapparvisi per dare un senso ad una situazione che non si riesce più a comprendere e a controllare. Sotto la lente di questa banale considerazione si può guardare a gran parte delle disposizioni e degli atteggiamenti messi in atto recentemente, ovunque sembra dilagare il coronavirus SARS-CoV-2 che può sviluppare la malattia del Covid-19. Medici e ricercatori di ogni risma tentano di ricostruire gli scenari del primo contagio, alla ricerca del paziente “zero”, dicendo tutto e poi il contrario di tutto; opinionisti da strapazzo descrivono nel dettaglio i sintomi della malattia (chiaramente di chi presenta gravi sintomi, tralasciando spesso di ricordare che esiste tutta una schiera di persone con sintomi simil-influenzali o asintomatiche che sono i vettori per eccellenza) ed invocano il vaccino o l’ennesima terapia panacea di tutti i mali.
Se da un lato è indubbio che vi siano grandi numeri di persone che hanno bisogno di essere ospedalizzate – il Covid-19 aggraverebbe situazioni cliniche già precarie o per l’età o per altre patologie, anche se non mancano eccezioni in questo quadro –, dall’altro è altrettanto indubbio che lo Stato stia reagendo a questa situazione inedita nell’unico modo che conosce e che gli è più congeniale, con l’autorità e il castigo. Insomma, alla situazione percepita come incerta, grazie anche alla martellante fanfara mediatica degli specialisti del “progresso”, segue prevedibilmente la certezza della repressione facile: divieti di spostamento – con l’eccezione di lavoro-salute-spesa, quanto di più ordinario e funzionale al capitale –, pattugliamenti massicci per le strade, tracciamento delle persone per mezzo delle celle telefoniche o del GPS, droni che sorvegliano i sentieri e le cime di montagna alla ricerca di refrattarie al morbo dell’autorità.

Se non fosse che è a prezzo della propria indipendenza (la “libertà” in fondo non l’abbiamo mai potuta assaporare in questo mondo) e del proprio benessere che si pagano queste disposizioni, verrebbe da ridere a crepapelle mentre si assiste allo spettacolo dell’insensatezza, alla ricerca di soluzioni facili che non esistono. Perché se secondo alcune questa epidemia poteva essere prevista, imprevedibili – non in assoluto, ma nella loro entità e nella loro imminenza – sono invece le conseguenze della devastazione ambientale, degli ecosistemi e della natura selvaggia, che quotidianamente viene portata avanti dagli stessi tecnici del disastro (da cui ora si cercano risposte) e da tutte coloro che hanno creduto fino ad ora, o credono ancora, di vivere nel migliore dei mondi possibili, tanto da volerlo preservare a qualsiasi costo. Oltretutto, riconoscere che la riduzione della complessità del reale alla dicotomia problema-soluzione o causa-effetto è figlia di una certa mentalità può aiutarci a scorgere il carattere sempre più dogmatico e incontestabile della parola scientifica. Ora più che mai, sembra che la conoscenza scientifica sia sicura, vera in assoluto, non più perfettibile (ciò che è vero lo è fino a prova contraria); il monopolio del sapere è in mano agli specialisti in camice bianco e in questa situazione di “vera emergenza” è bene che le comuni mortali, prive di competenze, non mettano in dubbio le affermazioni di chi pensa di avere in tasca la verità del momento. Ma fra l’oscurantismo – inteso come l’atteggiamento di chi si oppone ad ogni cambiamento e, in senso più ampio, non volontà di conoscere, assenza di curiosità – e lo scientismo – l’atteggiamento di chi pretende di applicare il metodo scientifico ad ogni aspetto della realtà – esiste altro. È in questo spazio grigio che possono insorgere le passioni, la sensibilità e la sensazione, il corpo riscoperto e padrone di sé, i desideri più profondi e selvaggi di chi aspira a com-prendere l’esistente, senza aver la presunzione di riuscirci appieno. È in questo interstizio che potremmo far nascere la nostra critica radicale all’esistente.


II.
Il tempo della roulette russa.

Perché questa pandemia? Da dove è arrivato questo virus? E ora, che fare? Lo sbigottimento ha la meglio, rafforzato dal clamore mediatico e favorito dalla spiacevole sensazione di sentirsi in trappola, perfino nel caso in cui si decida consapevolmente di non rispettare l’isolamento coatto.
Per alcune persone la sensazione di essere in trappola, o meglio di aver già raggiunto un punto di non-ritorno, è qualcosa di latente e viscerale che emerge con prepotenza ogni volta che magari si fa una passeggiata in montagna e si scorgono l’ennesimo traliccio che squarcia l’orizzonte, la cava che sventra la roccia e un altro ghiacciaio che si ritira, facendosi meno imponente dell’anno prima. Ogni volta che si vede scomparire sotto gli occhi una parte sempre più ampia di spiaggia, perforata e scavata dalle ruspe che devono far posto a portuali o turisti, ossia ad una fetta più grande di profitto. Ogni volta che sentiamo il nostro stesso sguardo abituarsi alla vista di una centrale nucleare o di un
bosco raso al suolo e magari sostituito da una piana disseminata di ecomostri per il parco eolico (ah, la svolta green del capitalismo!). Ogni volta che si tocca con mano quanto il mondo in cui viviamo sia artificioso, del tutto innaturale, mentre osserviamo l’orso, il pitone, il delfino o la leonessa di turno al di là di una gabbia, di un recinto o di una teca di vetro, viventi non più selvaggi e rinchiusi nell’ennesimo parco faunistico o tracciati nella riserva naturale.

Ma se a questo sbigottimento seguisse una messa in discussione totale e profonda del mondo che conosciamo… Ecco, allora esisterebbero altri orizzonti e le domande che verrebbero poste sarebbero certamente ben diverse, ad esempio, dalla questione sollevata diversi giorni fa: “esiste una correlazione fra la diffusione del Covid-19 e l’inquinamento dell’aria?”. Diserteremmo, così, la battaglia dialettica fra coloro che si accorgono della devastazione solo o soprattutto dai gradi della temperatura media della superficie terrestre o, ancora, dalle tonnellate di emissioni di Co2 – che, in questa particolare circostanza, diminuiscono per il temporaneo blocco di molte attività produttive, nonché per la riduzione dei trasporti, dello smog e del traffico.
Ignoreremmo le considerazioni di chi risponde a questa domanda avendo in testa sempre e solo numeri e tendenze: “a febbraio le misure adottate dalla Cina hanno provocato una riduzione del 25 per cento delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo stesso periodo del 2019 (…). Tra l’altro, secondo una stima questo ha evitato almeno cinquantamila morti per inquinamento atmosferico, cioè più delle vittime del Covid-19 nello stesso periodo”. Allo stesso modo, non ci lasceremmo ingannare da chi invece ha la presunzione di sembrare lungimirante, appellandosi alla cosiddetta transizione energetica, destinata al fallimento: “(…) l’andamento delle emissioni non dipende solo da quello dell’economia globale, ma anche dalla cosiddetta intensità di emissione, cioè la quantità di gas serra emessa per ogni unità di ricchezza prodotta. Normalmente l’intensità di emissione si riduce con il tempo per effetto del progresso tecnologico, dell’efficienza energetica e della diffusione di fonti di energia meno inquinanti. Ma durante i periodi di crisi questa riduzione può rallentare o interrompersi. I governi hanno meno risorse da investire nei progetti virtuosi e le misure di stimolo tendono a favorire la ripresa delle attività produttive tradizionali. Se come molti temono la Cina dovesse rilanciare la costruzione di centrali a carbone e altre infrastrutture inquinanti nel tentativo di far ripartire l’economia, a medio termine gli effetti negativi potrebbero cancellare qualunque miglioramento dovuto al calo delle emissioni.” (*) La lista potrebbe anche fermarsi qui, ma fra i tecnocrati che si sono affannati nell’indagine di questa misteriosa correlazione, c’è un’altra dichiarazione che merita di essere presa in considerazione perché, più di tutte le altre, è emblematica dell’insensatezza e della più radicata disperazione (nel senso etimologico di “assenza di speranza”) che alcune ormai ripongono nel genere umano. Perché se, da un lato, non è accertato che le cosiddette polveri sottili abbiano agito da vettori del coronavirus, favorendone la diffusione, e se dall’altro è noto che vivere in zone particolarmente inquinate incide sulla presenza di malattie respiratorie o cardiovascolari croniche, “la covarianza fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario [che comprende particelle derivate da processi di conversione, ad es. solfati, nitrati e altri composti organici], accumulo di Pm [il particolato, ossia l’insieme delle sostanze sospese in aria] in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve, tuttavia, essere scambiata per un rapporto di causa-effetto”. E quindi, venendo a mancare l’unica possibile chiave di interpretazione della realtà, segue la conclusione che sembra uno scherzo di pessimo gusto: “si ritiene che la proposta di misure restrittive di contenimento dell’inquinamento come mezzo per combattere il contagio sia, allo stato attuale delle conoscenze, ingiustificata, anche se è indubbio che la riduzione delle emissioni antropiche, se mantenuta per lungo periodo, abbia effetti benefici sulla qualità dell’aria e sul clima e quindi sulla salute generale” (**). In parole povere, perché limitare le emissioni se non è scientificamente provato che il particolato atmosferico ha favorito in maniera diretta la diffusione del virus, in un legame di causa-effetto? Perché limitarle in generale se sappiamo che la loro riduzione incide “solamente” sulla qualità dell’aria, sul clima e sulla salute del corpo? Sia chiaro che non intendiamo chiedere a nessuno di ridurre le emissioni perché non troviamo nessun interlocutore né fra gli specialisti da strapazzo, né fra i politicanti delle conferenze sul clima. Ci diamo invece ad una risata di cuore, quando non ci ricordiamo che buona parte della devastazione ambientale dipende da questi ricercatori-kamikaze; quando ci scordiamo di scorgere in questa mentalità un fondamento del dominio della tecnoscienza, insieme al vil denaro e ai rapporti di potere-oppressione. Lasciamo un attimo questi pensieri da parte, che se no la nostra risata rischia di farsi ghigno amaro. E d’altro canto sbagliamo pure noi, non dovremmo stupirci così davanti a tutto questo, perché come qualcuno scrisse qualche tempo fa: “la civilizzazione è monolitica ed il modo civilizzato di concepire tutto ciò che è osservabile è anch’esso monolitico” (***). E purtroppo torna: in questo mondo tecno-scientifico la complessità del reale non può che essere appiattita fino alla parodia di se stesso per legittimare la progressiva (auto)distruzione del pianeta e del vivente.

In tempi passati, molte streghe hanno sfidato l’esistente, tramandando antichi saperi sulla natura e sul corpo non demonizzato, rifiutando la legge del padre, del prete, dell’erudito e del re, e crediamo che in salsa contemporanea disconoscerebbero la legge scellerata di questi tecno-stregoni. Con buona probabilità non ammetterebbero nemmeno la validità delle domande riportate all’inizio di questo testo, dato che non possono esserci risposte assolute, ma solo ragioni concomitanti, dubbi e interrogativi. Vogliamo seguire le orme di quelle streghe nelle nostre ultime riflessioni.
Consideriamo i primissimi focolai di diffusione del Covid-19 – la provincia industriale dello Hubei in Cina e la Pianura Padana in Italia (fra bassa Lombardia ed Emilia: Lodi, Codogno, Piacenza, Bergamo e Brescia): se pure non confermano la misteriosa correlazione, alludono al fatto che zone simili, così densamente popolate, industrializzate ed inquinate, sono terreno fertile per agenti patogeni, sia perché ne favoriscono in qualche modo la proliferazione, sia perché la salute fisica di chi ci vive è già indebolita. Soprattutto l’una o l’altra o entrambe le ragioni insieme, in quale misura si combinano fra di loro o con ulteriori ragioni non è dato sapere. Asma, diabete, obesità, tumori, malattie (neuro)degenerative, malattie respiratorie e cardiocircolatorie croniche – oltre all’età avanzata – sembrano essere ulteriori fattori di rischio per chi dovesse soffrire di Covid-19, dato che questo potrebbe sviluppare gravi sintomi (fra i più noti, le crisi respiratorie acute). Alcune di queste patologie, peraltro, sono altrimenti dette “malattie della civilizzazione”, la cui comparsa sembra essere legata al consumo di cibi raffinati, fra cui rientrano di certo i prodotti industriali delle coltivazioni e degli allevamenti intensivi. E ancora: questa epidemia si inserisce nella lunga serie di quelle che si sono susseguite nei secoli, che si sono fatte più frequenti in presenza di agglomerati urbani o di viaggi intercontinentali e che, in ogni caso, hanno rimesso in questione il contatto fra l’animale umano e il non umano. Solo per citare le epidemie di malattie zoonotiche (cioè che si trasmettono dall’animale non umano a quello umano, attuando il “salto di specie”) degli ultimi 50 anni: la Sars e la Mers (entrambe sindromi respiratorie, nel secondo caso è detta del Medio Oriente), l’Hiv/Aids, l’influenza suina e l’aviaria, la febbre Dengue, l’ebola ed ora il Covid-19. Le ultime due sembrano, tra l’altro, avere in comune il pipistrello come animale non umano da cui poi si sarebbe originato il primo passaggio del virus all’umano di turno, che si guadagna il titolo di “paziente zero”. Nel caso di questo coronavirus, a parte le tanto millantate zuppe di pipistrello o di serpente (il più becero esotismo non è ancora morto in Occidente!), sembra che il contatto possa aver avuto luogo nei mercati neri in cui vengono commerciati animali selvatici o ai margini delle periferie urbane, in cui i pipistrelli si muovono in cerca di cibo. Quale che sia il caso in questione, ci sembra importante riconoscere lo sconfinamento di uno dei protagonisti del contagio nella sfera vitale dell’altro: che piacere trarrebbe, infatti, il pipistrello dallo stare in mezzo alle persone, se non fosse che il suo habitat di sempre è diventato adesso parte della città? Di certo gran poco, a maggior ragione se pensiamo che rischia di essere inserito a forza nel contrabbando di animali selvatici come merce di scambio, accanto ad altri di ogni specie. Si tratta, d’altronde, di una florida attività mondiale a cui spesso partecipano anche sparute comunità indigene che, vedendosi spossessate di buona parte dei propri territori (a causa della deforestazione o delle multinazionali agroalimentari), ripiegano sul bracconaggio e talvolta sul contrabbando di legname per poter sopravvivere. Così facendo la mercificazione è davvero totale: perfino i rapporti di coesistenza simbiotica e secolare fra queste comunità, il vivente e ciò che restava del selvaggio attorno a loro devono scomparire per far spazio all’autodistruzione dettata dal profitto. Nulla può resistere all’inarrestabile avanzata del progresso, nessun luogo può sfuggire alla contaminazione umana di chi crede nella validità della “civilizzazione”. Infine, a cascata: l’urbanizzazione e le malsane concentrazioni demografiche, gli allevamenti intensivi dell’orrore, le immense monocolture legate a doppio filo coi cicli di carestie e l’impoverimento della terra, l’incessante flusso di merci e di persone in movimento in ogni parte del globo, la devastazione ambientale di ogni ecosistema e la scomparsa del selvaggio, l’ennesima nocività giustificata dal sistema energivoro, il crollo della biodiversità, gli OGM a buon mercato e tutti i processi di manipolazione genetica del vivente promossi dalle biotecnologie… Quando fermare l’enumerazione dei misfatti della devastazione? Non c’è modo, perché ci sono troppi equilibri che sono stati spezzati; in alcuni casi abbiamo già constatato le conseguenze nefaste di questa rottura, in altri casi avremo presto modo di scoprirlo. La partita sembra già persa in partenza (e forse lo è per il genere umano, ma non per gli altri viventi) ma varrebbe comunque la pena fare
almeno un ultimo tentativo. Last shot.
Al posto di fare eco al vicolo cieco delle domande iniziali (“perché questa pandemia? da dove è arrivato questo virus?”) quelle streghe si darebbero alla possibilità e, per come ce le immaginiamo, rischierebbero il tutto per tutto pur di aprire altri orizzonti. Azzardando così domande diverse: “Dove troviamo la devastazione? Chi la porta avanti e in che modo? E ora, che fare?” – ma senza chiederci quanto tempo fa è cominciata questa devastazione totale, perché il rischio è di perderci nei meandri della storia e delle interpretazioni, ma soprattutto di farci perdere quella sensazione di pancia che fa sentire sotto scacco e che alimenta la nostra rabbia. Ci basta sapere che la devastazione esiste ed è continua. Non pensiamo che sia una catastrofe perché non è un evento inaspettato, bensì è la prevedibile (anche se non in assoluto) conseguenza di una guerra al vivente che viene perpetrata quotidianamente da persone, aziende, ricerche ed istituzioni – tentacoli di questo mortifero dominio tecno-scientifico.

Addì, 28 marzo 2020

UNA STREGA NEMICA DI OGNI CORONA

Il testo è il contributo di una strega. Qui potete trovarlo in versione pdf.

 

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