Il disastro coronavirus in Lombardia era già scritto in un audit del 2010, mai applicato

6 aprile 2020

Un piano che si era già dimostrato ampiamente inefficiente e che non è mai stato “sanato”. Oltretutto basato su un architrave non più esistente, a seguito di una riforma strutturale del sistema sanitario regionale che ha smantellato le Asl e il ruolo dei medici di famiglia (cioè la medicina di prossimità) a favore della centralità degli ospedali.
È l’arma che Regione Lombardia teneva nel cassetto, pronta a sfoderare in caso di pandemia. Una pistola a salve che infatti ha fatto cilecca quando è esploso il Covid-19.

Sia perché non si erano mai sanati gli errori e le disfunzioni palesatesi durante la pandemia di H1N1 del 2011 – allora appena, conclusa senza le devastanti conseguenze del Corona virus, ma, pur sempre una pandemia –, sia perché il vuoto lasciato dalla medicina di prossimità non è stato occupato da nessuno. Una lacuna incomprensibile, perché si suppone che se rivoluzioni un sistema, ti preoccupi di modificare tutto ciò che su quel sistema si basa. In Lombardia sembra che invece non sia stato così.

Lo si evince dalla lettura della “Valutazione Piano Pandemico Regionale e attività realizzate durante le fasi 3-4-5-6 della Pandemia da Virus Influenzale A/California/7/2009 H1N1”, datato 22 dicembre 2010.

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Il documento licenziato ancora sotto Roberto Formigoni “si impone come una attenta riflessione ed analisi per procedere ad una eventuale “manutenzione” del Piano Pandemico Regionale, affinché si faccia tesoro delle criticità insorte e delle soluzioni individuate nel corso d’opera e ritenute più adeguate all’evento rispetto a quelle programmate nel piano”.

In parole povere, si tratta di una sorta di audit che analizzava i successi e gli insuccessi dell’allora Piano Pandemico Regionale esistente rispetto alla pandemia di H1N1, datato 2009. Così il documento riporta e confronta “le azioni previste, quelle realmente attuate nel corso dell’influenza, le motivazioni dello scostamento”.

E di “scostamenti” se ne erano registrati parecchi. Per esempio il piano (sulla carta) prevedeva di “definire modalità di rilevazione campionaria di: accessi al pronto soccorso e ricoveri; mortalità, assenteismo lavorativo e scolastico”, insomma il modo per dare alla cabina di regia regionale il quadro generale della situazione sanitaria.

Peccato che nella colonna delle disfunzioni si legga: “Non fornite indicazioni specifiche. Non identificato il campione rappresentativo. Non avviata la sorveglianza su assenteismo lavorativo. Non avviato un sistema di rilevazione degli accessi di mortalità”.

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E ancora, alla voce “Censire e monitorare i posti letto U.O. (unità operative, ndr) malattie infettive e reparti di medicina”, si annota “I piani ASL/strutture sanitarie non erano aggiornati; in alcuni casi non presenti o poco operativi i piani ospedalieri”.

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Peggio va per la “definizione delle modalità di incremento dell’assistenza domiciliare integrata” (cioè quella che tutt’oggi la Lombardia non fa, ma che tutti indicano come fondamentale per contenere il contagio e non intasare gli ospedali), che già allora registrava “un’assenza di azioni specifiche”.

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Così come si era fallito nell’aggiornamento e nella comunicazione capillare a ospedali e Asl delle indicazioni nazionali e internazionali dei Piani di Terapia (“i tempi di realizzazione non sono stati coerenti con la domanda legata alla situazione di emergenza”).

Pesanti carenze riguardavano anche i rapporti con le Residenze sanitarie assistenziali, le tristemente note Rsa, le case di riposo dove oggi si stanno registrando decine di decessi, dopo che accanto a pazienti già gravemente segnati da patologie pregresse sono stati affiancati pazienti Covid positivi, con l’effetto di aver fatto esplodere il contagio tra gli anziani e il personale.

Già nel 2011 il piano prevedeva di “Definire accordo-quadro gestori RSA per aumento assistenza medica ed infermieristica finalizzata al contenimento dei ricoveri”. Tuttavia si era registrata un’“assenza di azioni specifiche”.

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Ma il documento è prezioso anche per dirimere una delle polemiche più infuocate che nell’ultimo mese e mezzo ha accesso il dibattito nella regione più colpita dal Corona virus: a chi spettasse l’onere di provvedere ai dispositivi di sicurezza individuali, ovvero mascherine, camici, guanti ecc…, se alla Regione o al Governo centrale.

Al riguardo il documento è molto chiaro, stabilendo chi dovesse fare cosa. Nella sezione “Misure Generali” si legge infatti che a “Regione Lombardia” spettava di:

Definire in base ai differenti livelli di allarme ed in coerenza con le indicazioni nazionali l’adozione di misure generali come:

  • utilizzo mascherine in ambito sanitario;
  • Limitazione raduni o accesso a strutture sanitarie e socio-sanitarie da parte di visitatori;
  • Interruzione della frequenza scolastica.

Le Asl, invece, avevano il compito di definire:

  • Il fabbisogno dei presidi di protezione,
  • Le modalità di approvvigionamento, stoccaggio, distribuzione,
  • Le dotazioni di un quantitativo adeguato di scorta per la distribuzione ai MMG (Medici di Medicina generale) e PLS (Pediatri di libera scelta)
  • Nb: per l’ambiente ospedaliero ciascuna struttura di ricovero dovrà provvedere in proprio.

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Non solo, Regione Lombardia doveva anche provvedere all’“individuazione dei siti di immagazzinamento e del piano di distribuzione per il conferimento entro 4 ore nei siti di richiesta” dei farmaci antivirali, mentre le Asl dovevano “definire un piano di stoccaggio e distribuzione (dei farmaci, ndr), comprensivo di accordi con farmacie e distributori intermedi per il conferimento celere dei farmaci”.

Un’annotazione che oggi assume forte importanza perché la linea distributiva dei farmaci di allora è la stessa delle mascherine – le 3 milioni promesse dal presidente Attilio Fontana domenica 5 aprile – di oggi. Tuttavia neanche quel compito era stato svolto senza intoppi:

“Il Piano prevedeva che questi strumenti fossero già disponibili al verificarsi del passaggio 4 (cioè nelle prime fasi di emergenza, ndr): sono stati creati strada facendo con grande dispendio di energie/risorse”. Inoltre, aggiungono gli autori, “non è stata utilizzata la rete delle farmacie e dei distributori intermedi per il conferimento ai punti del territorio”. Non certo un buon viatico per la distribuzione dei presidi annunciata a partire da lunedì 6 aprile ma fatta slittare al 13.

Ma, a parte i singoli punti, a colpire è che il Piano pandemico regionale del 2 ottobre 2006, aggiornato il 16 settembre 2009 e rivisto nel 2011 e da allora mai più toccato, si basava su due soggetti: i vertici regionali con un ruolo direttivo e le Asl come braccio operativo.

Ma, con la riforma della sanità varata da Regione Lombardia nel 2015, le Asl sono sparite, divenendo Ats (Agenzie di tutela della salute), si sono cioè trasformate da braccio attivo della politica sanitaria ad agenzie di mero controllo burocratico e amministrativo (da qui il temine “agenzia”) sull’attività degli ospedali. Il loro ruolo è stato trasferito ai nosocomi (divenuti contemporaneamente ASST, Aziende socio sanitarie territoriali), senza che però fossero passati loro tutti quei compiti operativi originariamente in capo alle Asl.

È così che si è determinato quel cortocircuito che ha causato l’impreparazione dimostrata dalla regione più ricca d’Italia nel combattere la pandemia di Corona Virus e che è costata tante vite tra sanitari e pazienti.

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FONTE: https://it.businessinsider.com/il-disastro-coronavirus-in-lombardia-era-gia-scritto-in-un-audit-del-2010-mai-applicata-anzi-una-delle-colonne-su-cui-si-basava-asl-e-stata-smantellata/


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