10 luglio 2020
Approfittando dell’emergenza pandemica, in Algeria la repressione continua mentre la comunità internazionale mantiene il solito vigliacco riserbo e l’Eni rinnova per un altro decennio l’accordo sul gas inizialmente firmato nel 1977.
Dall’inizio della quarantena, a marzo scorso, gli avvocati e le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo hanno segnalato un netto giro di vite nella campagna di intimidazione che colpisce i militanti dell’Hirak (“movimento”) popolare iniziato il 22 febbraio 2019.
È uno stillicidio quotidiano. Si leggono i giornali e soprattutto Facebook – il mezzo di comunicazione “libero” più utilizzato in Algeria – come fossero bollettini di guerra. Ogni giorno c’è una nuova ondata di arresti. Nella maggioranza dei casi la macchina repressiva è scattata in seguito alla pubblicazione di qualche testo sui social network.
Si è formato anche un Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti che tiene una lista aggiornata sulla sua pagina Facebook (Comité national pour la libération des détenus). “Quanti sono?” – chiede (sempre su Facebook) Mustapha Benfodil, uno degli intellettuali solidali con il movimento. “Di quante prigioni avete bisogno per sentirvi al sicuro da noi? Schifo di routine autoritaria! Soffro per le vostre notti di filo spinato, compagni. Tenete duro! Non vi lasceremo! Abitate le nostre preghiere, i nostri pugni e i nostri cuori ardenti”. È il 21 giugno, la collera e lo sdegno sono al colmo: nel pomeriggio, Amira Bouraoui è stata condannata a un anno di reclusione per direttissima.
Tra le figure più in vista del movimento Barakat (“basta!”), questa ginecologa di quarantaquattro anni era entrata nel mirino del potere già nel 2014 per il suo impegno nel movimento di opposizione al quarto mandato di Abdelaziz Bouteflika, il presidente in carica dal 1999, costretto da un ictus su una sedia a rotelle dal 2013 e dimessosi soltanto nell’aprile del 2019 in seguito alla pressione dell’Hirak, movimento innescato, tra le altre cose, proprio dalla candidatura di Bouteflika a un quinto mandato.
I capi d’imputazione contestati alla dottoressa Bouraoui? Chi segue le vicende algerine li scorre rapidamente tanto si è ormai abituati alla solita litania: “incitazione all’assembramento non armato”, “offesa o denigrazione del dogma o dei precetti dell’islam”, “offesa o denigrazione della Repubblica mediante un’espressione oltraggiosa, ingiuriosa o diffamatoria”. E poi naturalmente “pubblicazione suscettibile di minare l’unità nazionale”. Come decine e decine di altri militanti (noti o sconosciuti, giovani o no, di Algeri o delle province), Bouraoui è stata infatti arrestata, interrogata e poi condannata per alcuni post sulla sua pagina personale di Facebook, e in particolare per aver criticato il nuovo presidente della Repubblica Abdelmadjid Tebboune (male eletto nel dicembre 2019) in merito all’incarcerazione del giornalista Khaled Drareni.
La notte stessa dell’arresto di Bouraoui, Sid Ahmed Semiane, una delle penne più intelligenti vicine all’Hirak, scriveva su Facebook giocando con l’immagine del “muro”: “Nessuno dovrebbe essere messo in prigione per le parole che dice, che pronuncia, che pensa ad alta voce o in bisbigli esitanti, parole che si scrivono sui muri, perché è tutto ciò che ci resta per parlare, per dire, per vivere… Non ci restano che i muri, i muri di una città incatenata per sopportare il peso delle nostre disillusioni, il peso delle nostre preghiere. I muri per disegnare graffiti urlanti, osceni, belli e folli allo stesso tempo, per raccontare la nostra voglia di vivere liberi, la nostra voglia di essere ciò che vogliamo… I muri per portare i nostri desideri di un altro mondo. Di un altro paese. Di un altro possibile. Non ci restano che i muri della città e quelli dei social network per urlare. […] È con le nostre parole che ce l’hanno, è alle nostre parole che si vuole tagliare la testa. Sono le parole che spaventano le dittature. Sempre”.
Se la libertà d’espressione non è mai stata moneta corrente, nell’Algeria pandemica il controllo dei social network è diventato una priorità per il nuovo regime che il 22 aprile, in piena crisi sanitaria, si è affrettato a modificare il codice penale in senso restrittivo. Con l’emergenza Covid-19, alla panoplia repressiva si sono infatti aggiunte altre due temibili armi, utilizzate anche contro Bouraoui: “diffusione di informazioni o notizie false o calunniose, suscettibili di minare la sicurezza o l’ordine pubblico” (il che significa che non si può criticare in alcun modo il regime) e poi soprattutto “incitamento alla violazione deliberata e manifesta dell’obbligo di prudenza o di sicurezza emanato dalla legge o dal regolamento, esponendo direttamente la vita, propria o degli altri, a un pericolo”. Detto in altri termini, tutte le manifestazioni sono proibite dalla metà di marzo.
La principale novità del movimento iniziato il 22 febbraio 2019 è stata invece proprio quella di portare ogni venerdì milioni di algerini in strada a manifestare. Un fatto senza precedenti nella storia dell’Algeria indipendente e che ha indotto alcuni commentatori a parlare senza mezzi termini di “rivoluzione” (per esempio lo storico Benjamin Stora, Retours d’histoire. L’Algérie après Bouteflika, Bayard, 2020).
Tuttavia, come ben ricostruisce un volume recente curato dal sociologo Aïssa Kadri, “né primavera né inverno, né arabo né islamista, questo hirak echaâbi el djazairi (‘movimento popolare algerino’) si inscrive in un processo di lunga durata e in una temporalità propria” (Algérie. Décennie 2010-2020. Aux origines du mouvement populaire du 22 février 2019, Croquant, 2020). Dopo le manifestazioni in sostegno al Fronte di liberazione nazionale nel dicembre 1960 e le giornate di festa popolare per l’indipendenza dalla Francia nell’estate del 1962, c’erano state le manifestazioni della “primavera berbera” nel 1980 e poi le rivolte sociali del 1986 e soprattutto 1988, entrambe represse nel sangue. Tra il 1990 e il 1992, imponenti manifestazioni avevano cercato di arginare il successo del Fronte islamico di salvezza, prima che il paese sprofondasse nella guerra civile degli anni novanta. Nel 2001 era stata la volta della “primavera nera” in Cabilia e poi del “movimento del sud” a partire dal 2013. Insomma, lontano dall’immagine stereotipata di un paese e di un popolo “senza storia” perché traumatizzato dall’orrenda strage causata dalla guerra civile contro gli islamisti (almeno 100 mila morti), l’Algeria è stata invece terreno di lotte sociali e politiche ininterrotte in questi ultimi vent’anni, esplose un po’ dappertutto sul territorio a reclamare spesso anche con violenza il diritto alla casa, all’acqua, alle vie di comunicazione (come documenta il libro a cura dell’economista Omar Benderra et al., Hirak en Algérie. L’invention d’un soulevement, la Fabrique, 2020).
Nondimeno l’Hirak rappresenta indubbiamente una cesura, in primo luogo per il livello della mobilitazione, talmente forte che ha riaffermato nei fatti il diritto a manifestare, sancito dalla Costituzione ma sospeso almeno limitatamente ad Algeri dal 2001. Ma oltre ai numeri (pur importanti), la dimensione rivoluzionaria è data dalla frattura etica, dal definitivo esaurimento di un’economia morale istituita sul capitale simbolico della guerra di liberazione e sulla rendita ben più concreta offerta dagli enormi giacimenti di gas e petrolio: “invocano uno stato giusto piuttosto che uno stato di diritto, un’etica più che un’ideologia”, ha scritto Ghania Mouffok in un intervento corrosivo pubblicato su “Orient XXI” (L’an II de la Révolution algérienne, 20 febbraio 2020).
Un aspetto ben espresso dal motivo stesso da cui ha preso avvio il movimento, l’opposizione all’oltraggiosa candidatura di Bouteflika a un quinto mandato quando ormai da sei anni il presidente non era più capace nemmeno di parlare in pubblico, e che aveva dato luogo alla pratica mortificante di esporre nelle cerimonie ufficiali la sua fotografia incorniciata. Ma l’opposizione contro un presidente-fotografia per sineddoche vale come rifiuto di tutta quella generazione che ha “confiscato” la guerra di liberazione (per riprendere il titolo di un libro di Ferhat Abbas del 1984) e che con Boutef’ esce definitivamente di scena. Prima dell’aprile 2019 nessuno avrebbe mai immaginato che il movimento sarebbe stato in grado di imporre a un uomo della “famiglia rivoluzionaria” saldata dalla guerra d’indipendenza di lasciare il potere.
Lo spirito pacifico (silmiya, silmiya… è da subito una delle parole d’ordine) unito a una scoppiettante radicalità carnascialesca sono ulteriore conferma dell’esaurimento dell’economia morale su cui si reggeva un sistema di potere. Da una parte perché è così disattivata a priori la trappola del confronto violento ricercato dall’esercito (e che ne legittimerebbe l’azione repressiva), e dall’altra perché la potenza liberatrice dell’ironia spariglia le carte e squarcia il velo mostrando il re nudo: una risata vi seppellirà.
Raramente classe dirigente è stata tanto screditata e presa in giro. L’Hirak si è infatti appropriato dei codici culturali delle tifoserie calcistiche, che sono un elemento fondamentale per capire la genealogia politica e sociale del movimento (su cui va visto il bel documentario di Karim Sayad, Babor Casanova). Sono nati così nella forma del coro da stadio slogan che sono esempio sublime di poesia popolare: dal micidiale “Tebboune el-cocaine, olé olà, hab iwel rais” (“vuole diventare rais”, in riferimento al figlio del presidente arrestato per un carico di 700 kg di cocaina), a “tenetevi i soldi, ridateci l’Algeria”, o “Abdelkader sì, Abdelcadre no!” (in riferimento all’emiro Abd el-Kader, eroe della resistenza all’invasione francese, e a Bouteflika di cui negli ultimi anni si vedeva soltanto la fotografia incorniciata).
Con la stessa intelligenza concreta che è divenuto un suo tratto caratterizzante, di fronte all’emergenza del Covid l’Hirak ha deciso di sospendere le manifestazioni con una “tregua sanitaria”. Senza portavoce né leader né strutture, il movimento ha dato alla classe politica una dimostrazione di grande responsabilità e capacità organizzativa.
Da parte sua il potere ha invece ben pensato di sfruttare l’occasione per organizzare la fine della contestazione. Quando infatti il 19 giugno le misure di quarantena sono state allentate e qui e là alcuni gruppi hanno cercato di rilanciare il movimento con le manifestazioni del venerdì, la risposta è stata immediata con 500 arresti in una sola giornata. Si è aperta allora la fase kafkiana in cui siamo ancora, mentre anche la stampa è tenuta lontana dalle aule giudiziarie dove si condannano militanti, giornalisti, blogger, gente “qualunque”.
La modifica del codice penale approvata ad aprile, come abbiamo visto, ha introdotto infrazioni particolarmente vaghe come quella di “minaccia all’unità nazionale o all’integrità del territorio nazionale”. Il nuovo codice istituisce un principio di indeterminatezza dell’infrazione e incertezza della pena che consegna il paese nelle mani delle forze dell’ordine e apre la porta a qualsiasi abuso da parte della magistratura, così come raccontano gli imputati che parlano di una giustizia telecomandata. Il conseguente diluvio di arresti e condanne non è che l’ultimo tentativo di un regime autoritario di gestire la crisi politica mediante la giuridicizzazione della vita politica e associativa. Persino un partito presente in parlamento come il Rassemblement pour la culture et la démocratie è stato oggetto di intimidazioni per aver apparentemente ospitato nei suoi locali una riunione di un gruppo riconducibile al movimento (“El Watan”, 25 giugno 2020). Ma se un’opzione solo repressiva poteva ancora funzionare nel passato, difficilmente sarà di alcuna efficacia nella crisi politica attuale. “Una crisi politica”, ribadisce il vicepresidente della Lega algerina per la difesa dei diritti dell’uomo Saïd Salhi, “segnata da un deficit abissale di fiducia tra i cittadini e le autorità che non è risolvibile con i commissariati, i tribunali e le prigioni”.
Mentre chiudiamo la rivista, arriva la notizia della liberazione di alcuni militanti. Il 2 luglio, Amira Bouraoui, Karim Tabbou, Samir Belarbi sono usciti dalla prigione di Koléa, a sud-est di Algeri. Insieme a loro anche altri tre attivisti hanno ritrovato la libertà.
La notizia, per quanto accolta con giubilo, non manca tuttavia di suscitare grande inquietudine per la sua totale arbitrarietà che conferma e non contraddice un modus operandi. La misura, selettiva e non generalizzata, lascia infatti in carcere molti, come il giornalista Khaled Drareni (arrestato il 7 marzo), senza che sia possibile individuare le ragioni che presiedono a queste decisioni differenziate caso per caso.
Opportunamente orchestrate a ridosso dei festeggiamenti per il 58° anniversario dell’indipendenza dalla Francia (il 5 luglio 1962), con la parata militare e il conferimento delle medaglie, queste liberazioni hanno dunque un retrogusto amaro, da ancien régime. I militanti non sono stati scagionati dai capi d’imputazione ma una speciale misura di grazia presidenziale offre loro una libertà provvisoria. Saranno giudicati nuovamente da un tribunale che terrà conto delle loro condotte e delle loro dichiarazioni nel frattempo. È il ricatto di un regime con una concezione profondamente paternalista del diritto. E che cerca evidentemente attraverso questo sotterfugio di confondere l’opinione pubblica.
Prevedere l’esito della crisi politica è particolarmente difficile. Tanto più che come e più che altrove la crisi pandemica rischia di essere davvero la crisi di troppo. Le conseguenze economiche e sociali in Algeria potrebbero essere pesantissime, soprattutto per quanto riguarda quel settore particolarmente fragile ma diffusissimo che è l’economia informale e su cui le misure di quarantena hanno un impatto devastante. In questo scenario, ancora più complesso è immaginare il futuro dell’Hirak, perché il conclamato interclassismo difficilmente potrà nascondere a lungo i conflitti che sempre si celano dietro il concetto abusivo di “popolo”. Che direzioni prenderà il movimento in caso di una grave crisi sociale ed economica, e non più solo politica? Per dirla con una fulminea vignetta di Dilem, una cosa è certa: “la guerra di liberazione si è arrestata il 5 luglio 1962… per riprendere il 22 febbraio 2019” (“Liberté”, 4 luglio 2019).
FONTE: https://gliasinirivista.org/algeria-pandemica-lotte-e-repressione-nellemergenza-sanitaria/