di Alessandro Fioroni da “Il Dubbio”, 19 settembre 2020
Oltre duecento contagi nell’istituto di Roumieh. Il più grande istituto penitenziario del Libano, la prigione di Roumieh situata nei pressi della capitale Beirut, si trova in questo momento nella morsa del Covid- 19. Il “paese dei cedri” ha visto un picco dei contagi all’indomani della devastante esplosione che il 4 agosto ha scosso il porto di Beirut. Da allora le strutture sanitarie sono state messe a durissima prova e a farne le spese sono le fasce più deboli della popolazioni come i detenuti.
Ieri si è appreso della denuncia lanciata dal presidente dell’Ordine dei Medici libanese, Sharaf Abu Sharaf, il quale ha comunicato che sarebbero più di 200 le persone positive al coronavirus all’interno del carcere. Il medico però non ha specificato quanti di questi siano prigionieri o guardie carcerarie. In realtà le condizioni in cui vivono i più di 3mila “ospiti” della prigione di Roumieh sono note. Sovraffollamento e condizione igienico sanitarie preoccupanti sono da sempre il problema maggiore. Nonostante le autorità del penitenziario affermino che la situazione sia sotto controllo, nei giorni scorsi era già scoppiata una rivolta nel famigerato Braccio b.
Una sollevazione nata proprio in seguito alle notizie che parlavano di un aggravamento del numero delle infezioni. I comunicati ufficiali riportano che le persone positive ai test sono state portate in un’ala del carcere adibita alla quarantena ma le testimonianze che arrivano dal mondo carcerario di Roumieh non lasciano spazio a particolari speranze. I detenuti che riescono ad avere accesso a computer e social network pubblicano post e anche video nei quali descrivono una situazione di solitudine e di rischio concreto di morire in carcere.
“Qui non c’è distanziamento né protezioni”, fanno sapere le voci di protesta che arrivano da dentro la prigione. Nonostante ciò Abù Sharaf ha scaricato le responsabilità sui detenuti accusandoli di mancanza di cooperazione e scarso rispetto delle norme sanitarie. Ma le voci di liberare chi è incarcerato per reati minori, in modo da diminuire il sovraffollamento, si moltiplicano. Lo stesso Sharaf ha chiesto al governo di adottare misure urgenti.
Prima fra tutte il miglioramento della qualità del cibo e la separazione dei detenuti malati dagli altri. Per il momento il ministero della Salute ha annunciato di star lavorando con i responsabili dell’Interno e della Difesa per allestire due ospedali da destinare ai prigionieri nella valle della Bekaa e un altro a Beirut. Ciò che sta succedendo a Roumieh è probabilmente l’inevitabile sviluppo di una situazione che già ad aprile scorso sembrava sul punto di esplodere.
In quel periodo i casi erano appena 582 (ora sono 26.083 e 259 decessi) ma le autorità negavano l’effettiva presenza del virus nei penitenziari. Solamente le denunce delle organizzazioni per i diritti umani gridavano al pericolo imminente per i detenuti e il personale. Ciò fu chiaro quando molti internati organizzarono una serie di proteste alcune delle quali sfociarono in vere e proprie rivolte man mano che cresceva la paura dell’epidemia.