di Alberto Acosta
“La gente non sta morendo di coronavirus. La gente in Ecuador sta morendo di capitalismo. Di pessimi servizi pubblici e privati, non solo sanitari. Di mancanza di democrazia e assenza di giustizia.
Di corruzione e incapacità di dialogo”.
(Santiago Roldós, 2020)
2 maggio 2020
La crisi del coronavirus è gigantesca.
Rappresenta, senza alcun dubbio, la più grande prova per la società umana globalizzata.
E per l’Ecuador, un piccolo paese arrampicato sulla cordigliera andina, la sfida risulta enorme.
La pandemia mette a nudo situazioni laceranti di ogni tipo.
Il dramma umano che si sta vivendo ha per ora il suo massimo punto di espressione in Guayaquil. La barbarie sembra essersi instaurata in questa città portuale con l’arrivo del coronavirus (COVID-19): centinaia di famiglie devastate per la morte dei loro congiunti, cadaveri ovunque, cadaveri perduti, centinaia di operatori sanitari contagiati, e migliaia di persone costrette a scegliere se morire di fame cercando il sostentamento quotidiano nelle strade, o morire di coronavirus.
Questa situazione è già riscontrabile in diverse provincie della costa: Santa Elena, Los Ríos, El Oro … e anche – con meno rudezza – nel resto del paese, in un contesto duramente colpito da una grave crisi economica che, data l’incapacità del governo, sta causando licenziamenti di massa e ha portato sempre di più aziende sull’orlo della bancarotta, mentre affondano nella debacle migliaia di attività informali.
Come capita in tutte le crisi i più colpiti sono i più poveri.
Oggi la loro esistenza è sospesa letteralmente a un filo, sia per la malattia che per la fame.
Indubbiamente la pandemia mette a nudo con forza le diseguaglianze.
Inoltre la crisi sanitaria e la contemporanea recessione globale evidenziano come la normalità, così come la conosciamo, avrà un tragico destino se non si farà qualcosa, poiché di certo a tale anormalità non è possibile tornare.
L’Ecuador, già prima del coronavirus, stava affrontando una congiuntura economica densa di criticità fiscali, in un contesto internazionale molto difficile che teneva soffocati i suoi conti con l’estero.
La dimensione sociale, esasperata da una politica economica recessiva e da una gestione governativa caratterizzata dall’improvvisazione, è andata caricandosi di frustrazione e di proteste, come quelle a cui si è assistito lo scorso ottobre.
La domanda interna e la produzione erano in stagnazione dal 2015.
Malgrado ciò, non tutto ha un’origine congiunturale o internazionale. Nel paese tali emergenze esprimono una crisi economica strutturale, profonda e di lunga durata.
Una crisi dove si coniugano la crescente dipendenza dalle attività estrattive e il conseguente peso di una matrice produttiva basata sulle esportazioni di prodotti primari, livelli elevati di concentrazione dei mercati, delle finanze e della ricchezza, l’aumento della disoccupazione e della povertà (soprattutto nelle zone rurali e contadine), un indebitamento estero aggressivo a sostegno della liquidità interna, la mancanza di una moneta propria1 che non permette di disporre di uno strumento dinamico come la politica monetaria o cambiaria, e ovviamente la mancanza di una politica economica coerente e integrale.
Questa crisi nelle attuali circostanze diventa sempre più grave.
Con il brusco calo del prezzo del petrolio si sono praticamente dissolte le entrate petrolifere previste per quest’anno, una questione resa più complessa se si tiene conto che per vari giacimenti i costi di estrazione superano di gran lunga il prezzo del greggio sul mercato internazionale, a cui c’è da aggiungere la rottura di due oleodotti a causa di una frana alle pendici amazzoniche delle Ande.
Inoltre questa economia dollarizzata soffre gli effetti dell’aumento della valutazione del dollaro, con la conseguente crescita dei prezzi delle esportazioni ecuadoriane.
A peggiorare le cose, la congiuntura internazionale coincide con un momento in cui per il paese, gravato dai problemi finora esposti, è diventato estremamente costoso il collocamento del debito estero, con un indice del ‘rischio paese’ che è scattato verso l’alto.
Tutto ciò mette fine a quell’indebitamento aggressivo e irresponsabile che ha sostenuto l’economia dal 2014.
Il momento è estremamente complesso.
Le logiche di apertura ai mercati internazionali si sono ulteriormente approfondite con la firma di un accordo di libero scambio con l’Unione europea (UE) nel 2016, che riafferma la fisionomia di economia esportatrice di risorse primarie, cioè la causa di molte delle difficoltà menzionate.
Le misure recessive che il governo ecuadoriano ha imposto, soprattutto dal 2019, come conseguenza dell’accordo firmato con il Fondo monetario internazionale (FMI), approfondiscono la crisi.
Una questione ancora più perversa, dal momento che questo accordo fa acqua da tutte le parti, proprio perché l’FMI stesso ha ritardato – quando la pandemia era già una realtà – erogazioni di credito originariamente programmate per il mese di marzo 2020.
Risulta tra l’altro evidente che, se la maggior parte del finanziamento degli investimenti e dei programmi sanitari dipende dalle entrate delle attività estrattive, come i prodotti petroliferi, la caduta di queste entrate complica ancora di più la situazione sanitaria.
Di fronte ad una crisi strutturale così complessa e a congiunture così difficili, è desolante constatare come il governo stia cercando di mantenere l’impostazione aperturista [verso i mercati esteri, NdT] e della flessibilità, con lievi adattamenti al copione neoliberista, tema che analizzeremo in un apposito paragrafo.
Come sempre accade, sulle urgenze della vita prevalgono le urgenze fiscali e il dogmatismo del libero scambio, così come il pagamento del marzo 2020 di $ 325 milioni per le obbligazioni firmate dal precedente governo a condizioni molto onerose.
C’è da tenere ben presente che questo esborso è avvenuto nonostante gli appelli contrari, provenienti persino dalla Asamblea Nacional [il Parlamento NdT], perché proprio in quel momento non c’erano soldi per soddisfare le richieste del settore sanitario sopraffatte dalla pandemia, come denunciato dal Ministro della Salute nella sua lettera di dimissioni, presentate quasi nello stesso momento in cui veniva pagato quel debito.
E tutto questo pandemonio viene esacerbato da un contesto politico sempre più estraniato, in cui emergono piccoli interessi di vari politici impegnati a pescare nel torbido, in uno scenario di crescenti disuguaglianze acutizzate dalla stessa pandemia.
In questo contesto si avvertono ancor più le carenze strutturali e congiunturali del sistema sanitario, che aggravano ulteriormente le suddette diseguaglianze.
Come il neoliberismo ha portato al collasso il fragile sistema sanitario progressista
A prima vista, la gravità della crisi sanitaria in Ecuador si spiega con i tagli brutali e irresponsabili degli investimenti sulla salute pubblica da parte del governo del presidente Lenín Moreno.
Dai 353 milioni di $ previsti nel Piano sanitario 2017 si è passati ai 302 milioni del 2018 ed ai 186 milioni del 2019, una riduzione aggravata dall’incapacità di stanziare effettivamente l’importo assegnato in bilancio — anche a causa delle pressioni derivate dall’austerità fiscale — che si è conclusa con un investimento reale di 241 milioni nel 2017, 175 milioni nel 2018 e 110 milioni nel 2019.
Questa riduzione, nel quadro dell’austerità imposta dal FMI, ha gravemente compromesso la disponibilità di forniture sanitarie, la costruzione di infrastrutture ospedaliere e persino l’esistenza di personale medico, che è stato licenziato in massa nel 2019 (si stima siano state licenziate circa 3.000 persone).
Anche il personale degli ospedali pubblici ha subito una riduzione dei salari di quasi il 30% (da $ 591 a $ 394), con un impatto immediatamente avvertito dai settori più poveri e vulnerabili del paese, che sono quelli che si rivolgono maggiormente ai servizi sanitari pubblici2.
L’insieme di queste politiche fiscali recessive ha comportato un grave impatto sulla capacità di assistenza in caso di emergenza.
Ma senza voler minimizzare la fallimentare decisione di ridurre gli investimenti nella salute, il problema è più complesso.
Arteaga Cruz, un’esperta in materia, segnala come lo stanziamento pubblico destinato al settore della salute – non solo per affrontare queste emergenze, ma per sostenere un sistema sanitario prevalentemente curativo e, in buona parte, di mercato – cada in “un pozzo senza fondo”3.
La tragedia sanitaria non è semplicemente una questione di risorse o capacità di risposta in situazioni di emergenza, ma è anche il risultato di un sistema pieno di carenze.
È opportuno approfondire rapidamente questa realtà.
Dopo la promulgazione della Costituzione di Montecristi nel 20084 era stato proposto un cambiamento sostanziale nella gestione dei servizi della sanità pubblica.
Per concretizzarlo si era stabilito che, oltre a considerare la salute come un diritto, le risorse per occuparsene dovevano essere aumentate in modo sostanziale: il 4% del PIL era l’obiettivo minimo fissato.
Secondo la narrazione ufficiale del governo di Rafael Correa (2007-2017) i risultati materiali risultavano evidenti: 13 nuovi ospedali e altri 8 in via di costruzione; 61 nuovi centri sanitari grandi e piccoli ed altri 34 in costruzione.
La vaccinazione era passata da 11 a 20 vaccini specifici somministrati dal sistema pubblico, con un investimento di 60 milioni di dollari.
Il numero di operatori sanitari era aumentato da 9 a 20 per 1.000 abitanti e la media giornaliera delle ore lavorate di questi professionisti era raddoppiata. Nel 2016 erano state effettuate 41 milioni di prestazioni sanitarie.
L’investimento totale in 10 anni di governo Correa era ammontato a 16.188 milioni di $, e in termini di sicurezza sociale c’erano stati anche alcuni ampliamenti significativi.
Sebbene sia innegabile che tra il 2006 e il 2017 la copertura dei servizi sanitari sia stata modernizzata e ampliata, al di là della propaganda ufficiale i problemi sono molti.
Non solo perchè gli investimenti nella salute nei dieci anni della “revolución ciudadana” non hanno raggiunto l’obiettivo costituzionale del 4% del PIL, superando di poco il 2%, anche se in crescita rispetto ai governi precedenti.
Ma, come osserva Arteaga Cruz, perché hanno promosso l’accumulazione di capitale nelle industrie di produzione dei beni, infrastrutture e servizi sanitari, prodotti farmaceutici e assicurazioni private, dando impulso allo smantellamento relativo della sicurezza sociale attraverso il trasferimento di fondi pubblici alle cliniche private.
Non sono serviti a fare in modo che le famiglie ecuadoriane spendessero meno per curarsi, visto che il 45% della spesa familiare è ancora destinata alla salute.
L’obiettivo era quello di realizzare un sistema sanitario che integrasse la sicurezza sociale e il sistema di salute pubblico e che fornisse una copertura universale.
Tuttavia, gli indicatori della salute pubblica che rivelano gli impatti delle politiche sanitarie del decennio correista non sono incoraggianti.
La propaganda glissa sullo smantellamento della sicurezza sociale a causa, tra l’altro, dell’eliminazione del contributo del 40% alle pensioni di anzianità da parte dello Stato, spiegabile con l’inadeguata e persino corrotta gestione dell’Istituto per la Sicurezza Sociale Ecuadoriana (IESS).
Non si dice nulla sui sovrapprezzi delle opere e degli acquisti delle forniture effettuate.
Si parla dell’aumento del numero di vaccini specifici, ma non si forniscono i dettagli sulla riduzione della copertura vaccinale nello stesso periodo.
La mortalità materna ha continuato ad essere una fra le più alte nella regione delle Americhe, con enormi diseguaglianze sociali. Un’adeguata copertura del controllo prenatale è stata assicurata solo per il 24,6%.
Arteaga Cruz ci ricorda come siano riapparse malattie come la malaria, che erano diminuite significativamente nei decenni precedenti.
La copertura universale del diritto alla salute – un obiettivo lodevole – è rimasta un sogno irrealizzabile nel momento in cui si è mantenuta una visione curativa propria del paradigma clinico, sanitario e commerciale, basato su soluzioni standardizzate.
Un’altra lacuna significativa è stata quella di trascurare l’enorme potenziale della prevenzione e, tra l’altro, le conoscenze ancestrali delle culture e dei popoli indigeni, che possono diventare un pilastro di un sistema sanitario forte, basato su pratiche comunitarie e partecipative.
In sintesi, ciò che si è ottenuto attraverso un processo di privatizzazione, come notò opportunamente Pablo Iturralde, è accumulare capitali nelle tasche del complesso medico industriale, emarginando altre potenti opzioni per costruire un sistema sanitario diversificato, forte ed efficace, focalizzando effettivamente la salute come diritto5.
Il settore sanitario, nel mezzo di questo “silenzioso” processo di privatizzazione (Arteaga Cruz dixit), è stato integrato all’interno del modello di amministrazione statale imposto dal Correismo, con il quale si pretendeva di modernizzare il capitalismo.
E che ha permesso ai più potenti gruppi economici di disputarsi le risorse pubbliche, rendendo possibile ai grandi beneficiari del governo Correa di inserirsi in tutti i settori.
La salute non ha fatto eccezione.
Arteaga Cruz è risoluta quando afferma:
“L’investimento sulla salute nella decade di Rafael Correa è stato sperperato in grandi opere che hanno generato potere politico e ideologico, ma non sono riuscite a trasformare o costruire un sistema basato sulla promozione della salute. Al contrario, con la centralizzazione delle decisioni nello stato-nazione e con l’adozione di un modello medico curativo, si sono sciolte diverse organizzazioni di promozione di salute autonome, e il ruolo delle ostetriche è stato separato dalle comunità.
Non si è compreso che la salute non si riduce alla fornitura di servizi sanitari scadenti per i poveri (coloro che nel lungo periodo sono e saranno i più colpiti dalle attività estrattive e dalle modalità di produzione malsane).”
Ed è questo sistema sanitario, con alcune caratteristiche proprie della città di Guayaquil, quello che fallisce davanti al coronavirus, come vedremo più avanti.
Il privilegio di classe della quarantena
Tenendo conto che il coronavirus ha sorpreso i sistemi sanitari di tutto il pianeta, la decisione di stabilire una quarantena per tentare di rallentare la sua avanzata è ragionevole, specialmente nelle città più grandi.
“Restare a casa”, sì, ma la domanda è: chi può rimanere a casa e sopravvivere?
È già difficile restarsene in quarantena a casa per chi dispone di alcuni comfort e non subisce pressioni economiche.
La questione è molto più complessa per quei gruppi strutturalmente privi di protezione che non hanno alloggi adeguati, reddito stabile o risparmi e che vivono in condizioni subumane, nelle baracche o dormendo per strada.
Fino al 2016, secondo il Programma Nazionale per l’Edilizia Sociale, il 45% dei 3,8 milioni di famiglie ecuadoriane viveva in abitazioni precarie. Vi sono 1,37 milioni di famiglie che abitano case costruite con materiali inadeguati, prive di servizi sanitari di base e / o con problemi di sovraffollamento.
E questa situazione non è cambiata, anzi, con le politiche recessive che durano dal 2015, deve essere peggiorata.
Immaginiamo, allora, come può essere la vita di centinaia di migliaia di persone che non hanno una casa, una situazione ancora più complessa in una città di milioni di abitanti come Guayaquil, caratterizzata da enormi disuguaglianze.
Una città dove il tempo in questo periodo dell’anno è particolarmente duro a causa delle alte temperature e di altri disagi tipici di questa epoca.
Come richiedere adeguati comportamenti sanitari quando non c’è acqua potabile; come aspettarsi che l’istruzione o il lavoro a distanza funzionino se il 60% della popolazione del paese non ha accesso a Internet e non ha nemmeno un computer, come esigere che le persone anziane che vivono sole e in un’enorme precarietà rimangano a casa.
Teniamo presente queste realtà.
E poi, quante persone in Ecuador hanno un reddito stabile? Sappiamo che oltre il 60% della popolazione economicamente attiva, circa 5 milioni di persone, non ha un’occupazione adeguata.
Ciò significa che la maggior parte di queste persone vive alla giornata.
Sono venditori ambulanti, muratori, sarti, cucitrici, autisti, persone che forniscono assistenza in diverse aree e servizi. Ad esempio, le persone che vivono servendo pranzi in piccoli ristoranti sono totalmente prive di protezione.
L’infezione, mentre si diffonde, dimostra anche tassi di mortalità e contagio in termini di classe, approfondendo le differenze tra la città costruita (quella dei gruppi benestanti) e la città dei costruttori, che è spesso quella dei quartieri marginali o delle baraccopoli.
La pandemia, quindi, da un lato disvela brutalmente la realtà dell’ingiustizia sociale, della iniquità e delle disuguaglianze e, dall’altro conduce ad un aumento della povertà.
La Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL) prevede già – in base alle stime preliminari – che l’impatto del coronavirus potrà causare un aumento di 35 milioni di poveri in America Latina, senza considerare l’impatto della grave recessione economica mondiale che era già in corso prima della comparsa dell’epidemia6.
E l’Ecuador, negli scenari delle organizzazioni multilaterali, come la CEPAL stessa o il FMI, appare come il paese che soffrirà il maggiore impatto in questa crisi congiunta di pandemia e recessione. (Continua)
(*) L’economista Alberto Acosta Espinosa è fra i padri della Costituzione dell’Ecuador.
Sostenitore della prima ora della Revolución Ciudadana, ha ricoperto il ruolo di Ministro dell’Energia e delle Miniere nel primo governo di Rafael Correa, prima di maturare la rottura con il Correismo su posizioni antiestrattiviste ed antiautoritarie.
Attualmente è autorevole membro del Tribunale Internazionale dei Diritti della Natura, e pienamente interno al dibattito dei movimenti sociali latinoamericani.
Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.
- Nel 2000 l’Ecuador ha adottato come moneta propria il dollaro statunitense.
- Arteaga Cruz, E., Cuvi, J., Maldonado, X. , ¿Salud en tiempo de austeridad?, Ecuador Today, febbrio 2019.
- Arteaga Cruz, E., El legado de la ‘Revolución Ciudadana en salud’: La historia de una ‘década ganada’ ¿para quién?, in AA. VV., El Gran Fraude ¿Del correísmo al morenismo?, Quito.
- La Costituzione di Montecristi del 2008 è l’attuale costituzione dell’Ecuador. E’ una delle più avanzate del mondo sia perché sorta da un ampio processo partecipativo, sia per il riconoscimento della natura plurinazionale e interculturale dell’Ecuador, sia per il riconoscimento della Natura come soggetto di diritto.
- Iturralde, P., Privatización de la salud en el Ecuador. Estudio de la interacción pública entre hospitales y clínicas privadas, Quito, Fundación Donum, 2015.
- CEPAL, América Latina y el Caribe ante la pandemia del COVID-19. Efectos económicos y sociales”, Santiago, 2020.
***
30 maggio 2020
Mentre stavamo ancora traducendo questo saggio di Alberto Acosta, l’Assemblea Nazionale dell’Ecuador ha approvato, la Ley de Apoyo Humanitario e la Ley Orgánica de Ordenamiento de las Finanzas Públicas, considerate dalle organizzazioni indigene e popolari come veri e propri attentati al sistema di previdenza sociale ed alle tutele del lavoro.
Il 25 maggio migliaia di persone, sfidando il coprifuoco, hanno riempito le strade delle principali città dell’Ecuador per protestare contro i tagli al settore pubblico e gli accordi con l’FMI.
Il 26 maggio viene firmato dal Ministro della Difesa Oswaldo Jarrín l’Acuerdo Ministerial 179, che permette alla forze armate di utilizzare armi da fuoco contro i manifestanti per disperdere le proteste sociali.
Nel frattempo la popolazione e la natura subiscono l’attacco delle attività estrattive. Foto dal satellite mostrano l’avvenuta costruzione, in pieno coprifuoco da pandemia, di una strada nella selva della riserva naturale di Yasuni, funzionale ai progetti di sfruttamento petrolifero. Poco più a nord la rottura di due oleodotti sta provocando uno dei peggiori disastri ambientali della regione. Alexik]
Guayaquil tra neoliberismo e filantropia
Se il problema dell’inadeguatezza delle abitazioni caratterizza tutto l’Ecuador, a Guayaquil si presenta in maniera ancora più accentuato.
È una città “escludente e neoliberista” a causa del suo tipo di rigenerazione a favore del capitale, con una grande quantità di carenze denunciate già da prima della pandemia, e ostinatamente negate dalle autorità e dalle élites cittadine, che anche in questo momento stanno cercando di minimizzare le loro responsabilità additando come causa dei problemi il centralismo della capitale.
In realtà, come succede da molte altre parti, queste città si trasformano in una macchina che genera sempre più disuguaglianze. La avvocatessa guayaquileña Adriana Rodriguez così sintetizza la questione:
“Non c’è da sorprendersi che Guayaquil, la città dell’Ecuador dove è maggiore la disuguaglianza sociale, sia al primo posto per il numero di contagi e di morti per Covid 19. La città, governata dal partito Social Cristiano da più di 20 anni, è l’evidente dimostrazione del fallimento del “vittorioso modello” neoliberista, tanto celebrato dalle élites al potere.
E’ che si intrecciano grandi imprese commerciali ed una opulenta ricchezza in una città con il maggior numero di poveri del paese, che rappresentano quasi il 17% della sua popolazione se si sommano gli indicatori di povertà a quelli della povertà estrema”1.
In questa città portuale, contrassegnata da differenze sociali estreme, il coronavirus è arrivato ovunque.
Per quel che ci è dato sapere, è giunto dall’Europa portato tanto da gente benestante, che tornava da viaggi di studio o di turismo, che da persone che lavoravano in Spagna e in Italia.
È evidente che chi ha più possibilità economiche affronta meglio il coronavirus negli ospedali privati, mentre coloro che non hanno questa fortuna, includendo settori di classe media duramente colpiti, hanno dovuto rivolgersi al sistema pubblico causando la sua saturazione.
E tra l’altro, portando al collasso l’intero sistema di registrazione dei decessi e sepoltura dei cadaveri.
COVID-19 ha messo a nudo queste e molte altre aberrazioni in una città dove anche a livello municipale si lavora attraverso una serie di alleanze fra pubblico e privato.
Il suo sistema sanitario negli ultimi anni ha oscillato tra gli sforzi progressisti per modernizzarlo e l’esistenza di sistemi di assistenza sanitaria e sociale provenienti da una curiosa logica filantropico-neoliberista, che ha caratterizzato le strutture di potere della città.
Le amministrazioni comunali cristiano sociali – al potere ininterrottamente da oltre 20 anni – spinte dai populismi e dai sogni di modernizzazione e lungi dall’occuparsi di problemi strutturali come salute, cibo, occupazione e abitazioni, hanno cercato soprattutto di ripulire la “facciata” della città, migliorando ad esempio piazze e parchi con l’intervento di fondazioni in partenariato pubblico-privato.
La questione è più complessa se si considera che questa città – la quale, oltre ad essere la più popolosa dell’Ecuador, è stata anche il suo motore commerciale – continua ad attrarre molte persone che arrivano da altre regioni impoverite alla ricerca di un lavoro.
Proprio per questo il lavoro informale è una delle sue caratteristiche principali e i quartieri marginali – spesso privi di pavimentazione, acqua potabile e fognature — crescono inarrestabilmente in assenza di piani di urbanizzazione adeguati e di risposte che risolvano strutturalmente le disuguaglianze e le esclusioni.
Secondo i dati del 2016 sulle abitazioni, il 20% delle case ha carenze di spazio, acqua potabile e fognature. Il 17% della popolazione locale vive in sovraffollamento.
C’è da considerare che questo non è l’unico problema, poiché i servizi sanitari ed educativi sono estremamente precari.
Come osserva l’architetto di Guayaquil Patricia Sánchez, profonda conoscitrice dei problemi della sua città:
“L’emergere del settore informale nella città è legato alla logica della concentrazione della proprietà dei terreni in mani private nonché alle rigide normative sul territorio urbano, vere e proprie barriere istituzionali quando si tratta il tema degli alloggi popolari.
Il carattere elitario e tecnocratico di pianificazione urbana finisce per escludere in questo modo gran parte della popolazione , riservando ai poveri le terre di nessun interesse per il mercato immobiliare”2.
Di fatto, in questa città portuale vibrante per il commercio e le migrazioni ma caratterizzata da profonde disuguaglianze, mancano le strategie abitative per creare le condizioni materiali che consentano di articolare modalità più favorevoli per la riproduzione della vita.
Si è trascurato l’habitat popolare, spazio privilegiato per l’autogestione collettiva delle condizioni di produzione e riproduzione di un’economia basata sul lavoro, totalmente contrapposta alla logica del capitalismo immobiliare che concepisce gli alloggi e gli habitat semplicemente come merce.
E certamente non si è fatto nulla per provare almeno a stabilire relazioni di armonia con il contesto naturale.
Riflessioni valide per l’intero paese, di cui resta tanto da conoscere, comprendere e migliorare.
Il rischio di abbandono delle campagne
L’altro pilastro della salute, l’alimentazione, è sempre più dominata dall’agroindustria, ed il controllo dei mercati è nelle mani di pochi gruppi commerciali.
Per citare solo un aspetto, tre catene controllano il 91% del mercato dei prodotti alimentari che necessitano qualche tipo di lavorazione.
La maggior parte delle terre migliori e delle forniture di acqua sono destinate sempre più alle colture rivolte all’agro-esportazione.
Nel frattempo il settore dei lavoratori agricoli sopravvive ad un’emarginazione di lunghissima data.
Contrariamente a quanto si possa immaginare dall’esterno, sono molteplici nelle campagne gli effetti della crisi economica e della pandemia.
Tanto per cominciare i livelli di povertà e marginalità sono più alti che nelle città, elemento ancora più lacerante se rapportato ai gruppi indigeni.
Poi c’è anche da tenere presente la minaccia che può rappresentare il contagio di coronavirus in comunità distanti da infrastrutture sanitarie, già colpite da varie penurie, come già accade in alcune aree amazzoniche.
Secondo i dati del Instituto Nacional de Estadística y Censos (INEC) la povertà è sempre stata molto superiore nelle aree rurali che nel mondo urbano.
Ad esempio il tasso della povertà multidimensionale arrivava al 38,1% a livello nazionale, al 22,7% nei centri urbani ed al 71,1% nelle campagne: in pratica sette abitanti su dieci del settore rurale vivono in condizioni di povertà.
Una realtà che contrasta con la capacità dei contadini e delle contadine di alimentare la società ecuadoriana.
Le piccole unità produttive inferiori a cinque ettari, per lo più gestite da donne, soddisfano il 65% dei generi di consumo alimentare del paniere dei beni nazionale.
Tuttavia, in campagna la malnutrizione infantile è maggiore che in città: il 38% dei bambini da zero a cinque anni soffre di malnutrizione nelle zone rurali, e il 40% nei territori indigeni (rispetto al 26% della media nazionale).
Questa è un infamia per un paese così orientato alla biodiversità e così pieno di potenzialità in tal senso.
In Ecuador persiste una spiccata disuguaglianza nella distribuzione della proprietà in generale, e della terra in particolare, che non è stata in nessuna maniera affrontata dal precedente governo e meno che mai da quello attuale.
Alcune stime basate sui dati dell’INEC indicano che, nel 2017, il coefficiente di Gini3 sulla distribuzione della Terra ha superato 0,8 punti.
In pratica il 2,3% delle unità produttive possiede il 42% della terra coltivabile, con proprietà superiori a 100 ettari prevalentemente orientate alla produzione per l’esportazione.
Mentre il 63% delle unità di produzione agricola, soprattutto condotte da indigeni e contadini, possiede il 6% della superficie coltivabile, e la stragrande maggioranza ne ha meno di un ettaro.
Se questa è la situazione della concentrazione della terra, per l’acqua risulta ancora più iniqua.
Tutto ciò pone una questione assai problematica.
Un tempo, gran parte dei contadini, in particolare quelli appartenenti alle popolazioni indigene, potevano badare a loro stessi e raggiungere, in qualche modo, un livello di maggiore autosufficienza, così da distanziarsi da questo mondo reso folle dall’accumulazione di capitale, che è poi il mondo dove si sta sviluppando il coronavirus.
Ora invece i contadini e gli indigeni sono sempre più legati alla logica del mercato e nonostante producano cibo, soffrono la fame.
E questo si spiega perché traggono i loro prodotti sempre più attraverso monoculture: hanno perso gran parte della capacità di gestire il loro orto, la loro chacra (fattoria), con prodotti diversificati, con i quali potrebbero soddisfare i loro bisogni alimentari e persino medicinali.
In ogni caso, nonostante si trovi ai margini di molti servizi sociali, come ad esempio quelli sanitari, la campagna sembra comunque maggiormente in grado di affrontare la pandemia rispetto alle grandi città.
Un’economia in asfissia come un paziente con coronavirus
Lo scenario è complesso e, senza peccare di pessimismo, le prospettive sono sempre più oscure.
Come già segnalato, questa conclusione è stata ipotizzata da vari organismi internazionali, e anche il governo dà segnali in questo senso. Per esempio, il vice presidente Otto Sonnenholzner stima che il costo della pandemia raggiungerà il 10-12% del PIL.
Come un paziente con coronavirus, l’economia sta letteralmente asfissiando.
Un soffocamento aggravato dalla mancanza di apparato respiratorio, visto che, trattandosi di una economia dollarizzata4, non ha la possibilità di gestire una propria politica monetaria.
È un’economia che non ha una bombola di ossigeno perché non ha risparmi.
È un’economia gravata da enormi oneri come il debito estero, irresponsabile e molto oneroso, e da molti altri e gravi problemi, sia congiunturali, come un calo a picco del prezzo del petrolio, che strutturali, come l’assenza di reali trasformazioni produttive.
L’analisi si complica con le misure recessive del FMI e con l’ostinazione di un governo che non accetta misure creative, straordinarie, e soprattutto sostenute da un modello che riesca ad unire la solidarietà alla giustizia sociale ed ambientale.
Un simile caos genera lugubri prospettive.
Il governo di Lenín Moreno – insensibile ed estremamente disorientato – ha risposto presentando in modo frammentario diverse misure economiche, tra cui la rinegoziazione del debito estero e la richiesta di nuovi prestiti, l’introduzione di nuove imposte sui redditi dei lavoratori del settore pubblico e privato, una tassa del 5% sugli utili delle grandi società, garanzie pubbliche per i crediti alle imprese private, bonus di protezione sociale (60$ per le famiglie più povere), nuove forme di flessibilità del lavoro, la preminenza della contrattazione privata sulle norme in materia di affitti e di lavoro, insieme a misure varie di ampliamento dell’assistenza sociale e sanitaria.
Allo studio anche la riduzione permanente dello stipendio del 10% di tutti i dipendenti pubblici.
Sulla rinegoziazione del debito estero, considerando le esperienze precedenti, non si prevedono miglioramenti sostanziali se le regole dei creditori internazionali continueranno ad essere accettate passivamente dal nostro paese.
In questo scenario si potrà ottenere giusto un sollievo passeggero, un po’ di liquidità per qualche mese, ma l’Ecuador manterrà comunque il percorso di adeguamento preteso dal Fondo Monetario, che comporta un’integrazione sempre più profonda nel mercato mondiale come paese esportatore di materie prime, in particolare petrolio.
Prospettiva estremamente preoccupante in un mondo sempre più incerto, e con il mercato del petrolio prossimo al collasso.
Per quanto riguarda l’aumento delle tasse per le aziende, il contributo del 5% degli utili non è un importo compatibile con i profitti accumulati negli ultimi anni, soprattutto dalle imprese più grandi del paese.
Gran parte delle imprese appartiene ad importanti gruppi economici dai quali si potrebbe esigere un contributo maggiore, senza considerare aziende come le compagnie telefoniche (Claro o Telefónica) che hanno registrato profitti superiori al 90%.
Si potrebbe richiedere un contributo più alto al settore bancario, ricordando come tra il 2007 e il 2016 abbia accumulato profitti per 2.820 milioni di dollari.
Come se non bastasse, negli ultimi anni le attività bancarie hanno continuato a guadagnare come mai prima d’ora nel bel mezzo di un’economia in crisi, al punto di ottenere profitti per 1.566 milioni tra il 2017 e il 2019.
A fronte di questa ‘età dell’oro’ del settore bancario un contributo del 5% sugli utili non è sufficiente.
Il governo punta ad ottenere maggiori risorse dalla tassazione delle persone fisiche che dalle società, quando sarebbe più comprensibile il contrario, soprattutto ricordando come una manciata di aziende e di banche hanno realizzato profitti milionari durante il boom dei prezzi di petrolio, ai tempi del governo di Correa, ed anche in seguito, in piena crisi, con il presidente Moreno.
Lo scenario si complica ancora di più con le crescenti pressioni estrattiviste sui territori.
Assieme alla flessibilizzazione del lavoro, anche la flessibilizzazione ambientale dovrà servire – ci diranno – a riattivare l’economia e tornare a rendere competitivo l’apparato produttivo.
In un’intervista televisiva all’inizio di aprile il Ministro delle Risorse Naturali dell’Ecuador, parlando delle attività petrolifere, dell’estrazione mineraria e delle risorse energetiche, ha sintetizzato la sua posizione senza peli sulla lingua:
“Lavoreremo più velocemente … il mondo non si è fermato, è in mezzo a questa crisi ma non si ferma, e noi trarremo da questa crisi l’opportunità di monetizzare [“privatizzare”, nota dell’autore] tutto ciò che è rimasto in sospeso“.
Il messaggio è chiaro. Per superare la crisi pandemica e la recessione globale si annuncia di voler spingere l’acceleratore sul neoliberismo e sull’estrattivismo.
Tutto questo lavorio per riavviare prima possibile l’apparato produttivo si svolge in assenza di considerazioni o analisi su quali siano i problemi di fondo, e in un contesto di crescente confusione politica.
Mentre la situazione diventa sempre più critica in termini economici e soprattutto in termini umanitari, molte forze politiche sono impegnate a pescare nel torbido.
Potenziali candidati per le elezioni parlamentari del 2021 muovono le loro fiches provando ad ottenere benefici elettorali, senza assumersi reali responsabilità neanche in questi momenti critici, incoraggiando ulteriormente il caos.
Il governo, nonostante la sua manifesta debolezza, preme sull’Assemblea Nazionale, che sta elaborando due grandi pacchetti di riforme.
Voci dal regime parlano apertamente di un possibile scioglimento del Parlamento e di nuove elezioni generali per designare nuove autorità fino al completamento della legislatura, a maggio 2021. Ciò costituirebbe uno scenario molto complesso, tenendo conto della pandemia e della recessione, che potrebbe portare a qualche avventura dittatoriale palese o occulta.
Per ora non appare alcuna forza politica capace di dare una svolta basata su principi di autentica solidarietà, che imponga l’onere di un contributo superiore a chi più possiede e più guadagna.
Vale a dire introdurre tasse e contributi con criteri di equità, riscuotere le tasse non pagate, sospendere il pagamento del debito estero da cui dipende la privatizzazione della sanità, procedere verso la socializzazione del sistema bancario, porre sotto il controllo dello Stato le transazioni in moneta elettronica per dare ossigeno all’economia, sostenere una profonda trasformazione agraria improntata al principio della sovranità alimentare, trasformare il bonus di solidarietà in un reddito minimo vitale …
E tutto questo nel senso di una necessaria transizione post-estrattivista, che consenta al paese di superare la dipendenza perversa, la volatilità e l’incertezza di un’accumulazione basata sulle esportazioni di prodotti primari.
Dalla vecchia normalità ad una normalità ancora peggiore
Per concludere, non possiamo che costatare come il vecchio ordine stia cadendo a pezzi.
Il ritmo frenetico dell’economia mondiale si è fermato. Le società si rinchiudono in se stesse e diventano più precarie di fronte alla pandemia. I regimi politici si irrigidiscono.
Se ci fosse la necessaria comprensione di ciò che sta accadendo, il mondo dovrebbe approfittare di questa tregua e promuovere un cambiamento di rotta.
Ma non sembra sia così. Man mano che l’esistente viene smantellato, inizia a organizzarsi un nuovo regime che, per il momento, sembra recuperare il peggio del vecchio. Vi sono alcune indicazioni che consentono di giungere a questa conclusione scoraggiante.
Lungi dal trarre lezioni adeguate, in molti paesi si riprende a sostenere la vecchia economia, sperando in un rapido ritorno alla normalità.
Affrontano questa sfida per la salute globale proprio come farebbero con un dosso sulla strada.
Ma non si tratta solo di questo.
Ignorando la gravità del momento e le cause profonde che hanno provocato questa grande crisi, non mancano le voci che invocano il recupero della vecchia strada della prosperità.
In altre parole, l’economia deve crescere, aprirsi ancora di più al mercato internazionale, spingendo sulla competitività.
Così, nel mondo impoverito, si propone di accelerare l’inutile crociata per raggiungere lo sviluppo: un fantasma devastante.
Si cercano spiegazioni cospirative per non affrontare il collasso del clima, provocato dalla brutale velocità di accumulazione del capitale, che soffoca la vita degli umani e non umani.
Le ricette imposte dai grandi gruppi di potere, in particolare economici e politici, rimangono invariate. Cercano di approfittare del momento per accelerare l’estrattivismo attraverso una maggiore flessibilità delle normative ambientali, con il pretesto di affrontare la crisi e migliorare la “competitività” dell’apparato produttivo, sfruttando anche nuove forme di precarizzazione del lavoro.
Il risultato di questa evoluzione provocherà senza dubbio frustrazione e disperazione crescente, in particolare tra i settori popolari sempre più abbandonati nell’incertezza.
Per questo non bisognerà sorprendersi se nuove ribellioni sorgeranno dietro l’angolo.
Senza minimizzare la complessità del momento e le minacce incombenti, c’è però anche spazio per l’ottimismo.
Basta guardare le risposte di solidarietà delle comunità indigene e reti di vicinato, di molti gruppi della società tradizionalmente emarginati, e soprattutto delle donne, che attraverso il loro parlamento popolare sono consapevoli della necessità di un impegno collettivo per riorganizzare la speranza e per trasformare tutto, perché “esigono la cura delle persone, cura della vita, salute e dignità“, perchè “nel suono dei cacerolazos di questi giorni, si sente un’eco che dice … solo el pueblo salva al pueblo“.
(*) Il presente saggio è stato pubblicato il 28 aprile 2020 in lingua spagnola dalla Fundación Carolina, con licenza Creative Commons. Traduzione di Alexik e Giorgio Tinelli.
L’immagine di apertura è del 25 maggio scorso. Il cartello si riferisce alla ripresa delle lotte di massa in Ecuador, come nell’ottobre 2019.
***
FONTI:
https://www.carmillaonline.com/2020/05/02/il-coronavirus-ai-tempi-dellecuador/
https://www.carmillaonline.com/2020/05/30/il-coronavirus-ai-tempi-dellecuador-2/