La Catalogna e il virus della Corona

6 agosto 2020

Mentre il re Juan Carlos I di Borbone, sei anni dopo aver abdicato a favore del figlio, fugge ai Caraibi per eludere le sue eventuali responsabilità penali, la crisi sanitaria da Covid-19 aumenta in tutta la Spagna. Il 3 agosto nello stato spagnolo c’erano 680 focolai attivi con 6.300 nuovi casi, un numero pari a quelli dello scorso maggio, nonostante il lockdown sia stato uno dei più severi d’Europa. In una situazione così precaria come quella spagnola, anche la gestione della pandemia diventa uno strumento della battaglia politica. Sia a destra che a sinistra, i difensori della “Spagna una e grande”, governata da una dinastia deposta dal popolo negli anni Trenta e rimessa sul trono da Francisco Franco, fanno il possibile per eludere le responsabilità, scaricando le colpe dell’aumento dei contagi proprio su quella parte di società che ha fatto esplodere le contraddizioni dello stato borbonico: l’indipendentismo catalano.

Sebbene la mobilitazione repubblicana sia sparita dalle strade della Catalogna ormai da mesi, e nonostante le gravi tensioni tra i partiti che dovrebbero rappresentarla nelle istituzioni, il potenziale trasformativo di questo movimento è tutt’altro che esaurito. Con ancora nove persone in carcere da due anni, dodici in esilio per le loro idee (tra cui il rapper Valtònyc, per il quale si chiedono tre anni e sei mesi di carcere per aver chiamato “ladro” il re fuggito con il malloppo) la disaffezione di milioni di persone verso l’ordine costituzionale dello stato spagnolo è ai suoi massimi storici. Molti giornali italiani anche di sinistra continuano a presentare le notizie dalla Spagna in modo parziale, insistendo sull’idealizzazione del paese che va avanti dai tempi di Viva Zapatero e prendendo sempre le distanze dai tentativi di trasformazione del suo ordine politico e territoriale. Ma senza un quadro chiaro degli equilibri politici, non capiremo come si svilupperanno le cose durante questa estate, e in un autunno che si preannuncia decisivo.

Ripercorriamo le vicende. Quando a marzo la curva dei contagi cresceva esponenzialmente, il primo ministro socialista Pedro Sánchez dichiarò lo stato di allarme concentrando la gestione dell’emergenza sanitaria nelle mani di una task force integralmente socialista. La componevano il ministro degli Interni Fernando Grande-Marlaska, il ministro della Sanità Salvador Illa, la ministra della Difesa Margarita Robles e il ministro dei Trasporti José Luis Ábalos, e il capo del governo stesso. Ne era escluso Podemos, il socio del “primo governo di coalizione” della storia postfranchista spagnola; neppure il vicepresidente del governo Pablo Iglesias aveva voce in capitolo (apparentemente, anche la fuga del sovrano è stata concordata con gli alti vertici del partito socialista, che però ha preferito tenere all’oscuro il partito alleato, nonostante gli elogi di Pablo Iglesias alla presunta “sensatezza” del nuovo re rispetto al precedente).

Sin dall’inizio del lockdown, l’apparato di sicurezza dello stato ha innescato un processo di pulizia dell’immagine dell’esercito e delle forze dell’ordine, dipinte come salvatori della patria. “Hanno voluto trasformare una crisi sanitaria in uno stato di guerra”, affermava Gabriela Serra, presidentessa del Consiglio Catalano per la Pace (CCFP) su La Directa. Nella conferenza stampa che ogni giorno informava sulla situazione del paese, il rappresentante del governo e il responsabile sanitario dell’emergenza erano sempre accompagnati da tre militari in uniforme: il capo della polizia, il capo della Guardia Civil e il capo dello Stato Maggiore. Questi personaggi raccontavano di come i gagliardi soldati spagnoli avessero disinfettato le residenze sanitarie e controllato le strade, presentando queste operazioni come doveri patriottici in difesa dello stato. In questo contesto – oltre un milione di persone sono state sanzionate per violazioni allo stato d’allarme, più di ottomila gli arrestati – il capo dello Stato maggioreMiguel Ángel Villarroya, è arrivato ad affermare che «in questa guerra irregolare e strana che stiamo vivendo, siamo tutti soldati». Ma non è chiaro se il nemico contro cui serrare le fila sia il virus, o la popolazione stessa.

SANITÀ PRIVATA E REDDITO MINIMO
Sin dall’inizio del lockdown, molti media italiani hanno annunciato le misure economiche prese dal governo spagnolo come tentativi coraggiosi e innovativi di imporre misure di welfare. Il Fatto Quotidiano ha parlato di “temporanea nazionalizzazione della sanità privata”, il Manifesto titolava addirittura “Sánchez chiude i confini e requisisce le cliniche private”. Altri, più prudenti, come Contropiano, hanno preferito mettere la parola “requisizione” tra virgolette. Quello che è successo in realtà è che il primo ministro ha richiesto alla sanità privata di dare un servizio in cambio di un pagamento, nulla di più. Non si nazionalizzava nulla, ma erano soldi pubblici che venivano dati a strutture private per fare il loro lavoro. Nel caso catalano, Quirón, la principale azienda sanitaria privata ha deciso di “affittare” allo stato solo cento letti da terapia intensiva sui 3.300 disponibili, tra l‘altro a prezzi altissimi: si stima che lo stato dovrà pagare 246 milioni di euro alla sanità privata per le cure prestate. Per capire come siano complessi i giochi di potere tra le due amministrazioni, statale e autonoma, basti dire che la sezione catalana di Podemos, En Comú Podem, ha denunciato che il governo della Generalitat catalana abbia dovuto pagare il prezzo di 43 mila euro per ogni caso di Covid-19 trattato nella sanità privata, nonostante questo pagamento rispondesse alle disposizioni del governo centrale.

Un’altra questione molto dibattuta è quella del “reddito minimo vitale”, che diversi giornali italiani hanno descritto come misura storica, rinforzando la narrativa di come Podemos abbia influenzato le istituzioni in senso radicale. Ma il reddito minimo vitale non è che un sussidio per fasce di popolazione molto vicine alla povertà, ulteriormente impoverite dalla crisi sociale ed economica scatenata dal Coronavirus, non molto diversa dal reddito di cittadinanza approvato dal passato governo giallo-verde italiano (tutt’altro che progressista). Lo potranno richiedere persone sole che hanno tra i diciotto e i sessantacinque anni con minori a carico, e un reddito inferiore a 5.538 euro l’anno per un nucleo familiare unipersonale, fino a un massimo di 12.184 per nuclei più grandi, con un patrimonio inferiore a tre volte il salario minimo, e verranno erogati un minimo di 462 euro mensili per una persona sola, 139 in più per ogni familiare, fino a un massimo di 1.015 euro al mese. Secondo El Salto questa misura taglierà fuori migliaia di persone che non potranno accedervi per questioni burocratiche, oltre a escludere le persone richiedenti asilo. Insomma, questo sussidio rischia di essere ancora una volta una misura puntuale, non strutturale, e dalla vita breve, per gli intoppi interni della burocrazia spagnola.

IL VIRUS CATALANO
Il cuore del problema, naturalmente, è il conflitto territoriale catalano. I dati del contagio in Catalogna non sono certo buoni: ci sono più di venti focolai nella zona di Lleida, con oltre 3.675 contagiati, e una trentina di altri focolai di cui uno da oltre 4.379 casi nell’area metropolitana di Barcellona. Molti giornali italiani hanno ripreso la narrazione che di questa nuova crisi facevano i giornali spagnoli, primo tra tutti El País, che ha presentato come massimo responsabile la Generalitat catalana, il cui presidente, Quim Torra, appartiene al partito di Carles Puigdemont, tuttora esiliato in Belgio. È sicuramente vero che il governo catalano non stia rispondendo bene all’emergenza; d’altra parte il governo locale ha solo il 6,3% di autonomia per la spesa nell’educazione, sanità e protezione sociale, e la gestione locale è strettamente dipendente da quella nazionale. Nel caso dei focolai di Lleida, la sesta città più popolata della Catalogna, i contagi si sono diffusi soprattutto nel settore ortofrutticolo: sono colpiti principalmente migranti stagionali, spesso subsahariani, che vivono in baracche, o comunque in condizioni in cui è molto difficile tracciare l’evoluzione dell’epidemia. Andreu Merino di Nació Digital calcola che il dipartimento delle ispezioni sul lavoro della Generalitat ha aperto 764 indagini sulle aziende che non rispettavano i requisiti di sicurezza da quando la Generalitat ha ripreso il controllo dell’emergenza sanitaria. Ma le scelte principali dipendono dal governo centrale, non da quello autonomo.

La ragione per cui la Generalitat ha reagito all’aumento del numero di positivi limitandosi a “raccomandare” il distanziamento fisico, invece di imporlo, non è stata spiegata a sufficienza. Già a marzo il governo regionale e quello statale erano arrivati ai ferri corti, quando il primo aveva richiesto il lockdown allo stato centrale, concesso da Sánchez solo una settimana dopo: in quella drammatica settimana il virus da Madrid si è esteso in tutto lo stato spagnolo. Quest’estate è avvenuta la stessa cosa: non appena la regione di Lleida, il Segrià, è stata investita dalla nuova ondata di contagi, le autorità locali hanno chiesto al governo centrale un nuovo lockdown per contenere il virus. Ma due cariche di livello superiore nominate dallo stato centrale – il Pubblico Ministero e il Giudice di Guardia del Tribunale provinciale – hanno dichiarato che secondo i meccanismi legali vigenti non era possibile ridurre la mobilità sul territorio. Le misure di emergenza sono state respinte; le competenze regionali e giuridiche si sono scontrate di nuovo. Così, quando sono aumentati i contagi a Barcellona, il governo catalano non ha potuto far altro che raccomandazioni.

Bisogna conoscere bene questa complessità amministrativa per capire di chi sono le responsabilità della situazione attuale. Semplificando si rischia invece di affidarsi a pregiudizi, se non direttamente alla stampa filo-governativa spagnola. Così il Manifesto ha definito catastrofica la gestione dell’emergenza a livello statale, ma ha attribuito le responsabilità non al governo di Sánchez bensí agli “anni di gestione del Partido Popular” (versione iberica del berlusconiano “è colpa dei governi precedenti”). Nel caso catalano, invece, il Manifesto come Linkiesta continuano ad attribuire le responsabilità alla Generalitat, e non ai precedenti governi, tra cui i socialisti degli anni Duemila che hanno messo le basi del funzionamento del sistema sanitario autonomo. Di nuovo, è una questione politica: poco importa se il governo attuale ha deciso di non derogare la riforma del lavoro fatta dal Partido Popular durante gli anni dell’austerity, nonostante le promesse elettorali, arrivando all’assurdo di far annullare una decisione parlamentare già presa, che aveva sostituito la legislazione neoliberista precedente con misure più favorevoli ai lavoratori impoveriti dal lockdown: la notizia è stata “bucata” dalla maggior parte dei giornali italiani.

Naturalmente in Catalogna tutte queste vicende, e le manipolazioni sui media statali, hanno alimentato la certezza, nelle file indipendentiste, che una repubblica catalana indipendente avrebbe gestito meglio la pandemia, rispetto a uno stato che in questo momento sta dando una pessima prova di sé. Il governo e la stampa spagnola reagiscono scaricando le colpe sull’amministrazione autonoma, quando non sulla cittadinanza, proprio per contrastare questo evidente segno di insofferenza politica.

IL PROBLEMA DEI NUMERI
Questi fuochi incrociati rendono molto più confusa la valutazione dell’entità della pandemia: le polemiche politiche si orientano proprio sul numero dei contagi, dei positivi, delle persone in quarantena, addirittura del personale medico necessario per poter identificare le catene di contagio e fermare i focolai. Come conseguenza, i dati sono molto controversi: un gruppo di ricerca dell’Universitat Politècnica de Catalunya, il BIOCOMSC, ha spiegato che nella confusione del post-lockdown si è iniziato a fare molti test PCR e prove sierologiche a tutte le persone che hanno mostrato sintomatologie leggere simili a quelle del Covid-19 durante il periodo di marzo, ma che non erano andate in ospedale o si erano rivolte telefonicamente al medico di famiglia. «A Barcellona si sono iniziati a fare molti test rapidi – spiega un ricercatore –. Ma i positivi non si possono aggiungere alla serie storica. Se si fa questo errore sembra che ci sia un gran numero di nuovi casi”. Questi test rilevano anche i contagi passati, mentre quelli attuali sarebbero molti meno: “C’è un leggero aumento dei PCR+, che per il momento non cambia la situazione».

Inoltre, i dati più aggiornati mostrano che la regione con il maggior numero di persone ricoverate non sarebbe la Catalogna bensì l’Aragona, la regione di Saragozza, dove (negli ultimi 14giorni)  sono stati trovati 7.485 nuovi casi e ci sono 215 ricoverati: la media è di 567,35 positivi ogni centomila abitanti, contro i 152,70 della Catalogna, dove ci sono solo 54 ricoverati. La pandemia ha colpito duramente anche nella regione di Madrid, dove ci sono 88 ricoverati. Lo stesso governo annuncia che in Aragona ci sarebbero stati piú di duemila casi in dieci giorni, novecento in settantadue ore, di cui cinquecento nella capitale Saragozza. Altri settantasei contagiati sono stati rilevati in una discoteca di Córdoba, durante una festa con quattrocento persone. Ma l’Aragona, l’Andalusia e la Castiglia-La Mancha, le regioni interessate da questi contagi, non sono attraversate da grandi spinte indipendentiste: perciò la visibilità della loro crisi sanitaria è molto minore. I media italiani purtroppo hanno seguito questa linea, concentrandosi sugli aspetti della crisi sanitaria che alimentano la linea politica filogovernativa.

Con la fuga del “re emerito” Juan Carlos, però, questi equilibri possono cambiare. L’insofferenza verso la struttura intrinsecamente corrotta del regime borbonico, nonché della democrazia a guida socialista che lo sostiene, si sta estendendo ben oltre le frontiere della battaglia indipendentista catalana, nonostante i continui tentativi dei partiti di governo di scongiurare la possibilità di un referendum repubblica/monarchia, e l’evidente mancanza di volontà di Podemos di portare avanti questa rivendicazione. Al di là della grande manifestazione anti-monarchica del 25 luglio nel centro di Madrid, il re e la sua famiglia a luglio sono stati insultati pubblicamente dalla folla almeno in AsturiasEuskadiExtremadura, oltre che intorno al monastero di Poblet a Tarragona, scelto accuratamente dalla casa reale proprio per evitare le contestazioni popolari. Tra le ragioni della rabbia generalizzata contro la corona, a questo punto, non ci sono solo i loschi affari che hanno portato Juan Carlos a nascondersi ai Caraibi, ma anche l’inqualificabile gestione della pandemia da Covid-19, le cui colpe vengono sistematicamente eluse e scaricate sui dissidenti politici. (victor serri / stefano portelli)


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