Passando in rassegna la letteratura specialistica e le newsletter di settore, sembra che l’emergenza sanitaria da Covid-19 abbia aumentato la consapevolezza tra gli addetti di come un tale shock, colpendo uno degli anelli della catena, possa provocare un impatto di natura sistemica. Secondo alcuni osservatori il processo di de-globalizzazione subirà un’accelerazione, ma altri sostengono che si assisterà piuttosto a una riconfigurazione delle catene di fornitura. Coloro che ribadiscono la fragilità delle catene prevedono una crescita del settore della logistica a causa dell’aumento esponenziale di domanda di consegne a domicilio e dell’e-commerce, il cui valore potrebbe raggiungere oltre quattromila miliardi di dollari entro il 2021, il doppio di quello che era nel 2017.
Come saranno le supply chain globali dopo il Covid-19? Gli analisti parlano di una radicale trasformazione veicolata dall’innovazione digitale e accelerata dalla crisi causata dalla pandemia. Le nuove tecnologie, l’intelligenza artificiale, l’automazione o quello che chiamano l’“Internet delle cose” sono viste come le soluzioni a ogni problema che l’emergenza ha portato a galla nel giro di tre mesi. Intanto, l’immagine che più si avvicina alla realtà del settore la fornisce un’inchiesta della procura di Lodi su un’azienda di autotrasporto e logistica accusata di frode fiscale e sfruttamento della forza lavoro, e le rivendicazioni dei lavoratori della logistica che negli Stati Uniti si sono coalizzati per organizzare uno sciopero.
Oltre alla crescita della logistica urbana, l’emergenza ha provocato un rallentamento del commercio internazionale e un conseguente calo dei volumi di traffico delle merci. Maersk, una delle più grandi compagnie marittime del mondo, ha dovuto annullare decine di navi portacontainer e ha stimato che le fabbriche cinesi abbiano operato al cinquanta-sessanta per cento della capacità. Tra i mesi di gennaio e febbraio la metà delle portacontainer dalla Cina non sono partite. Qualche settimana fa ho scritto a un dirigente di una compagnia marittima conosciuto anni addietro per chiedergli come stava e cosa vedeva dal suo osservatorio in merito all’effetto del Covid-19 sulla catena marittimo-logistica, dal momento che gira per i terminal portuali di tutto il mondo: «Direi che ‘tremendo’ è l’aggettivo più adatto – ha risposto –. Abbiamo poca comprensione dei flussi futuri e stiamo lavorando per uscirne senza le ossa troppo rotte».
La prolungata chiusura delle fabbriche cinesi in seguito all’epidemia ha provocato una perdita complessiva per le compagnie marittime di trecentocinquanta milioni di dollari la settimana. Sono state cancellate almeno ventuno partenze dalla Cina verso l’America e dieci verso l’Europa nei primi tre mesi dell’anno. Alcune compagnie hanno dichiarato “Force Majeure” per obbligare i propri fornitori a dilazionare i pagamenti o per ottenere sconti. Dall’inizio della pandemia le portacontainer allungano la rotta dall’Asia all’Europa circumnavigando l’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza piuttosto che tagliare dal Canale di Suez, navigando così per oltre tremila chilometri in più per i porti del Nord Europa. Una scelta che in tempi normali era ritenuta molto costosa durante l’emergenza sanitaria risulta conveniente. Da un lato, infatti, la forte riduzione della domanda di trasporto permette tempi di viaggio maggiori, dall’altro la diminuzione del prezzo del carburante causata dal crollo di quello del petrolio rende più vantaggioso aumentare i consumi che pagare il transito di Suez. Va da sé che in tutto questo chi paga il prezzo più alto è il personale marittimo. L’emergenza li ha sorpresi in mare, obbligandoli a quarantene e periodi di imbarco più lunghi. Nei casi estremi i marittimi sono stati abbandonati insieme alle navi morte e alla merce che trasportavano dai loro armatori. I sindacati confederali stimavano a inizio maggio circa duecentomila marittimi bloccati che aspettavano di essere sostituiti con altri marittimi in attesa di imbarco.
Se volgiamo lo sguardo a terra, si intuisce che nel medio e lungo termine i porti affronteranno in maggiore o minore misura un declino delle attività di movimentazione merci per la significativa flessione dei volumi dovuta alle “rotte vuote” (blank sailings). Secondo un rapporto recente i porti europei stanno scontando più di altre regioni del mondo l’impatto delle toccate ridotte delle navi negli scali principali, ma le conseguenze si vedranno meglio più avanti, perché i porti sono prima in ritardo e poi in anticipo rispetto ai tempi di crisi e di ripresa. A questo vanno aggiunti i pesanti ritardi accumulati negli hinterland e alle frontiere a causa dei controlli al personale viaggiante. Ciò ha provocato congestioni in banchina e file interminabili di camion e assembramenti di autotrasportatori ai gate portuali, come è stato denunciato da un sindacato di base ai varchi del porto di Genova Voltri. In alcuni casi, i porti hanno cercato di ridurre la congestione evacuando i container d’importazione in massa su rotaia verso depositi retro-portuali.
In ogni caso, le prime conseguenze dell’emergenza sulla catena marittimo-logistica iniziano a vedersi. Quelle che vedete nella foto sopra sono le gru del Voltri Terminal Europe di Genova. L’ho ricevuta qualche giorno fa da un portuale che ha aggiunto che da anni non si vedeva la banchina così vuota di mercoledì. Nel porto di Genova si è registrata una riduzione consistente dei volumi dal Far East causata dalla riduzione drastica dell’export cinese nel mese di febbraio che, per i tempi di transito, ha avuto un impatto qui trenta giorni dopo.
A marzo l’import dalla Cina è calato di un terzo. Al porto di Genova, primo scalo italiano, porto pubblico ma con i servizi e le banchine in concessione ai privati, la Compagnia Unica dei portuali conserva l’esclusiva funzione di fornire a chiamata il lavoro temporaneo a integrazione del personale delle imprese private che operano sui terminal. In questi mesi i portuali della riserva di manodopera fornita dalla Compagnia, insieme ai lavoratori diretti dei terminal, hanno garantito il carico e lo scarico delle merci senza mai fermarsi. All’inizio dell’emergenza a Voltri hanno indetto uno sciopero per costringere la creazione di un tavolo di trattativa tra sindacati, imprese e Autorità di Sistema Portuale allo scopo di stabilire le linee guida necessarie alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in tutto il porto. Quando è arrivato il calo dei traffici, i portuali della riserva hanno visto ridursi per primi gli avviamenti al lavoro. Il Decreto Rilancio del 19 maggio scorso, che contiene le disposizioni sul settore del lavoro portuale, prevede per la riserva di manodopera dei porti italiani risorse per due milioni di euro e la proroga delle autorizzazioni per la fornitura di lavoro portuale temporaneo.
Di fronte al calo dei traffici, le imprese terminaliste sono corse ai ripari riducendo le chiamate della manodopera temporanea e usando la cassa integrazione per i propri dipendenti. Ma poche tra queste imprese avevano reale necessità di usare la cassa. Alcune hanno pensato di predisporla per i dipendenti a condizione che in caso di bisogno questi sarebbero stati chiamati con il “massimo preavviso possibile”. In altri termini, hanno adottato il modello del lavoro a chiamata anche per i dipendenti. Un rappresentante sindacale, nel corso di un’intervista, ha spiegato che alcune di queste imprese, dopo aver messo in cassa integrazione una parte dei lavoratori, hanno poi chiesto straordinari e cambi turno a quelli rimasti: un ricorso alla massima flessibilità che cozza con quello degli ammortizzatori sociali a carico dello stato e con l’organizzazione del lavoro in porto, che per i picchi di lavoro prevede l’uso della manodopera temporanea fornita dalla Compagnia.
In uno dei terminal i sindacati confederali hanno indetto lo stato di agitazione e conseguente blocco degli straordinari. Con il passare delle settimane le tensioni sono aumentate ed è stato necessario l’intervento dell’Autorità Portuale, che in una nota indirizzata alle imprese terminaliste ha richiamato al rispetto delle norme che regolano i contratti di lavoro, gli orari, le prestazioni straordinarie e i regimi di flessibilità, ricordando che il mancato rispetto di tali norme sarebbe sanzionabile dall’Autorità stessa.
Questa la situazione al 20 maggio 2020. Da un lato analisti e addetti ai lavori che decantano le infinite potenzialità dell’innovazione digitale e dell’automazione dei processi di movimentazione delle merci, dell’Amazon effect e delle nuove tecnologie che rivoluzioneranno le supply chain del futuro; dall’altro un presente fatto di imprese che raschiano il fondo del barile per trarre qualche profitto dall’emergenza, e di una forza lavoro che non si è mai fermata, e che anzi ha avanzato delle rivendicazioni per poter continuare a lavorare in sicurezza. Nel frattempo è arrivata la notizia che la nuova piattaforma logistica di Amazon a Genova diventerà operativa nell’autunno 2020. Una superficie di settemila metri quadrati. Cercano personale. (andrea bottalico)