27 Aprile 2020
Il testo che segue è una raccolta di voci, una conversazione a distanza tra cinque donne, mamme, compagne, mogli, sorelle di detenuti rinchiusi nel carcere di Opera, a Milano.
A Opera, da quasi due mesi la situazione è tesissima. Gli eventi sono precipitati con la rivolta del 9 marzo scorso, ma sono tanti i familiari che denunciano, fin da prima della rivolta, provocazioni, violenze, atteggiamenti al di fuori delle regole da parte di agenti della penitenziaria e un funzionamento farraginoso dell’intero sistema carcerario.
Molte delle donne che abbiamo intervistato avevano già da tempo costituito delle reti informali di raccolta dati e informazioni. Noi non abbiamo fatto altro che ascoltarle e mettere in ordine le loro storie. Il collage che ne viene fuori risulta forse un po’ complesso da seguire, ci sembrava però importante metterle in relazione, esattamente come stanno facendo loro da mesi e come hanno continuato a fare in queste di settimane di quarantena.
Oltre alle denunce da loro direttamente effettuate, una parte consistente delle notizie raccolte da Alfonsina, Angela, Beatrice, Federica e Marika, ha contribuito alla formulazione di un esposto presentato alla Procura di Milano dall’associazione Antigone e a denunce legali e a mezzo stampa di altre realtà che si interessano dei diritti dei detenuti come Yairaiha o Acad, Associazione contro gli abusi in divisa. In bilico tra la paura per le ritorsioni che i loro cari potrebbero subire e la voglia di giustizia, queste donne hanno trovato la forza di denunciare quello che succede nel più grande carcere del nostro paese. Ed è a loro che lasciamo la parola.
LA RIVOLTA
Beatrice – Mio figlio mi aveva chiamato il 9 marzo, nel pomeriggio. Mi aveva detto che la situazione era tesa già dal giorno prima, e poi a un certo punto: «Mamma guarda, non so se hai già sentito le notizie dal carcere di Modena (la morte di alcuni detenuti che, secondo le ricostruzioni ufficiali, sarebbero deceduti per aver assunto dosi eccessive di farmaci nel corso di un assalto all’infermeria, ndr). Se ti dovessero chiamare per dirti che mi è successo qualcosa, sappi che io non ho nessuna intenzione di suicidarmi e che non faccio uso di sostanze e quindi mai mi avvicinerò al metadone». Dopo due o tre ore c’è stato un giro di messaggi e telefonate, qualcuno aveva inviato un video girato dalle case intorno al carcere, da cui si vedeva che da una finestra uscivano fuoco e fumo. Io sono corsa lì fuori, ma quando sono arrivata era già tutto blindato dalle forze dell’ordine. Per tutto il tempo che siamo state lì continuavano ad arrivare camionette della polizia, dei carabinieri e della penitenziaria. Da una camionetta è scesa una tornata di agenti in tenuta antisommossa, ha fatto un giro del carcere e poi si è avviata dal lato in cui noi non avevamo accesso.
Luca (da una telefonata registrata dalla moglie Angela)
A – Quando è successo il fatto c’erano degli ufficiali?
L – Certo, c’era il comandante in prima linea, e altri ispettori, c’erano loro in prima linea.
Marika – Il 9 marzo ho sentito mio marito alle due del pomeriggio. Mi aveva detto che c’era del malcontento, perché si vociferava di presunti contagi all’interno del carcere. Dopo qualche ora delle ragazze mi dicono che stavano andando davanti al carcere perché era scoppiato un incendio e stavano picchiando i detenuti. Io abito a Torino, ed era appena uscita l’ordinanza che non potevi muoverti da una regione all’altra. Mio marito è detenuto nel primo reparto, al quarto piano, sezione A. Quello più “caldo”.
RAPPRESAGLIE
Alfonsina – Nei giorni dopo la rivolta li hanno massacrati di botte, mio marito aveva segni rossi sulle braccia, sul corpo, non ha dormito per giorni dal dolore, nessuno gli dava nulla. Gli agenti lo andavano a provocare. Un caporeparto gli ha schiacciato lo stivale sulla gamba dicendo: «Sorridi, sorridi alla telecamera!». Gli hanno tolto le lettere, poi quando hanno cominciato a consegnargliele gliele davano aperte e riattaccate con lo scotch, io non gli ho mai inviato una lettera attaccata con lo scotch in tutto questo tempo.
Luca (da una telefonata registrata dalla moglie Angela)
L – La direzione ha messo agli indagati solo acqua, caffè, gas (due bombolette), zucchero e shampoo. Non ti puoi comprare brioche, nient’altro, neanche a Pasqua e questo non si può fare, non è consentito dalla legge. Se ci sono da pagare danni li paghi al processo, ti fanno colpevole e allora paghi, ma agli indagati non puoi. A parte che c’era gente che non c’entrava niente… Mi hanno detto che al telegiornale il direttore ha negato tutto. Io mi rifiuto di parlarci, sono persone sleali, scorrette. Ti incattiviscono soltanto. I loro colleghi li vedono che si comportano male però non fanno nulla, perché quello è un graduato e se gli fa rapporto il graduato, all’agente lo mettono sul muro di cinta, con turni di merda, e se deve diventare capoposto non lo diventerà mai, è una politica interna tra di loro… Se non ti fai i cazzi tuoi, tu rimani assistente, e allora hanno carta bianca sugli abusi.
A – Ci sono stati altri abusi sui detenuti durante questo mese? Dopo le rivolte…
L – Ma sì, di continuo. Hanno trovato il cellulare a uno nelle scale e lo hanno preso a calci. Tu non puoi prendere a calci uno. Gli trovi il cellulare? Gli fai il provvedimento disciplinare, non hai il diritto di picchiarlo.
Marika – Dal 9 l’ho sentito direttamente il 17 marzo, otto giorni dopo. Mi ha detto che non poteva raccontarmi tutto perché gli staccavano la chiamata. Aveva i segni delle manganellate dappertutto.
Beatrice – La prima chiamata che ho ricevuto dopo gli episodi del 9 marzo è stata circa dieci giorni dopo. Per dieci giorni non ho sentito mio figlio, non sapevo come stava, cosa gli era successo. Su come è iniziata non so dirlo bene. So che a un certo punto sono arrivati questi agenti armati di manganelli e quando loro sono usciti in segno di resa con le braccia sollevate, hanno cominciato a ricevere manganellate in faccia. Mio figlio l’ha presa in fronte, un po’ sul naso, ma è riuscito a ripararsi. Quando sono tornati in cella è stato picchiato una seconda volta. Gli hanno portato via i boxer e le magliette, l’hanno lasciato senza mutande. Dopo abbiamo saputo che sono stati lasciati per molte ore al buio, senza televisione, per uno o due giorni senza mangiare. Tutt’ora una buona parte di quelli che il carcere ritiene aver partecipato alla rivolta non possono fare la spesa, mangiano al carrello. Riso bianco e mozzarella, questo è stato il loro pranzo di Pasqua.
Angela – Stamattina l’ho sentito l’ultima volta. Mi ha detto che la situazione è pesante, che continuano a stargli addosso, a istigarli. Lui cerca di trattenersi, ha già ricevuto la denuncia per la rivolta, dice che l’hanno messo in mezzo. Lui in quel momento stava lavorando, era fuori in corridoio, tanto che al consiglio disciplinare ha richiesto i filmati delle telecamere ma gli hanno detto che non è possibile avere le registrazioni. Il direttore, dato che mio marito li continuava ad accusare, gli ha detto: «Guarda, quello che vi hanno fatto a voi io ce l’ho nel cuore!». Poi mezz’ora dopo all’intervista ha detto di non sapere niente di quello che è successo!
Gli è stato detto che sono stati bloccati i soldi per il risarcimento dei danni provocati al momento della rivolta. Io sono andata a rileggere e ho visto che, se tu hai al di sotto dei duecento euro, non possono bloccarti i soldi. Mio marito ne aveva sessanta. Naturalmente in un periodo come questo oltre al mangiare parliamo di disinfettanti, guanti… i guanti li stanno continuando a riciclare, li tengono su tutto il giorno, le mascherine fanno pietà, le sciacquano e se le rimettono ogni due tre giorni.
Alfonsina – Mio marito è alla prima sezione, quarto piano. La Pasqua l’ho “festeggiata” con una lettera in cui mi diceva che non gli facevano fare la spesa, che li menavano di continuo, che salivano in otto con i manganelli. Ti leggo dalla lettera: “Il direttore ha dato carta bianca di farcela pagare, ci hanno levato le chiamate dei bambini, ci fanno fare a malapena le ore d’aria, a volte ne facciamo una sola, perché siamo in troppi e ci mandano cinque alla volta. Amore fammi trasferire da qui, mi fanno dispetti e provocazioni giorno per giorno”.
Federica – Dopo che ho rilasciato quell’intervista a Rai Tre, il capo è andato subito a rompere le palle a mio fratello, perché io mi sono esposta. È risaputo che il carcere di Opera funziona così, ma noi pensavamo che ci fosse una linea che loro non oltrepassavano, invece con la scusa delle rivolte l’hanno oltrepassata eccome. Li prendevano a manganellate in testa, ci sono foto e video con questi detenuti pieni di ferite, e il direttore ha il coraggio di dire alla Rai che non c’è stato nessun caso di violenza.
PRIMAVERA NON BUSSA
Marika – Dopo qualche giorno mi chiama un familiare di un detenuto: «Guarda che Alex sta male, è stato picchiato, è messo malissimo». Io pensavo mi stesse chiamando “a scoppio ritardato” e si stesse riferendo alle violenze della rivolta. Invece chiedo meglio e mi confermano che stavano continuando a picchiarli. Qualche ora dopo leggo che un detenuto di Torino, nel carcere di Milano Opera, “è ridotto come Stefano Cucchi”. Era il 21 marzo, il giorno in cui inizia la primavera.
Beatrice – Per quello che mi riferisce mio figlio, due settimane circa dopo la rivolta c’è stato sicuramente quest’episodio, causato dal fatto che un detenuto ha fatto un’obiezione alla guardia sulla questione della spesa bloccata. La guardia gli si è rivolta male, lui ha risposto a tono e qualche ora dopo sono tornati in quattro o cinque e l’hanno picchiato, dice che gli hanno spaccato un sopracciglio, lividi in testa, dappertutto…
Marika – Il 22 sento mio marito. Mi dice di far venire subito l’avvocato, che l’hanno massacrato. Aveva chiesto spiegazioni a un agente sul fatto che non gli venisse consegnata la spesa che aveva fatto, ed è scoppiata una lite. Sono arrivati altri cinque agenti, dritti in cella da lui e hanno iniziano a picchiarlo con calci e pugni. Lui ha voluto farsi refertare, ma si sono rifiutati di fargli la tac, nonostante i bozzi e nonostante il dolore alla testa. Abbiamo presentato denuncia alla Procura, al magistrato e siamo in attesa della risposta. Ma la priorità ora è che venga trasferito subito, perché lui è stato il primo a presentare individualmente la denuncia, è pericoloso che stia lì, può succedere di tutto. E infatti mi ha fatto registrare una telefonata in cui mi dice: «Io non mi voglio ammazzare, registralo e avvisa tutti, avvisa gli educatori, gli avvocati!», per farti capire cosa può succedere. Io la notte mi sveglio con quelle parole nelle orecchie. Deve andare via di lì, soprattutto da quando c’è la denuncia è incompatibile con quel carcere. La denuncia è stata presentata il 3 aprile, a oggi non abbiamo nessuna notizia.
VISTI DA FUORI
Beatrice – Mio figlio ha un fine pena al 2024. È in carcere da cinque anni, ne ha venticinque adesso. Fino a che non è finito a Opera stava facendo un percorso che faceva ben sperare; prima era a San Vittore, ha fatto dei corsi in carcere, adesso a Opera dovrebbe fare la maturità, mi ha detto che quando finisce vuole iscriversi all’università, lui che aveva lasciato la scuola prima dei diciott’anni. Sta studiando finanza e marketing. Adesso non so come si evolverà la situazione, ma quest’anno avrebbe dovuto fare la maturità.
Quella del carcere era una realtà sconosciuta per me, anche se abito in una zona come Quarto Oggiaro. Io ci sono nata, ma ho sempre avuto frequentazioni con persone regolari. Così ho dovuto rivedere un po’ certe posizioni, magari cinque anni fa sarei stata più dura, del tipo “chi sbaglia si deve assumere le responsabilità delle sue azioni” e punto, credo che il pensiero generale sia questo. Io non sono una di quelle “amnistia e indulto” senza se e senza ma, però una condizione più dignitosa per tutti… Mi sono scontrata con persone che conosco da anni e che partivano da un pregiudizio del carcere. Per dire, il non poter fare la spesa, sembra una cosa da nulla vista da fuori, tu dici “ma che problema c’è”, e invece una volta che entri in questo circuito capisci quanto è importante la spesa, crea rapporti, coinvolge persone. In tre fanno la spesa e in cinque mangiano, perché magari quei due non hanno nemmeno chi gli versa i soldi. Ho visto forme di solidarietà che non mi sarei mai aspettata e ho dovuto rivedere certe idee. Invece è facile dire: “Eh vabbè, tanto mangiano dal carrello”.
A San Vittore mio figlio ha incontrato degli educatori molto bravi. Non perché è core de mamma, ma mio figlio ha delle potenzialità che io mi incazzo quando penso a tutto quello che ha buttato via; però poi dico che c’è sempre tempo, uno può sbagliare, però aiutalo, aiutalo a tornare una persona che può essere inserita in un tessuto sociale. Da quando invece è in questo reparto, al primo reparto a Opera, la situazione è molto peggiorata. Ha avuto una serie di rapporti negli ultimi tempi per delle discussioni con le guardie, mentre invece l’unico rapporto a San Vittore l’aveva preso perché lavorava in cucina e aveva fatto col suo amico una guerra con la farina e le uova, cioè, per farti capire, aveva vent’anni… In ogni caso il magistrato non gli ha concesso l’affidamento, anche se ha scritto che i rapporti erano stati tutti per futili motivi.
Con l’arrivo del nuovo direttore è arrivato un nuovo entourage di guardie, gli atteggiamenti sono stati molto diversi e a quel punto anche le risposte da parte dei detenuti lo sono state. A Opera gli educatori hanno un ruolo marginale, forse perché i detenuti sono moltissimi e loro sono pochi, a San Vittore c’era una continuità diversa. Fatto sta che l’ultimo anno l’ha indurito molto, perché se tu provi a impegnarti in una cosa e poi invece…
Ormai ho smesso di dirlo, ma è un’ingiustizia il motivo per cui mio figlio sta dentro, un reato che non è mai esistito, un processo allucinante. Lui faceva parte di un gruppetto di ragazzi che nel quartiere rompevano veramente le palle, erano fastidiosi, ma la situazione del reato è stata creata ad hoc, non c’è stata nessuna rapina, c’è stata una scazzottata con il titolare di questa attività, un parrucchiere per uomo, fuori l’attività, poi sono arrivati altri amici di mio figlio ma nessuno di loro è mai entrato nel negozio, la discussione è avvenuta fuori, poi dalle parole sono passati ai fatti. Anche il carabiniere ha testimoniato che lui l’unica cosa che ha visto è stato un labbro leggermente tumefatto, tanto è vero che l’ambulanza che è arrivata non l’ha nemmeno soccorso. Insomma, una lite, lo hanno testimoniato anche gli altri negozianti. Però lui ha detto che gli erano spariti trecentottanta euro dalla cassa e si era trattato di una rapina.
Angela – Mio marito è dentro per tentata rapina. Ha avuto una condanna di quattro anni e due mesi, poi è arrivato a tre anni e sei. Prima di entrare a Opera era al carcere di Como, ha lavorato per otto mesi, non ha mai creato disturbi. È stato trasferito a Opera dove non gli hanno dato la possibilità di lavorare, l’hanno messo in un reparto di nuovi giunti dove doveva stare temporaneamente mentre è lì dallo scorso giugno, senza nessuna motivazione. Dovrebbe essere seguito dal Sert, a Como era seguito dall’assistente sociale con una relazione stra-positiva, ma a tutte le domande ha avuto risposta negativa. Da quando è a Opera non ha effettuato un solo colloquio con l’assistente sociale che si occupa di dipendenze.
Io faccio la cameriera in un ristorante e poi faccio servizio catering. Quando ho le due cose nella stessa giornata tiro avanti anche per diciotto-venti ore di seguito. Perché comunque sia, a fine mese l’affitto da pagare c’è, le spese pure, la scuola costa. Poi ho paura di mettermi in mano agli assistenti sociali, anche se ho la coscienza a posto. Però, essendo una mamma sola, con tre figli, magari dicono “questa sbatte i bambini a destra e a sinistra per andare a lavorare”. Il papà è in galera, lei poco presente, si è vero il frigo non è vuoto, ai bambini non manca niente, ma magari si possono aggrappare ad altre cose. I bambini vanno una volta dai nonni materni, una volta da quelli paterni. Certo non è facile, poi c’è il calcio, la ginnastica artistica, la scuola, il catechismo, per una mamma sola diventa tutto più difficile.
Da quando ho avuto i figli non avevo mai lavorato. Lo facevo prima, poi ho fatto la mamma a tempo pieno per nove anni, però l’anno scorso ho detto basta, mi devo rimettere in piedi. Avevo ricevuto uno sfratto e ho cambiato casa, siamo andati a Rozzano e un po’ alla volta…
Alfonsina – Abbiamo due bambini, di uno e quattro anni. Quando mio marito è stato arrestato mi sono trovata incinta di cinque mesi, con una bambina di tre anni, da sola, tutti i parenti a Napoli, fuori dal mondo. Ho avuto la depressione post-parto, ho fatto richiesta di aiuto perché da sola in casa non riuscivo a gestire due bimbi, non me l’hanno accettata. Sono stata dallo psicologo, ho fatto la richiesta di “Mammo”, ho dimostrato che lavoro in una ditta di pulizie e che quello che prendo devo darlo a una baby-sitter, così abbiamo chiesto che mio marito tornasse a casa per guardare i suoi figli, con i domiciliari. Hanno rigettato anche quella.
Con mio marito ci siamo sposati in carcere. È stato un giorno particolare, siamo arrivati là alle 10, io potevo portare solo le fedi e il bouquet, lui poteva prendere i pasticcini e le cose da mangiare. C’era una sala con un divano, le cose da mangiare, ci hanno sposato e poi ci hanno fatto stare tre ore da soli. Mia suocera ha fatto da testimone, la suora e gli altri due sono andati via e siamo rimasti noi con i bimbi. Da lì sono cominciati i problemi. Tutto è partito dal fatto che quando lui mi ha salutato mi ha preso in braccio, la guardia è arrivata e ha fatto una battutina. Mio marito non se l’è tenuta e ha risposto. Poi dopo, finito tutto, gli fa: «Vi ho lasciato la torta, se la volete mangiare, la mangiate». La guardia di nuovo non so cosa gli ha risposto e così mio marito ha preso la torta e gliel’ha lanciata in faccia.
Gli hanno fatto un rapporto, lo hanno messo in isolamento, gli facevano i dispetti, lo lasciavano giorni interi senza mangiare… Ha fatto quindici giorni di cella liscia, gli davano sempre il riso in bianco, io gli portavo cose e loro non gliele facevano arrivare, neanche le lettere. Dopo quindici giorni di cella liscia e otto mesi di isolamento è rientrato in sezione, ma hanno continuato a fargli dispetti. Per avere le foto del matrimonio ho aspettato un anno. Abbiamo richiesto la ludoteca per i bambini ma non è mai stata accettata, chi ha bambini piccoli ne ha diritto, è una stanza un po’ più grande delle altre con i giochi dove noi potremmo essere presenti. Richieste su richieste, sempre ignorate, non arrivano proprio perché quando lui le dà agli agenti penitenziari, quelli strappano le domandine. Gli agenti non si sanno comportare, gliel’ho detto al direttore, sono giovani e si sentono superiori. Con quelli che hanno cinquanta o sessant’anni, con più esperienza, già è diverso.
Federica – Io lavoro in una Rsa, quando è tutto pieno sono ottantanove ospiti, adesso siamo arrivati a sessantaquattro, abbiamo avuto cinque morti. Sperando che si fermi, perché da noi è scoppiato tutto due settimane fa, ci sono arrivati pochissimi tamponi, sono risultati quasi tutti positivi.
Io ho finito il turno da poco, sono venuta da mia madre e subito mi sono lavata, altrimenti non vedo nemmeno più i bambini. Se la mattina non lavoro, riesco a venire qua senza problemi, mentre se lavoro, e il pomeriggio devo rientrare, faccio una scappata. Mangio, mi lavo e vengo, perché non posso venire senza lavarmi. Mia madre ha settant’anni e ha la bronchite cronica, è per lei che mi preoccupo. Prima con lei viveva mio fratello, ma dal 2008 è dentro per rapina e un’associazione per spaccio. Lui non ha figli, ha trentasei anni, ne deve scontare ancora quattro.
Marika – Ci siamo sposati due anni fa, nel carcere. Siamo stati noi a dare il via, poi altre coppie l’hanno fatto. Nel suo brutto è stata una giornata bella, siamo stati insieme tante ore. Era importante sposarci, anche perché come “compagna” molti diritti sono minori, tutte le cose burocratiche sono più difficili.
Io insegno elettronica, sistemi e automazioni in una scuola superiore. Mio marito è dentro per rapina. Deve scontare fino al 2025, ha avuto una pena di ventidue anni ma è a Milano “solo” da due. Era il 15 di novembre del 2018. Io stavo entrando a lavorare, mi chiama una ragazza che aveva il fidanzato con lui a Vercelli e mi dice che Alex è stato trasferito, l’avevano portato a Opera. Io non sapevo manco dove stava Opera. Ho dovuto aspettare più di venti giorni per avere una sua chiamata. Le richieste per un nuovo trasferimento sono state sempre rifiutate, e non è mai stato motivato il suo spostamento a Milano. Sì, aveva delle frizioni con delle guardie, ma non ha mai avuto un provvedimento scritto che motivava il trasferimento.
Così, da due anni, una volta a settimana mi faccio Torino-Milano. Parto alle 5,30 e arrivo al colloquio delle 9. Fino a qualche tempo fa lavoravo in un call-center, ma ho perso il lavoro perché attaccavo alle tre e spesso arrivavo in ritardo, oppure non potevo fare i turni. Così non mi hanno rinnovato il contratto. Da quando lavoro a scuola la cosa è ancora più complicata. Prima del virus, ci vedevamo una volta al mese per quattro ore. Lui è esausto, si è fatto già dieci anni praticamente consecutivi, dai ventidue ai trentadue… Tra un anno scenderebbe sotto i quattro anni, ma non può rimanere lì. Lui prima lavorava in sezione, nelle pulizie, una cosa che serve anche durante il giorno a tenerti la testa impegnata. Lo dovevano trasferire nella comunità interna, per due volte gli hanno detto che c’erano quasi, poi dopo quattro cinque mesi gli dicevano di no, senza motivare la richiesta. Stanno facendo un lavorio psicologico. Sto combattendo per portarlo via di lì, c’è un’incompatibilità, dopo quello che è successo ancora di più, considerando la denuncia che abbiamo fatto.
APRILE
Angela – Quando mi fa la videochiamata, da due mesi a questa parte, la prima cosa non è il classico: «Ciao, come va?», ma: «Come ti senti? Hai qualcosa? Febbre? Come sta la tua sezione?», il primo pensiero va là. «Quando arrivano le mascherine? Le guardie le mettono?». Poi dopo le rivolte, quando sono iniziate le violenze, ogni giorno l’angoscia è doppia. Se capita che mi deve chiamare e gli posticipano la chiamata al giorno dopo, immagina come passo le giornate. Mi dice che ci sono tante guardie giovani che sono montate di testa e ti istigano in ogni cosa.
Beatrice – È passato un mese e venti giorni dalle rivolte, mio figlio è chiuso in cella non solo con la porta blindata, ma anche la finestrina del blindo gli hanno chiuso. Da un paio di settimane fanno di nuovo un’ora d’aria al giorno, stanno cercando di avere anche la seconda ma non riescono, li fanno uscire in gruppi di quattro o cinque per motivi di sicurezza. Ha passato una settimana senza televisione, poi gli è stata rimessa e poi gli è stata ritolta, non gli permettono di sapere come sta andando fuori e questo aumenta la tensione.
L’altro giorno durante la videochiamata una ragazza del gruppo ha sentito gridare e subito dopo si è trovata davanti la sedia vuota, ha visto gli agenti correre via e anche i detenuti, ma che cosa è successo non si sa. Mio figlio qualche giorno fa ha sentito dei rumori nel corridoio, ha preso uno specchio e ha cercato di guardar fuori cosa succedeva e questo è tutto. Gli hanno fatto un rapporto e gli hanno dato “istigazione alla rivolta”, perché secondo loro guardando dal corridoio lui avrebbe potuto o voluto avvisare gli altri detenuti. Ma lui dice: «Io sono in fondo al corridoio, a chi dovevo avvisare?». Lui non si è presentato al consiglio disciplinare, ha detto che è inutile andare, perché tanto scrivono quello che vogliono loro.
VISTI DA DENTRO
Beatrice – Ho sempre parlato tanto con i miei figli, ho sempre pensato che fosse giusto dargli la libertà, la responsabilità e non ti nascondo che adesso mi chiedo se questa cosa non sia stata sbagliata. Però ho un’altra figlia che si sta laureando in medicina, un’altra che ha diciassette anni e con tutti i problemi dell’adolescenza è comunque in un canale di normalità… non lo so cosa sia successo con lui, me lo chiedo spesso, mi faccio una retrospettiva, ma purtroppo a questa domanda non riesco a rispondere.
Mio figlio, a parte l’ultimo anno, l’ho sempre visto sorridere davanti a tutto, nonostante si stia facendo la galera pensando ogni sera che quella cosa lì non se la merita. Voglio dire, non è che l’hanno pescato dall’asilo delle suore e l’hanno messo lì, però sta pagando un prezzo altissimo, tra l’altro lo sa bene che se avesse confessato una rapina che non c’è stata e avesse patteggiato, a quest’ora sarebbe già fuori.
Un accanimento come quello che sto vedendo in questi giorni è difficile da mandare giù. Sicuramente ci saranno delle ripercussioni disciplinari, dopo questa cosa delle rivolte l’affidamento al lavoro non glielo daranno, per i prossimi due anni se lo scorda. Ed è una follia, perché così davvero ti fai nove anni di carcere filati. Lui un giorno mi ha detto: «Mamma, tu credi davvero che fuori da qua, anche se mi dovessi diplomare o andare all’università, potrò avere una possibilità con questo passato?». Questo è stato uno dei pochi momenti d’ombra che ho visto nella nostra storia, perché mio figlio è uno molto positivo, non so come faccia, forse è anche facciata, perché probabilmente dentro non è così.
Angela – Questa situazione mi ha reso più forte. Un conto è quando si è in due a tirare su una famiglia, un conto è quando all’improvviso ti ritrovi da sola. Io ho tre bambini piccoli, il più grande ha dieci anni, l’ha presa molto male, aveva iniziato a giocare a calcio invogliato dal papà e dopo neanche due settimane lui è stato arrestato. Non ha mai visto una sua partita di calcio. Naturalmente a quest’età ha bisogno di confrontarsi con un uomo, con un riferimento maschile. Ma anche la bambina, che di anni ne ha sette anni, sente la mancanza del papà. Quando siamo a colloquio e finisce il tempo li devi trascinare via con la forza, spesso tra i pianti.
La speranza. Questo mi tiene in piedi. Non è mai morta in ventuno anni. Spero sempre che qualcosa cambi. Negli ultimi due anni ne ho passate tante, ma in quest’anno ho cambiato la mia vita dal punto di vista lavorativo, ho ripreso la casa, mi sono ripresa la macchina, ero rimasta senza niente, ero tornata dai miei genitori… Lui ha visto che mi sono rimboccata le maniche, che ho lavorato giorno e notte, che andavo a colloquio con gli occhi chiusi perché ero cotta. E mi dice che gli ho dato la forza di dire: «Basta, mi devo godere i miei figli!». Anche perché poi forse sarò anche un po’ crudele, però voglio che lui le capisca certe cose. Il bambino gioca una bella partita? Gli faccio rodere che lui non c’era. La bambina fa la gara? Lo faccio infastidire e dire: «Porca miseria, non ho visto la prima gara di mia figlia!». Naturalmente tra le righe, gioco un po’ di psicologia, anche questo è un lavoro difficile. A ottobre del 2023 finirà la pena. Vedremo. (riccardo rosa – con la collaborazione di: rete emergenza carcere)
PS. Nella giornata di ieri, 26 aprile, tre dei detenuti del carcere di Opera che hanno sporto denuncia per gli abusi subiti durante e dopo le rivolte dello scorso marzo, sono stati trasferiti in altre carceri e al momento non è dato sapere dove. Sono i detenuti le cui familiari avevamo intervistato e che avevano rilasciato una intervista al Tg3 Lombardia nelle scorse settimane, denunciando quanto avvenuto a Opera negli ultimi due mesi. Nelle scorse settimane erano fioccate a Opera le minacce di trasferimenti in carceri della Sardegna, un luogo dove i collegamenti diventano difficilissimi, e che per le famiglie risulta, soprattutto durante l’inverno, proibitivo da raggiungere. Pubblichiamo a seguire la lettera indirizzata al direttore del carcere e firmata da Federica e Alfonsina, i cui rispettivi fratello e marito sono tra i tre detenuti di cui al momento non ci sono notizie.
Ieri ho appreso la notizia del trasferimento dal carcere di Opera di mio fratello e di altri tre detenuti. A oggi non sappiamo dove siano stati trasferiti. Questa scelta di trasferirli è solo il frutto di una ignobile ritorsione nei confronti di chi dopo il 9 marzo ci ha messo la faccia denunciando ai giornalisti, alle associazioni e ora anche in Procura, il trattamento subito dai nostri fratelli, mariti, figli.
Dopo botte, umiliazioni, pressioni psicologiche continue e la sospensione del vitto; dopo avergli tolto acqua, ciabatte, fornelli, tv; dopo avergli tolto quel poco che gli rimaneva, hanno deciso che non bastava, volevano di più, togliendoli il diritto, già in parte negato, della salute, mettendo a rischio loro e altri detenuti che incontreranno nel nuovo carcere.
In questo triste momento che l’intera Italia sta passando per il Covid, ci sono famiglie lasciate sole nello sconforto che stanno aspettando una semplice chiamata o messaggio per sapere dove siano finiti i loro cari, anche perché casualmente hanno aspettato il venerdì per i trasferimenti.
Abbiamo chiamato dieci carceri, dove ci rispondono che non si può sapere nulla, se non tramite mail pec di un legale, ma sanno bene che passeranno giorni con feste di mezzo.
Cosa vuole dimostrarci il direttore di Opera? Che comandano loro? Questa è la giustizia in Italia? Bene, sappia pure che ci troverà sempre qui a lottare per la vita e la dignità dei nostri fratelli, mariti, figli, compagni detenuti.
Caro direttore il messaggio mio le è arrivato tramite telegiornale, il suo è arrivato tramite una moglie di un altro detenuto. Io ci ho messo la faccia, lo faccia anche lei.
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FONTE: https://napolimonitor.it/dopo-la-rivolta-cinque-voci-di-donna-sul-carcere-di-opera/